venerdì 29 aprile 2022

La Torre pendente - Gianni Rodari

Il professor Grammaticus, una volta andò a Pisa, salì sulla Torre pendente, aspettò che gli passasse il capogiro e cominciò a gridare:

– Cittadini! Pisani! Amici miei!

I Pisani guardarono per aria e si rallegrarono:

– Oh, la Torre s’è messa a parlare e a fare i discorsi.

Poi videro il professore, e lo udirono continuare:

– Sapete perchè la vostra torre pende? Ve lo dirò io. Non date retta a quelli che vi parlano di cedimenti del sottosuolo, e così via. C’è, è vero, nelle fondamenta un piccolo errore, ma è di tutt’altro genere. Gli architetti di una volta non erano assai forti in ortografia. Così è successo loro di costruire una torre che stava in “ecuilibrio”, anziché in “equilibrio”. Mi spiego? In “ecuilibrio” sulla “c” non ci starebbe nemmeno uno stecchino: figuriamoci un campanile. Ecco dunque pronta la soluzione. Iniettiamo nelle fondamenta una piccola dose di “q”, e la torre si raddrizzerà in un attimo.

– Mai sia! – gridarono ad una voce i Pisani. – Torri diritte ce ne sono in ogni angolo del mondo. Quella pendente ce l’abbiamo solo noi, e dovremmo raddrizzarla? Arrestate quel pazzo. Accompagnatelo alla stazione e mettetelo sul primo treno.

Il professor Grammaticus fu preso per le braccia da due guardie, accompagnato alla stazione e messo sul primo treno: un omnibus per Grosseto che si fermava ad ogni passo e impiegò mezza giornata a fare cento chilometri. Così il professore ebbe modo di meditare sull’ingratitudine umana. Egli si sentiva abbattuto come Don Chisciotte dopo la battaglia con i mulini a vento. Ma non si scoraggiò. A Grosseto studiò le coincidenze e tornò a Pisa di nascosto, deciso a fare la sua iniezione di “q” alla Torre Pendente a dispetto dei Pisani.

Per caso, quella sera, c’era la luna. (Anzi, non per caso: c’era perché ci doveva essere). Al chiaro di luna la torre era così bella, pendeva con tanta grazia, che il professore rimase lì estatico a rimirarla e intanto pensava:

– Ah, come sono belle, certe volte, le cose sbagliate!

- Gianni Rodari -
brano tratto da “Il libro degli errori”, 1964

Photo of Jan Drewes, 3 sett. 2007, ore 00:12:40

“In aggiunta a questo declino nel livello medio di intelligenza, che è comunque contestato, vi è anche l'impoverimento della lingua. Numerosi studi mostrano un restringimento del campo lessicale ed un impoverimento della lingua. Non è solo questione di una riduzione del vocabolario usato, ma anche delle sottigliezze del linguaggio che permettono l'elaborazione e la formulazione del pensiero complesso.

La progressiva sparizione dei tempi...porta ad un pensiero nel presente, limitato all'istante, incapace di proiezione nel tempo. La generalizzazione dell'approccio familiare, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono tutti colpi mortali alla sottigliezza dell'espressione.

La storia è ricca di esempi e di molti scritti, da Georges Orwell in 1984 a Ray Bradbury in Fahrenheit 451, che hanno raccontato come le dittature, di ogni schieramento, hanno impedito il pensiero riducendo e distorcendo il numero ed il significato delle parole. Non vi è pensiero critico senza pensiero. E non vi è pensiero senza parole.”

- Christophe Clavé -
 da: Baisse du QI, appauvrissement du langage et ruine de la pensée , Agefi, 2019


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mercoledì 27 aprile 2022

Il muro - Don Angelo Maria Zanzottera

 In un deserto aspro e roccioso vivevano due eremiti.

Avevano due grotte che si spalancavano vicine, una di fonte all’altra.
Dopo anni di preghiere e di feroci mortificazioni, uno dei due eremiti era convinto di essere arrivato alla perfezione.
L’altro era un uomo altrettanto pio, ma anche buono e intelligente.
Si fermava a conversare con i rari pellegrini, confortava e ospitava coloro che si erano persi e coloro che fuggivano.
“Tutto tempo sottratto alla meditazione e alla preghiera” pensava il primo eremita, che disapprovava le frequenti, anche se minuscole, mancanze dell’altro.
Per fargli capire in modo visibile quanto ancora fosse lontano dalla santità, decise di posare una pietra all’imboccatura della propria grotta ogni volta che l’altro commetteva una colpa.
Dopo qualche mese davanti alla grotta c’era un muro di pietre grigio e soffocante.
E lui era murato dentro.
Talvolta intorno al cuore costruiamo dei muri, con le piccole pietre quotidiane dei risentimenti, le ripicche, i silenzi, le questioni irrisolte, e imbronciature.
Il nostro compito più importante è impedire che si formino muri intorno al nostro cuore.
E soprattutto cercare di non diventare “una pietra in più nei muri degli altri”.
 
(Don Angelo Maria Zanzottera)


Il Muro Occidentale, in ebraico HaKotel HaMa'aravi, è un muro di contenimento risalente all’epoca del Secondo Tempio di Gerusalemme, costruito da Erode il Grande e distrutto dai romani nel 70 d.C. È anche indicato come "Muro del Pianto". Secondo la leggenda l’imperatore Tito lasciò in piedi una parte del muro come monito ai giudei che si erano ribellati a Roma. Gli ebrei invece lo fanno risalire ad una promessa fatta da Dio, che avrebbe lasciato in piedi alcune parti del sacro tempio, come segno del suo immutato legame con il popolo eletto. Da duemila anni gli Ebrei vi pregano e lo considerano il luogo più sacro della Terra. Anche la tradizione di infilare piccoli fogli di carta (fituch) con preghiere nelle fessure del muro è antica di centinaia di anni.


Anche per i musulmani il luogo è importante: essi credono che Maometto abbia compiuto un viaggio spirituale a Gerusalemme con un cavallo alato, al-Buraq, che poi avrebbe legato a quel muro, il cui nome arabo è appunto "muro di al-Buraq". Nel 687 sul monte del Tempio vennero costruite la cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa.

Nel corso della prima guerra arabo-israeliana (1948), l'area attorno al Muro fu conquistata dall'esercito giordano e agli Ebrei venne negato l'accesso al Muro. Nel corso della guerra dei sei giorni (1967) Israele lo riconquistò.

 

Papa Giovanni Paolo II si recò a Gerusalemme nel marzo del 2000 e pregò a lungo al Muro del Pianto, infilando tra le antiche pietre la sua "fituch", in cui chiedeva perdono per le sofferenze arrecate al popolo ebraico.

"Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo Nome fra i popoli. Siamo profondamente rattristati per il comportamento di coloro che nel corso della storia hanno provocato sofferenze a questi tuoi figli e chiedendo il Tuo perdono vogliamo impegnarci in una fratellanza sincera con il popolo dell'Alleanza".


