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martedì 16 ottobre 2018

Il valore della vita non sta in ciò che fai - Omar Falworth

Se sei disposto a dimenticare ciò che hai fatto per gli altri
e a ricordare ciò che gli altri hanno fatto per te…
… se sei pronto a non tener conto di ciò che la vita ti deve,
ma a prendere nota di ciò che tu devi alla vita…
… ma soprattutto, se riesci a capire che tu sei negli altri
e gli altri sono in te e che la cosa più importante della vita
non è ciò che riuscirai a prendere da essa,
ma ciò che riuscirai a darle….
Allora avrai imparato a vivere.


… Il valore della vita non sta in ciò che fai,
ma in ciò che riesci ad amare di ciò che fai;
puoi fare tante cose, ma se non riesci ad amarle,
il tuo fare non serve a nulla,
e la tua vita non vale nulla.

Il valore della tua vita non sta in ciò che hai,
ma in ciò che sei;
perché in realtà nessuno non ha niente.

L’unica cosa che si può avere è se stessi,
se hai te stesso, hai tutto il mondo
e la tua vita vale più del mondo.

Il valore della tua vita non sta in ciò che pensi:
puoi pensare tutto il bene del mondo,
ma se non ti adoperi per farne almeno un po’
è come se pensassi il male,
e la tua vita non vale nulla.

Il valore della tua vita si misurerà
quando starai per perderla;
se lascerai il mondo un pochino migliore di come l’hai trovato
... allora sarà grande.

... Sai vivere quando...
pur vivendo in questo mondo complicato resti semplice,
pur vivendo in questo mondo ingiusto resti giusto,
pur vivendo in questo mondo disonesto resti onesto,
pur vivendo in questo mondo falso resti autentico,
pur vivendo in questo mondo sporco resti pulito
ma soprattutto, sai vivere quando...
Pur vivendo in questo mondo con poco amore riesci ad amare
ma ancor di più sai vivere...
se, nonostante tutto, amerai lo stesso questo mondo.

- Omar Falworth -





Il valore della vita non risiede nel numero dei giorni, ma nell'uso che ne facciamo: un uomo può vivere a lungo, eppure vivere molto poco. 
La soddisfazione nella vita non dipende dal numero degli anni, ma dalla volontà. 

- Michel de Montaigne -





Ogni giorno è un nuovo giorno.
Tutto da inventare, tutto da vivere, tutto da godere.
L’alba lo posa sul palcoscenico della tua vita,
e se ne va.

Il nuovo giorno è tuo, t’appartiene,
nessuno te lo può portare via.
Puoi farne ciò che vuoi.
Puoi farne un capolavoro o un fiasco.
Perché sei Tu il soggettista...
Perché sei Tu il regista...
Perché sei Tu il protagonista.
La vita è fatta di tanti nuovi giorni:
tutti da inventare,
tutti da vivere,
tutti da godere.
Alzati dalla poltrona di prima fila!...
e sali sul palcoscenico della tua vita!



- Omar Falworth -


Buona giornata a tutti. :)






venerdì 12 ottobre 2018

La Trappola delle etichette - Padre Anthony de Mello

Paddy sta camminando lungo le strade di Belfast e a un certo punto si sente puntare una pistola alla nuca, e una voce gli chiede: “Sei cattolico o protestante?”
Paddy è costretto a pensare in fretta  e risponde:”Sono ebreo”.
E sente la voce che dice: “Devo proprio essere l’arabo più fortunato di tutta Belfast”.

 Le etichette sono davvero importanti per noi. 

Passiamo gran parte della nostra vita a reagire a delle etichette, le nostre e quelle degli altri.
Mark Twain ha espresso molto bene il concetto scrivendo: "Faceva talmente freddo che se il termometro fosse stato più lungo di due centimetri saremmo morti congelati".
Noi moriamo davvero congelati a causa delle parole. 
Non è il freddo che c'è fuori che conta, ma il termometro. 
Non è la realtà che conta, ma quel che diciamo a noi stessi riguardo alla realtà.
Mi è stata raccontata una storiella interessante su un agricoltore finlandese. Quando si stava tracciando il confine russo-finnico, l'agricoltore doveva decidere se preferiva stare in Russia o in Finlandia. Dopo lungo tempo, decise che preferiva stare in Finlandia, ma non voleva offendere gli ufficiali russi. Questi vennero a fargli visita, e vollero sapere perché voleva stare in Finlandia. 
Il contadino rispose: "E' sempre stato mio desiderio vivere nella Grande Madre Russia, ma credo che alla mia età non sopravviverei a un altro inverno russo".
La Russia e la Finlandia sono solo parole, concetti, ma non per gli esseri umani, per i folli esseri umani. Non guardiamo quasi mai la realtà.

