Il 7 luglio 1893 nasceva a Bagdati, in Georgia, Vladimir
Vladimirovič Majakovskij, grande poeta e drammaturgo russo.
In suo onore la
città natale di Bagdati fu chiamata, dal 1940 a 1990, con il suo nome:
Majakovskij.
Suo padre era un nobile decaduto che si prestava a lavori umili. Negli anni
dell’infanzia del poeta faceva il guardiaboschi.
Rimasto orfano di padre a soli sette anni, trascorse periodi difficili. A
tredici anni si trasferì a Mosca con la madre e le sorelle.
Studiò al ginnasio
fino al 1908, quando si dedicò all'attività rivoluzionaria. Aderì al Partito
Operaio Socialdemocratico Russo e venne per tre volte arrestato e poi
rilasciato dalla polizia zarista.
Frequentò il carcere per brevi periodi di tempo, prima di iscriversi - nel 1911
- all'Accademia di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca: qui ebbe
l'opportunità di incontrare David Burljuk, che gli offrì 50 copechi al giorno
per scrivere, dopo aver letto con entusiasmo alcuni suoi versi.
Nel maggio del 1913, quindi, Vladimir Majakovskij ebbe l'opportunità di
pubblicare in trecento copie litografate "Ja!" ("Io!", in
italiano), la sua prima raccolta di poesie: pochi mesi dopo una
rappresentazione teatrale omonima, in cui venne lanciata da Vladimir la celebre
equazione che equipara il futurismo alla rivoluzione russa, fu messa in scena
in un teatro di San Pietroburgo.
Aderì quindi al cubofuturismo russo, firmando nel 1912 insieme ad altri artisti
(Burljuk, Kamenskij, Kručёnych, Chlebnikov) il relativo manifesto.
Il Futurismo
(o Cubofuturismo) russo ebbe due periodi di sviluppo: tra il 1910 e il 1915,
sotto l’influenza soprattutto di Chlebnikov; tra il 1918 e il 1930, sotto
quella di Majakovskij.
Velimir Chlebnikov, promosse nel 1909 la pubblicazione del primo almanacco
futurista, dando il via al movimento.
L’irruzione della modernità si sposò,
nell’opera di Chlebnikov, al recupero delle grandi civiltà del passato,
soprattutto asiatiche, condotto per mezzo di un impiego personalissimo del
linguaggio.
Majakovskij, come detto, firmò il manifesto «Schiaffo al gusto corrente»,
mettendosi presto in risalto.
Seguirono anni di laborioso apprendistato
letterario, vissuti con l’entusiasmo delle serate futuriste, delle redazioni di
giornali d’avanguardia, dell’attesa di uno scoppio rivoluzionario.
L’esperienza
della guerra inorridiva il poeta. Dopo vari lavori teatrali e poetici (tra cui
“La nuvola in calzoni”, 1915), pubblicò “Il flauto di vertebre” nel 1916. Allo
scoppio della rivoluzione bolscevica si impegnò in prima linea per «consegnare
tutta la letteratura a tutto il popolo»: la creazione di un’arte nuova,
autenticamente liberata dalle convenzioni borghesi e disponibile alla nuova
società proletaria, fu al centro della sua ricerca, tanto teorica e creativa
quanto organizzativa. Accanto ai numerosi impegni ufficiali s’incaricò di
realizzare le «finestre» (manifesti di propaganda), componendone oltre tremila
tra il 1919 e il 1923. Nel 1920 uscì anonimo il poema “150.000.000”, dedicato
alla rivoluzione socialista.
Majakovskij mise così la sua arte, così ricca di pathos, al servizio della
rivoluzione bolscevica, sostenendo la necessità d'una propaganda che attraverso
la poesia divenisse espressione immediata della rivoluzione in atto, in quanto
capovolgimento dei valori sentimentali ed ideologici del passato.
Il futurismo russo fu diverso da quello italiano, sotto alcuni importanti
aspetti. Quando nel 1914 Marinetti si recò a Mosca l'attenzione che i giornali
e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa
attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di
ostacolare la visita di Marinetti. Quest’ultimo tentò invano di chiamare i
futuristi russi a unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori
poeti russi, Chlebnikov, Livsic, Majakovskij e anche il regista Larionov
criticarono Marinetti.
In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei
futuristi italiani, criticato da Majakovski, ma fu accompagnato da un'utopica
idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del
mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al
bolscevismo, mentre il futurismo italiano, soprattutto quello della seconda
stagione, ebbe un effettivo legame con il regime fascista.