Dio di tutti i tempi,
nella mia visita a Gerusalemme, la “Città della Pace”,
casa spirituale di ebrei, cristiani e musulmani
porto di fronte a te le gioie, le speranze e le aspirazioni,
le prove, le sofferenze e i disagi di tutti i tuoi popoli dovunque nel mondo.
Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe,
ascolta il grido degli afflitti, dei timorosi, dei diseredati;
manda la pace sulla Terra Santa, sul Medio Oriente,
su tutta la famiglia umana;
smuovi i cuori di tutti coloro che invocano il tuo nome,
affinché camminino umilmente nel sentiero di giustizia e compassione.
“Il Signore è buono con coloro che lo attendono,
con gli animi che lo cercano” (Lamentazioni 3:25)



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lunedì 25 aprile 2022

Sebastopoli del mese di Dicembre (Prima parte) - Lev Nicolaevic Tolstoj

L'alba comincia appena a tingere la volta del cielo sul monte Sapun; la superficie turchina del mare si è già scrollata di dosso le tenebre notturne e attende il primo raggio, per scintillare di un gaio splendore; la baia odora di freddo e di nebbia; non c'è neve, tutto è buio, ma l'acuto gelo mattutino pizzica il volto e scricchiola sotto i piedi, e il lontano, incessante mormorio del mare, di quando in quando interrotto dal fragore degli spari di Sebastopoli, turba da solo la quiete del mattino. 
Sulle navi battono sordamente le quattro. Alla Severnaja l'attività del giorno comincia a poco a poco a sostituire la quiete notturna: quando passa il cambio delle sentinelle, facendo tintinnare i fucili; quando già un dottore si reca frettolosamente all'ospedale; quando un soldatino, uscito strisciando dal rifugio, si lava il viso abbronzato con acqua ghiacciata e, guardando verso l'oriente tinto di porpora, si fa rapidamente il segno della croce e rivolge la propria preghiera a Dio; quando un alto, pesante carro trainato da cammelli si trascina a stento verso il cimitero, dove si provvederà alla sepoltura dei cadaveri insanguinati che quasi lo riempiono. Vi accostate all'imbarcadero, vi colpisce un particolare odore di carbon fossile, di letame, di umidità e di carne bovina; migliaia di svariati oggetti, legname, carne, gabbioni, farina, ferro e così via, giacciono ammucchiati vicino al pontile; soldati appartenenti a diversi reggimenti, con zaino e fucile, senza zaino e senza fucile, vi si ammassano, fumano, imprecano, trascinano pesi su una nave che, fumando, sta ferma vicino al ponte; barche private, piene zeppe di gente di ogni specie, di soldati, di marinai, di mercanti e di donne approdano e salpano dall'imbarcadero. 
«Alla Grafskaja, vostra signoria?», due o tre marinai in congedo vi offrono il loro servizio alzandosi in piedi nelle scialuppe. Voi scegliete quella che vi è più vicina, camminate scavalcando il cadavere semi putrefatto di un cavallo baio, che giace lì nel fango, vicino alla scialuppa, e attraversate l'imbarcazione fino a raggiungere il timone. Siete salpati dalla riva. Siete circondati dal mare, già splendente nel sole mattutino, davanti a voi un vecchio marinaio con un cappotto di cammello e un giovanotto dai capelli biondi si danno un gran da fare ai remi. Voi osservate anche la mole delle navi dalla chiglia rigata, disseminate vicino e lontano nella baia, e i piccoli puntini neri delle scialuppe che si muovono nell'azzurro splendente, e le belle e luminose costruzioni della città, abbellite dai rosei raggi del sole, la schiumosa linea bianca del Bon e delle navi colate a picco, dalle quali, qua e là, affiorano tristemente le cime nere degli alberi, e la lontana flotta nemica, che si staglia all'orizzonte cristallino del mare, gli schizzi schiumosi, nei quali saltellano bolle di sale sollevate dai remi; udite i suoni regolari dei colpi di remi, suoni di voci, che vi raggiungono volando sull'acqua, e i giganteschi rumori degli spari che vi sembrano intensificarsi a Sebastopoli. 
Non è possibile che, al pensiero di trovarvi anche voi a Sebastopoli, non abbiate sentito penetrarvi nell'animo il senso di un certo coraggio, di orgoglio, e che nelle vostre vene il sangue non abbia cominciato a scorrere più rapidamente... «Vostra signoria! Tenete dritto, verso la Kistentin», vi dice il vecchio marinaio, voltandosi a controllare la direzione che date alla barca, «virate a destra!». «Sopra ci sono ancora tutti i cannoni», nota il ragazzo biondo nel costeggiare la nave ed osservandola attentamente. «Naturalmente: è nuova, vi abitava Kornilov», fa notare il vecchietto, gettando anche lui uno sguardo alla nave. «Guarda un po' dove è scoppiata!», dice il giovane, osservando, dopo un lungo silenzio, una bianca nuvoletta di fumo che si disperde nell'aria, dopo essere apparsa all'improvviso in alto sopra la baia meridionale, accompagnata dall'intenso fragore dell'esplosione di una bomba. «Ecco che ora fa fuoco con una batteria nuova», aggiunge il vecchietto, sputacchiandosi con indifferenza sulla mano. «Dai, forza, Miška, superiamo la scialuppa». E la vostra imbarcazione comincia a muoversi più velocemente tra le ampie onde della baia, riesce a superare una pesante scialuppa, sulla quale sono stati caricati certi sacchi, e su cui soldati impacciati non remano a tempo, e approda all'attracco Grafskaja, tra un gran numero di imbarcazioni ormeggiate. 
Lungo la riva si muovono rumorosamente schiere di soldati grigi, di marinai neri e di donne variopinte. Alcune vecchie vendono panini, contadini russi muniti di samovar gridano «Sbiten' bollente!», e qui, sui primi gradini, sono accatastate palle arrugginite, bombe, mitraglie e cannoni in ghisa, di calibro diverso. Un po' più in là si trova la grande piazza, sulla quale giacciono in disordine alcune travi di grosse dimensioni, supporti di cannoni, soldati immersi nel sonno; vi si trovano cavalli, carri, pezzi d'artiglieria verdi e casse di munizioni, cavalletti di fanteria; si muovono soldati, marinai, ufficiali, donne, bambini, mercanti; passano carri che trasportano fieno, sacchi e botti; qua e là passeranno un cosacco e un ufficiale a cavallo, un generale su una piccola carrozza. A destra la strada è cinta da una barricata, sulla quale, nelle feritoie, stanno ritti alcuni piccoli cannoni, e vicino ad essi siede un marinaio che fuma la pipa. A sinistra una bella casa con cifre romane sul frontone, sotto il quale vi sono dei soldati e delle barelle insanguinati - dovunque vedete i segni spiacevoli di un accampamento. La vostra prima impressione sarà certamente molto sgradevole: l'insolita commistione di vita da campo e vita cittadina, di una bella città e di sporco bivacco non solo non è una cosa piacevole, ma somiglia ad un disordine ripugnante; vi sembrerà inoltre che tutti siano impauriti, si affaccendino, non sappiano che cosa fare. Ma osservate più da vicino i volti di queste persone che vi si muovono intorno, e capirete una cosa del tutto differente. Guardate almeno questo piccolo soldato del carriaggio, che conduce ad abbeverarsi tre cavalli bai e che con tale tranquillità canticchia qualcosa tra sé e sé, e che, certamente, non si confonderà mai in questa massa, che per lui addirittura non esiste, ma adempirà al proprio dovere - abbeverare i cavalli o trasportare armi - con tale serenità e coraggio, e indifferenza, come se tutto ciò avvenisse da qualche parte a Tula o a Saransk. 