- Padre Anthony De Mello -
da:  Messaggio per un’aquila che si crede un pollo, p. 54-55


Due monaci di Gaza del 6° secolo. Dopo aver biasimato un fratello per la sua negligenza, Giovanni è dispiaciuto vederlo triste. È ancora ferito quando a sua volta si sente giudicato dai suoi fratelli. 
Per trovare la calma, decide allora di non fare più rimproveri a nessuno e di occuparsi unicamente di ciò di cui sarebbe responsabile. Ma Barsanufio gli fa capire che la pace del Cristo non sta nel chiudersi in se stesso. 
Gli cita più volte una parola dell’apostolo Paolo: «Ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2 Timoteo 4,2).

Da: Barsanufio e Giovanni




Lasciare gli altri tranquilli, può essere ancora una forma sottile di giudicare. Se voglio occuparmi solo di me stesso, è forse perché considero gli altri non degni della mia attenzione e dei miei sforzi? Giovanni di Gaza decide di non più riprendere nessun suo fratello, ma Barsanufio comprende che in effetti egli continua a giudicarli nel suo cuore.
Gli scrive: «Non giudicare e non condannare nessuno, ma avvertili come veri fratelli» (Lettera 21), È rinunciando ai giudizi che Giovanni diventerà capace di una vera preoccupazione per gli altri.

da Barsanufio e Giovanni



Buona giornata a tutti. :)




martedì 18 settembre 2018

Le tensioni e i conflitti all'interno della comunità - Jean Vanier

Le tensioni sono momenti necessari nella crescita e nell’ approfondimento  di una comunità. 
Esse risultano dai conflitti personali,  conflitti nati dal rifiuto della crescita e dell'evoluzione personale e comunitaria, conflitti fra gli egoismi delle diverse persone, dovuti alla diminuzione della gratuità nell'insieme della comunità, dovuti ai diversi temperamenti e alle difficoltà psicologiche  di ognuno. Queste tensioni sono naturali.

Ognuna di queste tensioni mette l'intera comunità e ogni suo membro davanti alla propria povertà, alle proprie incapacità,  stanchezze, aggressività e atteggiamenti depressivi. 
Questo può  diventare un tempo importante,  quello di una presa di coscienza del fatto che il tesoro della comunità è in pericolo. Quando tutto va bene, quando la comunità crede di vivere un successo, i suoi membri rischiano di lasciarsi andare nelle loro energie d’amore.  
Sono meno attenti gli uni agli altri.
Le tensioni li obbligano a tornare alla realtà della loro povertà, e a prendere delle adeguate  misure di preghiera, di dialogo, di pazienza e di sforzo per  superare la crisi e ritrovare l'unità perduta.

Esse fanno capire che la comunità è più di una realtà umana,  che ha bisogno dello spirito di Dio per vivere e approfondirsi.
Esse segnano anche, molto spesso delle tappe necessarie verso un'unità più grande, rivelando delle fratture che obbligano a  una rieducazione,  a una riorganizzazione,  a una maggiore  umiltà.
L'esplosione a volte brutale non fa altro che rivelare una reale tensione che era latente. 
Solo quando esplode la tensione  è possibile cercare di curarne la causa fino alle radici.

Non c'è nulla che pregiudichi la vita comunitaria come mascherare le tensioni, fare come se non esistessero, nasconderle  dietro segni di cortesia e fuggire la realtà e il dialogo.
Una tensione o un turbamento possono essere il segno della venuta prossima di una nuova grazia di Dio.
Annunciano un passaggio di Dio nella comunità.


- Jean Vanier -
Fonte: "La comunità luogo del perdono e della festa"di Jean Vanier, Ed.JakaBook, 1991




Dietro a grandi macchine potenti, dietro ai lustrini e ai tacchi vertiginosi, scorgo spesso un ego mozzafiato e una autostima piccola piccola, come la cruna di un ago.
Gli animali mi ricordano, che chi abbaia più forte, è il più piccolo, è chi ha
più paura.
Ed oggi giri nelle strade del centro, trovi ricchezza tra gli abiti sgualciti e povertà dietro a grandi macchine griffate ed i lustrini.
Se sei grande dentro, non ti serve urlarlo fuori. 