La voracità intellettuale di Majakovski fu leggendaria, la sua presenza fisica
imponente ne fece una sorta di divo spettacolare.
Il successo debordante e del
tutto imprevisto.
L'adesione di Majakovskij alla Rivoluzione d'Ottobre lo rese
ancor più popolare e amato. La celebrazione dell'industrializzazione sovietica,
poi, non fece altro che proiettarne la figura ai ranghi elevati
dell'intellighentsija rivoluzionaria.
Nel maggio del 1925 partì alla volta dell'America, che raggiungerà nel luglio
dello stesso anno per trattenervisi circa tre mesi annotando versi e
impressioni su un taccuino. Tornato in URSS pubblicò 22 poesie del cosiddetto
“Ciclo americano” su alcune riviste e giornali nel periodo compreso tra il
dicembre del 1925 e il gennaio 1926 e gli scritti in prosa nel 1926 con il
titolo di La mia scoperta dell'America.
Da questi scritti l'atteggiamento di Majakovskij nei confronti degli Stati
Uniti appare contraddittorio, passa infatti a momenti di entusiasmo e
attrazione ad altri di rabbia per le condizioni di semischiavitù degli operai delle
fabbriche.
Nel 1926 Majakovskij si cimentò in molti cinescenari: "Ragazzi",
"L'elefante e il fiammifero", "Il cuore del cinema, ovvero il
cuore dello schermo", "Come state?", "L'amore di
Sckafoloubov, ovvero due epoche, ovvero un cicisbeo da museo" e
"Dekabriuchov e Oktiabriuchov".
Successivamente pubblicò il dramma "Mistero buffo", in cui delineò
gli aspetti comici della rivoluzione: sempre sulla stessa scia si inserirono le
commedie "Il bagno" e "La cimice" e i poemi
"Bene!" e "Lenin", in cui manifestò e rappresenta in modo
critico i problemi della quotidianità del mondo borghese.
L'ultima opera di Majakovskij, uno dei punti più alti della sua poesia, fu il
prologo di un poema incompiuto, ”A piena voce”, del 1930, che potrebbe quasi
dirsi il suo testamento spirituale.
Sovente Majakovskij è stato considerato per antonomasia il poeta della
Rivoluzione: tra le tantissime voci poetiche che la Russia seppe regalare alla
cultura mondiale nei primi decenni del Novecento, quella di Majakovskij è stata
spesso vista come la più rispondente ai dettami della Rivoluzione bolscevica.
Majakovskij decise di interrompere violentemente la sua esistenza, con un colpo
di pistola al cuore, il 14 aprile del 1930, a 37 anni.
Mai del tutto chiariti i
motivi del gesto.
Forse le crescenti critiche dell’apparato statale, ormai
burocratizzato.
Forse qualche vicenda passionale. Probabilmente la somma di
tante insoddisfazioni.
Serena Vitale, nel suo libro “Il defunto odiava i pettegolezzi” (Adelphi
Fabula), compie una minuziosa indagine documentaria, ricostruzione e racconto
del suicidio di Majakovskij. “Il cadavere di Majakovskij, riportano i verbali,
indossa una camicia di colore giallastro con una cravatta nera (a farfalla)…
Sulla parte sinistra del torace c’è un foro di forma irregolare… La
circonferenza del foro presenta segni di bruciatura. Da anni ha dismesso il
giallo esuberante cantato nella Blusa del bellimbusto: “Io mi cucirò neri
calzoni / del velluto della mia voce. / E una gialla blusa di tre tese di
tramonto”. Nei ricordi della sorella Ljudmila, i ragazzi Majakovskij avevano
amato il giallo fin dall’infanzia perché simboleggiava l’originaria Georgia
assolata”.
Ha scritto Cecilia Bello Minciacchi su “Il Manifesto” del 7.6.2015:
“Era
diventato politicamente ingombrante, Majakovskij, il poeta della rivoluzione, e
vulnerabile. Alla vigilia della morte era pieno di furore e di rabbia, e di
amore, eppure non lo abbandonava l’autocoscienza:
«Conosco la forza delle
parole lo scampanare a stormo / un niente sembra / petalo schiacciato dai
tacchi delle danze / ma in anima e labbra e scheletro l’uomo»”.
Nella sua lettera di commiato scrisse:
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi.
Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non
è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja,
amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle
e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa,
ti ringrazio. Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è
spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare
offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”.