La medesima espressione leggerete anche nel volto di questo ufficiale, che vi passa accanto con guanti irreprensibilmente bianchi, e nel volto del marinaio che sta fumando seduto sulla barricata, e nel volto dei portantini, che attendono con le barelle all'entrata di servizio di quella che un tempo era l'Assemblea, e nel volto di questa fanciulla che, temendo di bagnarsi il vestito rosa, attraversa la strada saltellando da una pietruzza all'altra. Sì! Indubbiamente proverete una delusione, facendo per la prima volta ingresso a Sebastopoli. Invano cercherete, almeno in un volto, tracce di irrequietezza, di smarrimento o addirittura di entusiasmo, di preparazione ad affrontare la morte, di risolutezza; non v'è nulla di tutto ciò: vedrete persone di tutti i giorni, dedite tranquillamente alle loro attività quotidiane, così che, forse, vi rimprovererete l'eccessiva tensione, comincerete a dubitare che l'idea di «eroismo» dei difensori di Sebastopoli sia legittima, idea che vi siete fatta in base ai racconti e alle descrizioni sull'aspetto e i rumori provenienti dalla Severnaja. 
Tuttavia, prima di dubitare, recatevi sui bastioni, provate a guardare i difensori di Sebastopoli proprio sul luogo in cui combattono o, meglio ancora, andate dritti in quel palazzo di fronte, che un tempo rappresentava l'Assemblea di Sebastopoli, presso il cui ingresso stanno soldati con barelle: là vedrete i difensori di Sebastopoli, assisterete a spettacoli orribili e tristi, grandiosi e grotteschi, ma straordinari, che elevano l'anima. Entrate nella grande sala dell'Assemblea. Appena entrati, vi colpiranno improvvisamente la vista e l'odore di quaranta o cinquanta malati, mutilati o feriti molto gravemente, alcuni sulle brande, in gran parte sul pavimento. Non date retta all'istinto che vi trattiene sulla soglia della sala - si tratta di un cattivo istinto -, andate avanti, non vergognatevi, come se foste venuti a guardare dei martiri, non abbiate ritegno ad accostarvi e a parlare con loro: i disgraziati amano vedere un volto umano e compassionevole, amano raccontare il proprio dolore e ascoltare parole d'amore e di partecipazione. Passate in mezzo alle brande e cercate un volto meno severo e sofferente, al quale decidete di avvicinarvi per conversare un po'. «Tu dove sei ferito?», chiedete esitanti e timorosi a un vecchio soldato smagrito che, seduto sulla branda, vi segue con uno sguardo benevolo e quasi vi invita a recarvi da lui. Dico "domandate timorosamente" perché le sofferenze, oltre alla profonda compassione, infondono per qualche motivo il timore di offendere e incutono un grande rispetto verso chi le sopporta. «Alla gamba», risponde il soldato; ma contemporaneamente voi stessi notate, dalle pieghe della coperta, che la sua gamba non ha più il ginocchio. «Grazie a Dio, adesso», aggiunge il soldato, «verrò dimesso». «Da molto tempo sei ferito?» «Sì, da sei settimane, vostra signoria!» «Ma ti fa male adesso?» «No, adesso non fa male; provo soltanto qualche dolore alla coscia, quando cambia il tempo, ma non è niente». «Ma come ti hanno ferito?» «Sul quinto bastione, vostra signoria, quando c'è stato il primo bombardamento: avevo puntato il cannone, stavo indietreggiando, così, verso la seconda cannoniera, quand'ecco che lui mi colpisce alla gamba, come se fossi inciampato in una buca. Guardo, e non c'è più la gamba». «E non è stato doloroso in quel primo momento?» «No; era solo come se mi avessero urtato alla gamba con qualcosa di bollente». «Ebbene, e poi?» «E poi niente; appena si sono messi a tendermi la pelle, ho sentito quasi un bruciore. La prima cosa da fare, vostra signoria, è non pensarci molto: se non ci pensi, allora non è niente. Tutto è più doloroso se ci si pensa».
In quel momento vi si avvicina una donna con indosso un vestito grigiastro a righe, avvolta da uno scialle nero; si intromette nella vostra conversazione con il marinaio e comincia a raccontare di lui, delle sue sofferenze, della condizione disperata nella quale ha versato per quattro settimane; di quando, dopo essere stato ferito, aveva fatto fermare i barellieri, per controllare la scarica delle nostre batterie, di quando i granduchi avevano parlato con lui e lo avevano gratificato di venticinque rubli, e di quando aveva detto loro che voleva tornare di nuovo sul bastione, per istruire i giovani, se egli non fosse più stato nelle condizioni di lavorare. Mentre racconta senza prender fiato, questa donna, con gli occhi splendenti di un particolare entusiasmo, guarda ora verso di voi, ora verso il marinaio che, voltatosi e quasi senza ascoltarla, sfilaccia il cuscino: «Questa è mia moglie, vostra signoria!», vi fa notare il marinaio con una tale espressione, come se volesse scusarsi per lei di fronte a voi, e dicesse: «Perdonatela. Si sa, è tipico delle donne dire delle sciocchezze». Cominciate a capire i difensori di Sebastopoli; per qualche ragione, davanti a quest'uomo vi vergognate di voi stessi. Vorreste dirgli moltissime cose, per esprimergli la vostra comprensione e ammirazione; ma non trovate le parole e non siete soddisfatti di quelle che vi vengono in mente e, tacendo, vi inchinate di fronte a questa silenziosa, inconsapevole grandezza e fermezza d'animo, di fronte a questo pudore della propria dignità. «Beh, che Dio ti conceda una pronta guarigione», gli dite, e vi fermate davanti ad un altro malato che giace sul pavimento e pare attendere la morte fra le più strazianti sofferenze. È biondo, con un viso gonfio e pallido. Giace supino, con il braccio sinistro rovesciato all'indietro, in una posizione che esprime un'acuta sofferenza. La bocca secca, spalancata, a fatica emette un respiro rantolante; gli occhi azzurri, vitrei, sono stravolti all'insù; da sotto la coperta, scivolata giù, sporge il braccio destro mutilato, avvolto da fasce. Il puzzo intenso di cadavere vi colpisce più di ogni altra cosa, e avete l'impressione che la febbre che divora, penetrandole, tutte le membra dell'agonizzante, si stia insinuando anche dentro di voi. «Ha perso conoscenza?», chiedete alla donna che cammina dietro di voi e che vi rivolge uno sguardo affettuoso, come verso un parente. «No, riesce ancora a sentire, ma è molto grave», aggiunge quella sussurrando. «Gli ho dato ora del tè; anche se si tratta di un estraneo, bisogna sempre provare pietà, e non ha bevuto quasi per niente».