Puoi nasconderti quasi non visto tra le cose e le persone, compiere gesti eroici, grandi imprese. Sì, non visto, in silenzio, dietro falso nome. Come gli angeli e i benefattori.

- Stephen Littleword -




Dobbiamo di nuovo renderci conto che nessun uomo è chiuso in se stesso, che nessuno può vivere solo di sé e per sé. 
Riceviamo la nostra vita dall'esterno, dall'altro, da chi non è noi stessi eppure ci appartiene, e la riceviamo non solo al momento della nascita, ma ogni giorno. 
L'uomo ha la propria identità non solo in se stesso, ma anche fuori di sé: vive in coloro che ama, in coloro di cui vive e per cui esiste. 
L'uomo è relazione e ha la propria vita e se stesso solo nel modo della relazione...

- card. Joseph Ratzinger - 
dal libro "Creazione e peccato" 


Buona giornata a tutti. :)





venerdì 13 luglio 2018

La vita è bella, Signore - Padre Michel Quoist

La vita è bella Signore,
e voglio coglierla
come si colgono i fiori in un mattino di primavera.
Ma so, mio Signore,
che il fiore nasce
solo alla fine di un lungo inverno,
in cui la morte ha infierito.

Perdonami Signore, se a volte,
non credo abbastanza nella primavera della vita,
perché, troppo spesso,
mi sembra un lungo inverno
che non finisce mai di rimpiangere
le sue foglie morte
o i suoi fiori scomparsi.

Eppure con tutte le mie forze
credo in Te, Signore,
ma urto contro il tuo sepolcro e lo scorgo vuoto.

E quando gli apostoli d'oggi mi dicono
che ti hanno visto vivente
sono come San Tommaso,
ho bisogno di vedere e di toccare.
Dammi abbastanza fede,
ti supplico, Signore,
per aspettare la Primavera,
e nel momento più duro dell'inverno,
per credere alla Pasqua trionfante
oltre il Venerdì di passione. (...)

Signore tu sei risorto!
Dal sepolcro, grazie a Te,
la Vita è uscita trionfante.

La sorgente d'ora in poi non si prosciugherà mai,
Vita nuova, offerta a tutti,
per ricrearci per sempre
figli di un Dio che ci attende,
per le Pasque di ogni giorno
e di una gioia eterna.

Era Pasqua ieri, Signore,
ma è Pasqua anche oggi
ogni volta che accettando di morire in noi stessi,
con Te apriamo una breccia
nella tomba dei nostri cuori,
perché zampilli la Fonte
e scorra la Tua Vita.

E se tanti uomini,
nel loro sforzo umano
purtroppo, non sanno che sei già lì,
lo scopriranno più tardi
alla tua luce.

Era Pasqua ieri,
ma è Pasqua anche oggi,
quando un bambino divide le sue caramelle,
dopo avere in segreto lottato
per non tenersele tutte lui.

Quando marito e moglie si abbracciano di nuovo
dopo una discussione o una penosa rottura.
Quando i ricercatori scoprono
il rimedio che guarisce
e il medico riaccende la vita
che senza di lui si spegneva.

Quando le porte della prigione si aprono,
perché la pena è terminata,
e quando già nella sua cella
il carcerato divide le sigarette con i compagni.
Quando l'uomo dopo un lungo sforzo
trova lavoro
e porta a casa un po' di denaro guadagnato. (...)

Sì, Signore, la vita è bella,
poiché è tuo Padre che l'ha donata.
La vita è bella,
poiché sei Tu che ce l'hai ridata
quando l'avevamo perduta.
La vita è bella,
perché è la tua stessa Vita offerta per noi...
ma dobbiamo farla fiorire.
E per offrirtela ogni sera
devo raccoglierla
sulle strade degli uomini
come quel bimbo che passeggiando,
raccoglie i fiori dei campi
per farne un mazzo
da offrire ai suoi genitori.
Oh sì Signore,
fammi scoprire ogni giorno, sempre di più,
che la vita è bella!

- Padre Michel Quoist -


Il predicatore era in ritardo. Nella cappella del convento, le suore in attesa erano arrivate al quindicesimo mistero del Rosario, quando suonò il campanello della portineria. 
Trafelato, il predicatore si scusò imbarazzato dicendo alla superiora che l’attendeva: “ Mi dispiace, Madre, ma non sono riuscito a prepararmi …. “

“Non importa” rispose cortesemente la superiora. “ Parli pure a vanvera “.