«Come ti senti?», gli chiedete. Il ferito volge le pupille verso la vostra voce, ma non vede e non vi capisce. «Mi brucia il cuore». Un po' più in là vedete un vecchio soldato che si cambia la biancheria. Il suo viso e il suo corpo sono di color marrone e magri come uno scheletro. Ha perso completamente un braccio: gli è stato tagliato dalla spalla. Se ne sta seduto ben diritto, è guarito; ma dallo sguardo smorto, pallido, dalla magrezza spaventosa e dalle rughe del volto comprendete che questa è una creatura che ha già consumato nella sofferenza la parte migliore della propria vita. Dall'altro lato vedrete sulla branda il volto martoriato, pallidissimo e tenero di una donna, sul quale spicca, lungo tutta la guancia, un vivo rossore. «Questa nostra marinaia è stata colpita alla gamba il giorno 5 da una bomba», vi dirà la vostra guida, «stava portando il pranzo al marito, sul bastione». «Che cosa hanno fatto, gliel'hanno amputata?» «L'hanno tagliata al di sopra del ginocchio». Ora, se i vostri nervi sono saldi, passate la porta a sinistra: in quella stanza fasciano e operano. Là vedrete dei medici, con le braccia coperte di sangue sino al gomito, e un aspetto pallido e accigliato, indaffarati intorno ad una branda, sulla quale, con gli occhi spalancati e pronunciando, come in delirio, parole prive di senso, talvolta semplici e commoventi, giace il ferito, sotto l'effetto del cloroformio. I dottori sono infatti intenti all'opera disgustosa, ma benefica, dell'amputare. Vedrete un coltello appuntito, ricurvo, penetrare in un bianco corpo sano; vedrete il ferito riprendere conoscenza all'improvviso con un grido terribile, lancinante, di imprecazione; vedrete l'aiutante gettare in un angolo il braccio amputato; vedrete sdraiato, sulla barella, in quella medesima stanza, un altro ferito che, guardando l'operazione del compagno, si contorce e geme, non a causa del dolore fisico, ma per le sofferenze morali dell'attesa; vedrete spettacoli tremendi, che sconvolgono l'anima; vedrete la guerra non nelle sue schiere ordinate, belle e splendenti, con il rullo dei tamburi, con le insegne al vento e i generali caracollanti, ma vedrete la guerra nella sua vera espressione, nel sangue, nelle sofferenze, nella morte... Uscendo da questa casa di patimenti, proverete certamente un senso di gioia, respirerete più profondamente l'aria fresca, avvertirete il piacere della consapevolezza della salute, ma, insieme a ciò, riceverete, osservando queste sofferenze, la consapevolezza della vostra nullità e serenamente, senza indugi, vi recherete sui bastioni... Che cosa significano la morte e le sofferenze di un verme così insignificante, come me, in confronto a tante morti e a tante sofferenze? Ma la vista del cielo limpido, del sole splendente, della bella città, della chiesa aperta e dei militari che si muovono in diverse direzioni, ricondurrà presto il vostro animo in un normale stato di spensieratezza, di preoccupazioni meschine e di interesse per il solo presente. Vi capiterà di imbattervi, forse, in un corteo funebre proveniente dalla chiesa, in onore di qualche ufficiale, con un feretro rosa e la banda, e insegne militari spiegate; forse vi giungeranno i rumori degli spari dai bastioni, ma ciò non vi riporterà ai pensieri precedenti; le esequie vi sembreranno uno spettacolo militare molto bello, il rombo un rumore di guerra delizioso, e non assocerete né a questo spettacolo, né a questi rumori, il pensiero chiaro, egoisticamente riferito a voi stessi, delle sofferenze e della morte, così come vi era accaduto nell'infermeria. Oltrepassando la chiesa e la barricata, entrate nella parte della città più animata di vita interiore. Da entrambi i lati insegne di botteghe e trattorie; mercanti, donne con cappelli e piccoli scialli, ufficiali azzimati, tutto vi testimonia la fermezza d'animo, il coraggio e la sicurezza degli abitanti. Entrate nella locanda a destra, se desiderate ascoltare le chiacchiere dei marinai e degli ufficiali: probabilmente già si parla della notte scorsa, di Fen'ka, dell'azione del 24, di come sono care e di cattiva qualità le polpette, e di come sia stato ammazzato questo o quel compagno. «Al diavolo, come ce la passiamo male!», dice con voce bassa un giovane ufficiale della marina, albino, senza baffi, avvolto da una sciarpa di lana verde. «Dove ce la passiamo male?», gli chiede un altro. «Al quarto bastione», risponde il giovane ufficiale, e voi, certamente, nell'udire le parole "al quarto bastione", guarderete l'ufficiale albino con grande attenzione e con un certo rispetto. La sua eccessiva disinvoltura, il suo sbracciarsi, il suo riso e la voce stentorea, che vi erano sembrati arroganti, vi sembreranno ora caratteristici di quel particolare atteggiamento da provocatore che alcuni giovani assumono dopo il pericolo; ora penserete che comincerà a raccontarvi che le cose, al quarto bastione, vanno male a causa delle bombe e delle palle: niente affatto! Va male perché c'è molto fango.
«Non è possibile arrivare alla batteria», dirà uno mostrando gli stivali ricoperti di fango fin sopra il polpaccio. «Mi hanno ucciso ora il miglior artigliere, dritto alla fronte l'hanno colpito», dirà un altro. «Chi? Mitjuchin?» «No... ma insomma, me lo portano o no questo vitello? Guarda un po' che razza di canaglie!», aggiungerà rivolto al cameriere della trattoria. «No, non Mitjuchin, Abrosimov. Era così in gamba, aveva preso parte a sei sortite». All'altro capo del tavolo, davanti a un piattino di polpette con piselli e ad un fiasco di vino acre di Crimea, chiamato "Bordeaux", siedono due ufficiali di fanteria: uno giovane, con un bel colletto rosso e le stellette sul cappotto, racconta all'altro, anziano, con un colletto nero e senza stellette, lo scontro di Al'ma. Il primo è già un po' brillo e, dalle pause del suo racconto, dallo sguardo indeciso, che denota il dubbio di non essere creduto, e soprattutto quello di attribuirsi troppi meriti e di esagerare ogni terribile particolare, si può capire che la sua narrazione si discosta molto dalla verità. Ma a voi non importa di questi racconti, che ancora a lungo avrete occasione di udire in tutti gli angoli della Russia: volete recarvi al più presto sui bastioni, e precisamente al quarto, a proposito del quale avete udito versioni così contrastanti. Quando uno dice di essere stato al quarto bastione, lo fa con piacere e orgoglio particolari; quando uno dice: «Vado al quarto bastione», si nota in lui inevitabilmente un piccolo turbamento o un'eccessiva indifferenza; quando vogliono prendere in giro qualcuno, gli dicono: «Ti manderei sul quarto bastione»; quando incontrano una barella e domandano: «Da dove viene?», per lo più rispondono: «Dal quarto bastione». Generalmente esistono due opinioni del tutto opposte riguardo a questo terribile bastione: quella di coloro i quali non vi sono mai stati e sono convinti che il quarto bastione sia una tomba per chiunque vi si rechi, e quella di coloro i quali vi abitano, come l'ufficialetto albino, e che, parlando del quarto bastione, vi diranno se il terreno sia secco o fangoso, se faccia freddo ecc. Nella mezz'ora che avete passato in trattoria, il tempo è cambiato: la nebbia, che si stendeva sul mare, si è raccolta in grigie, tristi e umide nubi, e ha oscurato il sole; una malinconica brina gelata cade dall'alto e bagna i tetti, i marciapiedi e i cappotti dei soldati... Scavalcando ancora una barricata, uscite dalla porta a destra e salite in cima lungo la via principale. Al di là di questa barricata le case, su entrambi i lati della strada, sono abbandonate, non ci sono insegne, le porte sono serrate con travi, le finestre sono rotte, qui è abbattuto l'angolo di un muro, là è stato sfondato il tetto. Le costruzioni somigliano a vecchi veterani che abbiano provato ogni tipo di sciagura e di ristrettezza, e sembrano osservarvi con fierezza e con un po' di disprezzo. Per la strada inciampate in palle di cannone, ammassate disordinatamente, e in buche piene d'acqua, scavate nel terreno pietroso dalle bombe. Per la via incontrate drappelli di soldati, esploratori cosacchi, ufficiali; di tanto in tanto ci si imbatte in una donna o in un ragazzo, ma non più in una donna col cappellino, bensì in una marinaia con indosso una vecchia pelliccia e ai piedi stivali da soldato. Proseguendo oltre lungo la via, e dopo essere scesi per un piccolo declivio, notate intorno a voi non più case, ma strani ammassi di rovine, di pietre, di tavole, di argilla e di travi; davanti a voi, sopra una montagna scoscesa, vedete una distesa nera, fangosa, piena di fosse, ed ecco proprio qui, davanti a voi, il quarto bastione... Qui si incontra sempre meno gente, donne non se ne vedono, i soldati corrono, per la strada si notano qua e là macchie di sangue, e sicuramente incontrerete quattro soldati con una barella e, sulla barella, un volto giallognolo pallido e un mantello insanguinato. Se proverete a chiedere: «Dov'è ferito?», i barellieri con stizza, senza voltarsi, diranno: «Alla gamba», oppure: «Al braccio», se la ferita è leggera, oppure taceranno severi, se dalla barella non spunta la testa, e il soldato è già morto o ferito gravemente. Vi sconcerterà un fischio non lontano di palla o di bomba, proprio nel momento in cui vi accingerete a inerpicarvi sul monte. Comprendete subito, e del tutto diversamente da come lo intendevate prima, il significato di quel rumore di spari che udivate nella città. Un ricordo tranquillo e consolante vi riaffiora all'improvviso nella mente; la vostra persona comincia ad interessarvi più di questo spettacolo; rivolgete meno attenzione a tutto ciò che vi circonda, e uno spiacevole senso di indecisione si impadronisce di voi. Sebbene improvvisamente, di fronte al pericolo, dentro di voi abbia cominciato a farsi sentire questa voce vile, alla vista di un soldato che scivola veloce lungo la montagna, agitando le braccia, attraverso il fango liquido, e vi supera di corsa con un sorriso, costringete questa voce a tacere, raddrizzate con naturalezza il petto, sollevate il capo e vi arrampicate in cima al monte sdrucciolevole e argilloso. Non appena avrete dato inizio alla salita, da sinistra e da destra cominceranno a fischiare i colpi degli Štucer, e voi, forse, vi domanderete se non sia il caso di procedere lungo la trincea, che conduce parallelamente alla strada; ma questa trincea è piena di fango molle, giallo e fetido, e arriva fin sopra le ginocchia, così che preferirete di certo proseguire per la via attraverso il monte, tanto più che tutti la percorrono. Fatti duecento passi, entrate in uno spazio pieno di buche, fangoso, circondato su tutti i lati da gabbioni, terrapieni, cave, piattaforme, rifugi, nei quali si trovano grossi cannoni in ghisa e giacciono, ammucchiate con ordine, delle palle di cannone. Tutto ciò vi sembra accatastato senza alcuno scopo, senso oppure ordine. Qui sulla batteria sta seduto un gruppetto di marinai; là, al centro della piattaforma, affondato fino a metà nel fango, giace un cannone fuori uso; più oltre un giovane soldato di fanteria, che cerca con il fucile di passare tra le batterie e a malapena riesce a tirar fuori le gambe dal fango appiccicoso; dappertutto, in ogni angolo, vedete schegge, bombe non esplose, palle, tracce dell'accampamento, tutto sommerso dal fango liquido e vischioso. Vi sembra di udire non lontano da voi il colpo di una palla, e da ogni parte diversi rumori di proiettili che ronzano come api, fischiano, veloci e stridenti come la corda di uno strumento, udite il tremendo rimbombo di una cannonata, che vi scuote tutto e vi appare come qualcosa di tremendamente terrificante. «Eccolo dunque, il quarto bastione, eccolo, questo luogo davvero terribile e spaventoso», pensate tra voi, provando un piccolo senso d'orgoglio e una grande sensazione di paura soffocata. Ma restate delusi: questo non è ancora il quarto bastione. Si tratta del ridotto Jazonovskij: un luogo, al confronto, del tutto sicuro e per nulla terrificante. Per andare al quarto bastione prendete a destra, lungo questa trincea stretta, per la quale, chinato, si è messo a camminare il giovane soldato di fanteria. Forse incontrerete di nuovo, lungo questa trincea, una barella, un marinaio, dei soldati con badili, vedrete veicoli di mine, rifugi nel fango nei quali, chine, possono entrare solo due persone, e là vedrete i cosacchi esploratori dei battaglioni del Mar Nero, che vi si cambiano i calzari, mangiano, fumano la pipa, abitano, e di nuovo noterete ovunque fetido fango, tracce del campo e ghisa, in ogni forma possibile, buttata qua e là. Trecento passi più avanti, di nuovo uscite sulla batteria, sulla piazzetta piena di buche e fortificata tutt'intorno da gabbioni, coperti di terra, da cannoni sulle piattaforme e da terrapieni. Forse qui vedrete cinque marinai che giocano a carte sotto il muricciolo e un ufficiale di marina che, avendo notato in voi un volto nuovo, curioso, con piacere vi mostrerà tutto ciò che ha a sua disposizione e tutto ciò che vi possa interessare. 
Quest'ufficiale, seduto sul cannone, con tale tranquillità si arrotola una sigaretta di carta gialla, con tale sicurezza passeggia da una cannoniera all'altra, chiacchiera con voi così serenamente, senza la minima finzione che, benché le palle vi fischino sopra il capo più spesso di prima, voi stessi divenite impassibili, rivolgete domande e ascoltate attentamente i racconti dell'ufficiale. Quest'ufficiale vi parlerà, ma solo a patto che glielo chiediate, del bombardamento avvenuto il 5, vi dirà che allora alla sua batteria funzionava solo un cannone, e che, di tutto il personale di servizio, erano rimaste solo otto persone, ma che tuttavia la mattina dopo, quella del 6, aveva fatto fuoco da tutti i pezzi; vi dirà che il 5 è caduta una bomba su un rifugio di marinai e ha fatto fuori undici uomini; dal riparo vi mostrerà le batterie e le trincee nemiche, che da qui non distano più di trenta o quaranta sagene. 
Di una sola cosa ho paura: che, sporgendovi dalla cannoniera per vedere il nemico, a ciò indotti dal fischio delle palle, non riusciate a vedere nulla, oppure che, pur vedendo qualcosa, vi stupiate molto del fatto che questo bianco bastione pietroso, così vicino a voi e dal quale spuntano fumate bianche, questo bianco riparo è già il nemico, lui, come dicono soldati e marinai. Anzi, è molto probabile che l'ufficiale della marina, per vanagloria o semplicemente per togliersi una soddisfazione, vorrà sparare qualche colpo in vostra presenza. «Mandare l'artigliere e l'aiutante al cannone», e quattordici marinai, con sollecitudine, allegri, chi ficcandosi la pipa nella tasca, chi finendo di masticare una galletta, picchiettando con gli stivali ferrati sulla piattaforma, si recheranno al cannone e lo caricheranno. 