La lingua più parlata nel mondo è “a vanvera “. 

Miliardi di parole, ogni giorno, ci investono, ci trafiggono, ci soffocano. 
Saper parlare è un gran dono. 
Perchè l’uomo non dica troppi spropositi Dio gli ha donato dieci dita perchè possa ricordare i suoi saggi consigli: 
“Che la tua prima parola sia buona... 
Che la tua seconda parola sia vera.... 
Che la tua terza parola sia giusta... 
Che la tua quarta parola sia generosa.... 
Che la tua quinta parola sia coraggiosa.... 
Che la tua sesta parola sia tenera.... 
Che la tua settima parola sia consolante....
Che la tua ottava parola sia accogliente....
Che la tua nona parola sia rispettosa....
E la tua decima parola sia saggia . 

Poi.... taci! ”.



- don Bruno Ferrero -
Fonte: La Vita è tutto quello che abbiamo di Bruno Ferrero, casa editrice ElleDiCi


Buona giornata a tutti. :-)




martedì 12 giugno 2018

da: "La danza della realtà" - Alejandro Jodorowsky,

Dietro ogni malattia c’è il divieto di fare qualcosa
che desideriamo oppure l’ordine di fare qualcosa
che non desideriamo.
Ogni cura esige la disobbedienza a questo divieto
o a quest’ordine.
E per disobbedire è necessario abbandonare la
paura infantile di non essere amati; vale a dire di
essere abbandonati.
Questa paura provoca una mancanza di coscienza:
non ci si rende conto di quello che si è davvero,
cercando di essere quello che gli altri si aspettano che noi siamo.
Se si persiste in questa attitudine, si trasforma la
propria bellezza interiore in malattia.
La salute si trova solo nell’autentico, non c’è bellezza senza
autenticità, ma per arrivare a quello che siamo
davvero dobbiamo eliminare quello che non siamo.
Essere quello che si è:
questa è la felicità più grande.

- Alejandro Jodorowsky - 




Sintomo è la manifestazione fisica di qualcosa al quale ci opponiamo al nostro interno.
Se rifiutiamo di assumere consapevolmente un principio, questo principio si introduce nel nostro corpo e si manifesta sotto forma di sintomo. 

Quasi sempre ci si richiede di modificare un comportamento per correggere uno squilibrio e questo è buono per la nostra evoluzione perché ci obbliga ad agire. Noi siamo come i pazienti che chiedono al dottore di curare i sintomi, per non essere costretti a confrontarsi con la causa del male. Sarebbe molto meglio che lavorassimo su noi stessi.

- Alejandro Jodorosky - 


Dobbiamo pensare che non siamo una generazione, ma varie generazioni, non siamo individui, siamo umanità... 

Dobbiamo capire che l'altro esiste e che quello che dai lo dai e basta.

- Alejandro Jodorosky - 




Compresi allora i soprusi che la mia famiglia mi aveva fatto subire. 

Vidi con esattezza la struttura dell'inganno. 
Mi attribuivano la colpa di ogni ferita che mi avevano inferto. 
Il boia non smette mai di proclamarsi vittima. 
Grazie a un abile sistema di negazioni, privandomi di ogni genere di informazione – e non sto parlando di informazione orale ma di esperienze per la maggior parte extraverbali – ero stato spogliato di ogni diritto, trattato come un mendicante senza terra al quale veniva offerto con bontà sdegnosa un frammento di vita. 
I miei genitori sapevano che cosa stavano commettendo? Assolutamente no. Senza volerlo, facevano a me quello che era stato fatto a loro. 
E così, reiterando di generazione in generazione i misfatti emozionali, l'albero di famiglia continuava ad accumulare una sofferenza che durava da parecchi secoli.

- Alejandro Jodorosky - 
da: La danza della realtà




sabato 2 giugno 2018

Perché si riunisce un gruppo? - Madeleine Delbrêl

Se dei cristiani vivono in gruppo, hanno come primo intento quello di essere tutti insieme una risposta a quella proposta di amore che il Cristo ha rivolto a tutti i cristiani: ci si riunisce insieme a vivere, spingendosi il più lontano possibile, il vero amore di  Cristo, il vero amore degli altri.
Una debolezza per il gruppo sarebbe quella di accontentarsi dell’amicizia, del cameratismo, dell’affetto: deve essere l’amore di Cristo a cementarci gli uni gli altri. 

La fortuna del gruppo sta nell’incontrare persone che sono decise ad amarsi insieme fino in fondo, senza cedere ad inutili indulgenze degli uni verso gli altri.

Il gruppo può rischiare la consuetudine, l’invecchiamento, se riduce i rapporti a gentilezza. 

Una delle regole è il principio: “chi perde, vince”; nessuno ha dei diritti sul gruppo, ma il gruppo deve assumersi i diritti di ognuno. 

L’amore non fa rivendicazioni.

Naturalmente bisogna mettersi in testa che unità non vuol dire uniformità: esiste, più o meno, senza la tentazione dell’unità confortevole, in cui tutti avrebbero voglia di fare tutto nello stesso modo e nello stesso momento. Dobbiamo invece cercare di vedere la personalità di ognuno nel Signore e di sbarazzarci di tutti i pregiudizi che si hanno sugli altri.
Non esistono ricette per essere persone che amano; bisogna scendere fino al cuore di Cristo per scoprirne il modo. Tutto il resto non è che un espediente.

- Madeleine Delbrel -
da: "Comunità secondo il Vangelo", Gribaudi 1996




Noi delle strade 


Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito,
ma c'è uno Spirito che soffia in tutti i luoghi.

C'è gente che Dio prende e mette da parte.
Ma ce n'è altra che egli lascia nella moltitudine,
che non «ritira dal mondo».
E' gente che fa un lavoro ordinario,
che ha una famiglia ordinaria o che vive un'ordinaria vita da celibe.
Gente che ha malattie ordinarie, lutti ordinari.
Gente che ha una casa ordinaria, vestiti ordinari.
E' la gente della vita ordinaria.
Gente che s'incontra in una qualsiasi strada.
Costoro amano il loro uscio che si apre sulla via,
come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta
che si è rinchiusa definitivamente dietro di loro.
Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze
che questa strada, che questo mondo dove Dio ci ha messi
è per noi il luogo della nostra santità.
Noi crediamo che niente di necessario ci manca.
Perché se questo necessario ci mancasse Dio ce lo avrebbe già dato.

- Madeleine Delbrel -
(1938) 



Buona giornata a tutti. :-)





mercoledì 16 maggio 2018

da: "Un cappello pieno di ciliege" - Oriana Fallaci

Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. 
Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io. Naturalmente sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio. 
Espediente mai capito e mai accettato. Però non meno bene sapevo che le altre si nascondevano nella memoria di quel passato, negli eventi e nelle creature che avevano accompagnato il ciclo della formazione, e in un ossessivo viaggio all’indietro lo disotterravo: riesumavo i suoni e le immagini della mia prima adolescenza, della mia infanzia, del mio ingresso nel mondo. 
Una prima adolescenza di cui ricordavo tutto: la guerra, la paura, la fame, lo strazio, l’orgoglio di combattere il nemico a fianco degli adulti, e le ferite inguaribili che n’erano derivate. 
Un’infanzia di cui ricordavo molto: i silenzi, gli eccessi di disciplina, le privazioni, le peripezie d’una famiglia indomabile e impegnata nella lotta al tiranno, quindi l’assenza d’allegria e la mancanza di spensieratezza. 
Un ingresso nel mondo del quale mi sembrava di ricordare ogni dettaglio: la luce abbagliante che di colpo si sostituiva al buio, la fatica di respirare nell’aria, la sorpresa di non star più sola nel mio sacco d’acqua e condivider lo spazio con una folla sconosciuta. 
Nonché la significativa avventura di venir battezzata ai piedi d’un affresco dove, con uno spasmo di dolore sul volto e una foglia di fico sul ventre, un uomo nudo e una donna nuda lasciavano un bel giardino pieno di mele: la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio per la Chiesa del Carmine a Firenze. 