Guardateli in volto, osservate il portamento e i movimenti di queste persone: in ogni ruga di queste facce abbronzate, dagli zigomi sporgenti, in ogni muscolo, nell'ampiezza di queste spalle, nella grossezza di queste gambe, infilate in stivali giganteschi, in ogni loro movimento tranquillo, sicuro e non affrettato, sono visibili le caratteristiche essenziali che costituiscono la forza del russo: la semplicità e l'ostinazione. Ad un tratto un colpo assordante, che sconvolge non solo gli organi dell'udito, ma tutto il vostro essere, vi colpisce al punto da farvi sobbalzare con tutto il corpo. Subito dopo udite il fischio del proiettile che si allontana, e un fumo denso e polveroso ricopre voi, la piattaforma e le nere figure dei marinai che vi si affaccendano. In occasione di questo nostro sparo sentirete diverse voci di marinai, vedrete la loro animazione e l'espressione di un sentimento che, forse, non vi sareste aspettati di trovare, e cioè il sentimento dell'odio, della vendetta contro il nemico, sentimento che si cela nell'anima di ognuno. «Proprio dritta sulla cannoniera è andata a finire; pare che ne abbia uccisi due... ecco che li hanno portati via», sentirete le esclamazioni di esultanza. «Adesso si arrabbia: ora spara verso di noi», dirà qualcuno; e infatti, subito dopo, vedrete davanti a voi un lampo, del fumo; la sentinella, ritta nel riparo, griderà: «Ca-a-n-no-ne!». 
Un attimo dopo fischia rumorosamente davanti a voi una palla, si conficca nel terreno e solleva intorno a sé, dalla buca, schizzi di fango e di pietra. Il comandante della batteria andrà su tutte le furie, ordinerà di caricare il secondo e il terzo cannone, anche il nemico comincerà a risponderci e voi proverete delle sensazioni interessanti, sentirete e vedrete delle cose interessanti. La sentinella griderà di nuovo: «Can-no-ne!», e voi sentirete lo stesso rimbombo, la medesima esplosione, i medesimi schizzi; oppure comincerà a strillare «Markela!» e voi allora sentirete un sibilare uniforme di bomba, abbastanza gradevole e tale che a malapena vi si possa associare l'idea di terrore, sentirete questo sibilo avvicinarsi a voi e allontanarsi, poi vedrete una palla nera, un colpo nella terra, e la bomba esplodere con violenza e fragore. Poi, con sibilo e stridore, voleranno schegge, nell'aria cominceranno a schizzare le pietre, verrete sporcati di fango. All'udire questi rumori provate uno strano senso di piacere e al tempo stesso di terrore. Mentre il proiettile, lo sapete, vola verso di voi, inevitabilmente pensate tra voi che sta per uccidervi; ma vi sostiene l'istinto dell'amor proprio, e nessuno può notare la fitta che provate al cuore. Ma, dopo che il proiettile vi è volato sopra senza colpirvi, tornate a vivere, e una sensazione gradevole di piacere inesprimibile si impadronisce di voi, ma solo per un attimo, tanto che trovate un particolare incanto nel pericolo, in questo gioco tra la vita e la morte; vorreste che sempre più vicina a voi cadesse una palla o una bomba. Ma ecco che di nuovo la sentinella grida con la sua voce forte e acuta: «Markela!»; ancora un sibilo, un colpo e un'esplosione di bomba; ma insieme con questo rumore vi colpisce il lamento di un uomo. 
Vi accostate con i barellieri al ferito che, immerso nel sangue e nel fango, ha un aspetto un po' strano, disumano. Al marinaio è stata forata una parte del petto. Nei primi istanti, sul suo volto inzaccherato di fango, si vedono uno sbigottimento ed una prematura espressione simulata di sofferenza, caratteristica di chi si trova in tale situazione; ma, mentre gli portano la barella ed egli stesso vi si sdraia dalla parte del fianco sano, notate che quest'espressione viene sostituita da un'altra, di esaltazione, di pensiero nobile e inesprimibile: gli occhi ardono, i denti si serrano, la testa si solleva a stento e, nel momento in cui lo sollevano, egli fa fermare la barella e a fatica, con voce tremante, dice ai compagni: «Addio, fratelli!»; vorrebbe aggiungere qualcosa, certamente qualcosa di commovente, ma riesce solo a ripetere ancora una volta: «Addio, fratelli!». In quel momento gli si avvicina un compagno marinaio, si pone sul capo il berretto che il ferito gli porge e tranquillamente, con indifferenza, agitando le braccia, ritorna al suo cannone. «Ecco, ogni giorno è così, sette o otto uomini», vi dice l'ufficiale della marina, rispondendo all'espressione di terrore che si delinea sul vostro volto, sbadigliando e arrotolandosi una sigaretta di carta gialla... E così avete visto i difensori di Sebastopoli, nel luogo stesso in cui la difendono, e tornate indietro senza rivolgere alcuna attenzione, chissà perché, alle palle e ai proiettili che continuano a fischiare, lungo tutta la strada, fino al teatro distrutto - passeggiate con animo tranquillo, rinfrancato. 
La più importante e gradita convinzione che ne avete tratto è l'impossibilità che Sebastopoli venga presa, anzi, non solo che Sebastopoli venga presa, ma addirittura che in qualche modo sia fatta vacillare la forza del popolo russo, e questa impossibilità voi l'avete vista non in questa gran massa di traverse, ripari, trincee intelligentemente collegate, mine e cannoni, ammucchiate le une sopra gli altri, dei quali non avete capito proprio niente, ma l'avete vista negli occhi, nelle parole, nei movimenti, in quello che viene definito l'animo dei difensori di Sebastopoli. Quello che essi fanno, lo compiono con tale semplicità, con così poca tensione e sforzo, che voi siete convinti che essi siano in grado di farlo cento volte di più... tutto possono fare. 
Capite che il sentimento che li costringe ad agire non è quel senso di meschinità, di vanità, di smemoratezza che voi stessi avete provato, ma qualche altro sentimento, più potente, che ha fatto di loro uomini capaci di vivere sotto il fuoco delle palle con tanta tranquillità, di fronte a centinaia di probabilità di morire invece di quell'una alla quale sono soggetti tutti gli uomini, e in grado di vivere in queste condizioni, tra incessanti fatiche, veglie, e nel fango. Non si possono accettare tali tremende condizioni solamente per ottenere una croce, una promozione, o per effetto di una minaccia: ci dev'essere un'altra motivazione, nobile e stimolante. 
E questa motivazione è un sentimento che raramente e con pudore si manifesta nel russo, ma che è situato nel profondo dell'anima di ciascuno: l'amore per la patria. Soltanto adesso i racconti sui primi tempi dell'assedio di Sebastopoli, quando non c'erano fortificazioni, non c'erano truppe, non c'erano possibilità materiali di mantenerne il possesso, e tuttavia non v'era il minimo dubbio che la città non sarebbe stata ceduta al nemico, quando quest'eroe, degno della antica Grecia, Kornilov, passando le truppe in rassegna, esclamava: «Moriremo! Urrà! Ma non cederemo Sebastopoli!», e i nostri, incapaci di costruire delle frasi, rispondevano: «Moriremo! Urrà!», solo adesso i racconti su quei tempi hanno finito di rappresentare per voi una stupenda leggenda storica, e sono invece divenuti autenticità, fatto. 
Capirete bene, rivedrete in quegli uomini, che poc'anzi avete visto, quegli eroi che in tali difficili momenti non sono caduti nello sconforto, ma si sono esaltati nell'animo e con gioia si sono preparati a morire, non per la città, ma per la patria. A lungo questa epopea di Sebastopoli lascerà in Russia tracce profonde, ed eroe di questa epopea è stato il popolo russo... Si fa già sera. 
Il sole, sul far del tramonto, si è ritirato dietro nuvole grigie che oscurano il cielo, e d'un tratto ha illuminato di luce purpurea le nuvole lilla, il mare verdastro che, coperto di navi e di scialuppe, si culla in onde ampie e regolari, i bianchi edifici della città, e la gente che cammina per le strade. 
Sull'acqua si diffondono le note di un vecchio valzer, che la banda del reggimento esegue sul viale, e i rumori degli spari provenienti dai bastioni fanno loro da eco in modo strano.

Sebastopoli, 25 aprile 1855
da: I racconti di Sebastopoli - Lev Nicolaevic Tolstoj 


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sabato 23 aprile 2022

La cornacchia e la brocca, Il leone e il topo, La lepre e la tartaruga - Esopo

La cornacchia e la brocca

Una cornacchia, mezza morta di sete, trovò una brocca che una volta era stata piena d'acqua. Ma quando infilò il becco nella brocca si accorse che vi era rimasto soltanto un po' d'acqua sul fondo. Provò e riprovò, ma inutilmente, e alla fine fu presa dalla disperazione. Poi, le venne un'idea e volle provare subito. Prese un sasso e lo gettò nella brocca. E uno per volta ne gettò dentro diversi, fino a che pian piano l'acqua cominciò a salire. Allora ne gettò altri e così riuscì a bere e a salvarsi la vita. 
Morale della favola: a poco a poco si arriva a tutto.

 


Il leone e il topo  

Una volta, mentre il leone stava dormendo, un topolino cominciò a passeggiare avanti e indietro su di lui. Il leone si svegliò, mise la sua grossa zampa sopra il topolino e aprì le fauci per inghiottirlo. "Perdono, maestà - gridò il topolino - lasciami andare, non lo dimenticherò mai e forse un giorno potrei ricambiarti il favore". Il leone sorrise a quelle parole, ma alzò la zampa e lo lasciò libero. Qualche tempo dopo, successe che il leone fu preso in una trappola e i cacciatori, che volevano portarlo vivo al loro re, lo legarono ad un albero e si allontanarono per andare a cercare un mezzo adatto dove caricarlo. In quel momento passò di lì il nostro topolino. Vide subito in quale guaio era finito il leone, si avvicinò e rosicchiò con i suoi dentini aguzzi la corda che teneva prigioniero il re degli animali. 
"Non avevo ragione? - esclamò - Piccoli amici possono essere grandi amici".

 

La lepre e la tartaruga 

Un giorno la lepre si vantava con gli altri animali: "Nessuno può battermi in velocità. Sfido chiunque a correre come me". La tartaruga, con la sua solita calma, disse: "Io accetto la sfida". La lepre scoppiò in una risata e la tartaruga replicò: "Non vantarti prima di aver vinto. Accetti la gara?". E così fu stabilito un percorso e dato il via. La lepre partì come un fulmine: quasi non si vedeva, tanto era già lontana. Poi si fermò e per mostrare il suo disprezzo verso la tartaruga si sdraiò a fare un sonnellino. La tartaruga intanto camminava con fatica, un passo dopo l'altro, e quando la lepre si svegliò la vide vicina al traguardo. Allora si mise a correre con tutte le sue forze, ma ormai era troppo tardi per vincere la gara. 
La tartaruga sorridendo disse: "Non serve correre, bisogna partire per tempo".


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giovedì 21 aprile 2022

Tornati dall'Aldilà, In bilico tra la vita e la morte: il racconto di chi ha visto - Antonio Socci

La storia da cui prende le mosse questo libro, è una vicenda che comincia a dipanarsi dal 12 di settembre del 2009, quando la mia figlia primogenita, Caterina - che aveva ventiquattro anni, e che era laureanda in Architettura a Firenze, aveva la tesi di laurea dieci giorni dopo, il 24 di settembre, quindi aveva lavorato per tutta l’estate alla tesi - era a Firenze, viveva in un appartamento di studentesse di Comunione e Liberazione. La sera alle otto stavano decidendo se andare in pizzeria o farsi un piatto di spaghetti; e fece appena in tempo a dire “mi sento male” e crollò per terra. Le ragazze che erano lì si resero subito conto che non era uno svenimento, perché non aveva più respiro subito; quindi chiamarono immediatamente il 118, che arrivò anche molto tempestivamente. Però si trattava di un arresto cardiaco, e di un arresto cardiaco del tipo più brutto. E infatti, nonostante le ripetute defibrillazioni, la cosa andò male e lei morì. La dico proprio così perché è accaduto esattamente così. Quando abbiamo ricevuto la telefonata a casa – noi abitiamo a Siena – dall’altro capo del filo c’era il medico del 118 che ha usato un eufemismo, diciamo: cioè ci ha detto: “Guardi, sua figlia ha da più di un’ ora il cuore fermo”. Però era un eufemismo per dire che “sua figlia è morta”. Fra l’altro io, siccome mi era capitato pochi mesi prima, nel febbraio di quell’anno, di interessarmi, per motivi professionali diciamo, della vicenda di Eluana Englaro, mi era capitato, come capita a noi giornalisti per trattare un argomento, di acquisire un po’ le notizie fondamentali. Quindi sapevo benissimo che il cuore fermo da più di un’ora significa morte, proprio morte clinica, morte totale, morte irreversibile. Oltretutto, appunto, dopo ripetute defibrillazioni. Fra l’altro il 118 in toscana - non so se si sono protocolli regionali – però in Toscana il 118 aveva l’obbligo di non proseguire la rianimazione oltre quarantacinque minuti, perché era già un tempo abnorme. Voi potete immaginare la reazione la reazione mia, di mia moglie e degli altri figli a questa telefonata. Ecco, credo che se mi avessero piantato una spada nel petto, credo che avrei sentito meno male; sinceramente l’avrei preferito. Anche perché Caterina fra l’altro è sempre stata una ragazza molto sana, non si ammalava mai nemmeno da bambino; poi nel pieno della giovinezza, bella, florida. L’ultima cosa che mi sarei aspettata al mondo era questa. La prima reazione che io ho avuto - oltre a un urlo immediato - la prima cosa, credo veramente per grazia, che mi è venuta in mente… in una frazione di secondo ho realizzato che non c’era niente da fare; questo era quello che mi stavano comunicando i medici, fra l’altro. In una frazione di secondo a me è venuto in testa: “Dio può tutto”. Quindi è iniziato questo viaggio, questa corsa verso Firenze con mia moglie, fra lacrime e rosari e richieste di aiuto da parte di tutti gli amici che abbiamo in cielo; da don Giussani al mio amico Andrea Siani, a Enzo Piccinini. Tutti gli amici che sono in cielo li abbiamo scomodati urlando. Quando siamo arrivati a Firenze Certosa, alle porte di Firenze, ci è arrivata la telefonata che il cuore di Caterina, incredibilmente, aveva ripreso a battere. Quindi ci siamo dirottati verso Careggi, dove l’abbiamo vista sopra questa barella, bellissima come era, però come la “Bella Addormentata” ovviamente in coma. Fra l’altro quello che ho scoperto poi dopo, parlando con i ragazzi - perché nel frattempo la casa di Caterina si era riempita dei suoi compagni di studi, ragazzi del Movimento che si erano precipitati lì e che pregavano per lei fuori dalla stanza. Quello che ho poi saputo dal medico del 118, che ho rintracciato appunto per scrivere questo libro, la scena che mi ha descritto è un po’ questa: quando loro ormai avevano gettato la spugna, perché l’elettrocardiogramma di Caterina era proprio piatto da più di un’ora – voi sapete che dopo dieci secondi di arresto cardiaco l’elettroencefalogramma diventa piatto, dopo 5-6 minuti i danni cominciano a essere molto pesanti, dopo venti minuti siamo a danni gravissimi e che diventano irreversibili, quindi immaginate un’ora e un quarto, un’ora e venti cosa vuol dire. Dunque, la scena che mi ha descritto il medico del 118 è questa: a un certo punto è arrivato don Andra Bellandi che è il sacerdote che segue gli universitari di Comunione e Liberazione a Firenze, è entrato nella camera dove erano loro con il defibrillatore; lui si è inginocchiato cominciando a dire il rosario; i medici gli hanno detto: “Guardi reverendo che non c'è niente da fare, è inutile”. E don Andrea gli ha detto: “Voi fate il vostro mestiere, io faccio il mio”. E questo medico, che fra l’altro è un agnostico, mi ha descritto la scena così, mi ha detto: “Guardi, la scena è abbastanza impressionante, perché questo prete ha cominciato a recitare il Rosario, e alla terza Ave Maria il cuore di Caterina, che era fermo da un’ora, ha fatto un botto e ha cominciato un battito regolare, pressione sanguigna normale. Noi siamo rimasti tutti basiti, ci siamo guardati. Quello che fin allora era stato impossibile, di colpo è diventato possibile”. Evidentemente per lui era uno spettacolo molto inconsueto, perché non era possibile dopo così tanto tempo che il cuore ricominciasse, e non con battiti flebili, ma di botto, subito così. Quindi l’hanno portata all’ospedale a Careggi, di corsa, in codice rosso, e ovviamente i medici subito ci hanno detto che ci dimenticassimo che si sarebbe mai risvegliata dal coma, perché i danni erano tali che le speranze... Non so come avessero fatto le nostre coronarie a reggere in questi anni, perché i medici ci hanno sempre prospettato il peggio, quindi prima, inizialmente, ci hanno detto che le possibilità di risvegliarsi dal coma erano praticamente nulle. Poi ci sono stati vari problemi, perché lei ha avuto la circolazione extracorporea, che è una cosa estremamente traumatica, a cui pochissimi sopravvivono, perché quando poi è debolissimo il cuore… A Careggi in quell’anno sono state fatte trenta circolazioni extracorporee e ne sono sopravvissuti due, Caterina e un’altra persona. Poi ha avuto una rottura dell’arteria, per cui l’abbiamo ripresa per i capelli… ma insomma, non vi sto a dire tutte queste cose qua. Fatto sta che Caterina dopo quattro mesi invece si è svegliata dal coma. Si è svegliata il giorno dopo che gli era stata portata la sciarpa da Lourdes, bagnata nell’acqua di Lourdes, e lei si è svegliata con una bella risata, mentre sua mamma gli leggeva “Il giovane Holden”. Una risata contagiosa che è durata mezz’ora, che ha contagiato un po’ tutto il reparto dell’ospedale di Bologna dove eravamo. 

dall'incontro di sabato 31 maggio 2014, Sala civica di Merano, Associazione Culturale Giorgio La Pira


«Un caso clamoroso fu quello avvenuto a Montefalco, nell’arcidiocesi di Spoleto. Qui, in un periodo che va dal settembre 1918 al novembre dell’anno successivo, il monastero delle clarisse di San Leonardo fu visitato per ventotto volte da un misterioso straniero.
Successivamente è stato riconosciuto in questo fatto la manifestazione di un’anima purgante.
Costui ogni volta lasciava 10 lire di elemosina, chiedeva preghiere e se ne andava senza farsi vedere e senza rispondere alle domande sulla sua identità rivoltegli dalla badessa suor Maria Teresa di Gesù.
La prima volta l’accaduto parve strano alle suore, ma fu presto dimenticato. Tuttavia, con il passare del tempo e il ripetersi periodico del fatto, le suore cominciarono a interrogarsi con leggera inquietudine, tanto più che spesso la visita si accompagnava ad altre stranezze.
Un giorno, per esempio, la badessa stava riposando quando venne svegliata da una voce fuori dalla sua stanza che l’avvertiva che avevano suonato alle porte del convento, quindi scese e raccolse la solita offerta di 10 lire. Quando poi però chiese alle suore chi di loro l’avesse svegliata, risultò che non era stata nessuna di queste.
Presa da timore crescente, una volta la badessa pensò bene di far ripetere una giaculatoria allo sconosciuto, temendo che si trattasse di una manifestazione diabolica, ma costui la ripeté senza problemi.
Finché, quando il 3 ottobre 1919 lo straniero si presentò nuovamente, la badessa decise di rifiutare recisamente l’ennesima offerta di 10 lire. Fu allora che questo, supplicandola di accettare, rivelò di essere un’anima purgante, che da quarant’anni stava scontando la pena per aver dissipato beni ecclesiastici.
Allora le suore cominciarono a pregare e a dire messe per la sua salvezza, finché nel novembre 1919 avvenne l’ultima manifestazione dell’anima che annunciava loro di essere finalmente in Paradiso e le ringraziava per aver accorciato la sua pena.
La badessa, felice della notizia, gli chiese di pregare per la sua comunità e per i suoi genitori, se erano in Purgatorio.
Al termine di questi fatti l’arcivescovo di Spoleto, monsignor Pacifici, nel luglio 1921 costituì il tribunale per il processo canonico che si tenne dal 27 luglio fino al giorno 8 agosto. Gli atti contenenti la deposizione di dodici testi sono conservati nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Spoleto. L’esito del processo è stato positivo, sebbene per ragioni contingenti non sia stata emanata sentenza.
La sacrestia dove l’anima si era manifestata divenne cappella dedicata al suffragio delle anime purganti, in particolare di quelle dei sacerdoti, ed è tuttora luogo di grande devozione».

Antonio Socci
da: Tornati dall’Aldilà, editore Rizzoli




















Sono io la morte e porto corona,
io Son di tutti voi signora e padrona
e così sono crudele, così forte sono e dura
che non mi fermeranno le tue mura.
Sono io la morte e porto corona,
io son di tutti voi signora e padrona
e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
e dell 'oscura morte al passo andare.
Sei l'ospite d'onore del ballo che per te suoniamo,
posa la falce e danza tondo a tondo:
il giro di una danza e poi un altro ancora
e tu del tempo non sei più signora.

 - Angelo Branduardi -


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Nulla va perduto della nostra vita.
Nessun frammento di bontà e di bellezza.
neppure il più piccolo e insignificante.
Nessuna lacrima e nessun sorriso.
Nessun sacrificio per quanto ignorato...

- Don Michele Dho -


Buona giornata a tutti :-)