Riesumavo in ugual modo i suoni e le immagini dei miei genitori, da anni sepolti sotto un’aiola profumata di rose. Li incontravo ovunque. Non da vecchi cioè quando li consideravo più figli che genitori, sicché a sollevare mio padre per posarlo su una poltrona e a sentirlo così lieve e rimpicciolito e indifeso, a guardarne la testolina tenera e calva che si appoggiava fiduciosamente al mio collo, mi pareva di tenere in braccio il mio bambino ottuagenario. Da giovani. Quando eran loro a sollevarmi e a tenermi in braccio. Forti, belli, spavaldi. E per qualche tempo credetti d’avere in pugno una chiave che apriva qualsiasi porta. Ma poi m’accorsi che ne apriva alcune e basta: né il ricordo della prima adolescenza e dell’infanzia e dell’ingresso nel mondo né gli incontri coi due giovani forti e belli e spavaldi potevan fornire tutte le risposte di cui avevo bisogno. Superando i confini di quel passato andai in cerca degli eventi e delle creature che lo avevano preceduto, e fu come scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito. E il viaggio all’indietro perse ogni freno.
Un viaggio difficile in quanto era troppo tardi per interrogare chi non avevo mai interrogato. 
Non c’era più nessuno. 
Restava solo una zia novantaquattrenne che alla preghiera dimmi-zia-dimmi mosse appena le pupille annebbiate e mormorò: «Sei il postino?». Con la zia ormai inutile, il rimpianto d’una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli aveva custodito la testimonianza di cinque generazioni: antichi libri tra cui un abbaco e un abbecedario del Settecento, rarissimi fogli tra cui la lettera d’un prozio arruolato da Napoleone e sacrificato in Russia, preziosi cimeli tra cui una federa gloriosamente macchiata da una frase indimenticabile, un paio d’occhiali e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei. 
Cose che ero riuscita a vedere prima che finissero in cenere, una terribile notte del 1944. Con la cassapanca perduta, qualche oggetto salvato per caso: un liuto privo di corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi emessa dallo Stato Pontificio, un vetusto orologio che stava nella mia casa di campagna e che ogni quarto d’ora suonava i rintocchi della campana di Westminster. 
Infine, due voci. La voce di mio padre e la voce di mia madre che narravano le storie dei rispettivi antenati. Divertita ed ironica quella di lui, sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia. Ed entrambe talmente remote nella memoria che la loro consistenza appariva più tenue d’una ragnatela. A evocarle di continuo, però, e a connetterle col rimpianto della cassapanca o coi pochi oggetti salvati, la ragnatela si irrobustì. Si infittì, si fece un solido tessuto, e le storie crebbero con tanto vigore che a un certo punto mi divenne impossibile stabilire se appartenessero ancora alle due voci oppure se si fossero trasformate in un frutto della mia fantasia. Era esistita davvero la leggendaria arcavola senese che aveva avuto il coraggio di aggredire Napoleone, era esistita davvero la misteriosa arcavola spagnola che s’era sposata esibendo un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta sulla parrucca? Era esistito davvero il dolce arcavolo contadino che spingeva il fervore religioso fino a flagellarsi, era esistito davvero il rude arcavolo marinaio che apriva bocca solo per bestemmiare? 
Erano esistiti davvero i bisnonni maledetti cioè la repubblicana Anastasìa il cui nome portavo come secondo nome e l’aristocraticissimo signore di Torino il cui nome, troppo illustre e troppo potente, non si doveva nemmen pronunciare per ordine della nonna?  E l’avevano davvero abbandonata in un ospizio di orfanelli questa povera nonna concepita dalla loro furibonda passione? Non lo sapevo più. Ma nel medesimo tempo sapevo che quei personaggi non potevano essere un frutto della mia fantasia  perché li sentivo dentro di me, condensati nel mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituivano il mio Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e spavaldi. Le particelle d’un seme non sono forse identiche alle particelle del seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione, perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d’un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d’una miriade di genitori?
Esplose allora un’altra ricerca: quella delle date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare un lavoro incompiuto. 
E come una formica impazzita dalla fretta di accumular cibo corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati delle Anime. 
I registri nei quali, col pretesto di individuare i fedeli tenuti al precetto pasquale, il parroco elencava gli abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppandoli in nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli. L’anno o la data completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo di lavoro e il reddito, il patrimonio o l’indigenza, il grado di educazione o l’analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma. 
Scritti a volte in latino e a volte in italiano, con la penna d’oca e l’inchiostro marrone. L’inchiostro, asciugato con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al contrario s’era incollata alle parole rendendole sfolgoranti, così a raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che era un bruscolo di verità. E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri eran stati divorati dai topi o distrutti dall’incuria o mutilati dai barbari che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti. Quelli delle storie narrate dalle due voci c’erano, e li trovai dal primo all’ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. 
Sì, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me.
La saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, incomincia oltre due secoli fa: negli anni che preparano la Rivoluzione Francese e che precedono la Rivoluzione Americana cioè la guerra d’Indipendenza scatenata contro l’Inghilterra dalle tredici colonie sorte nel Nuovo Mondo tra il 1607 e il 1733. Parte da Panzano, un paesino di fronte alla casa in cui intendo morire e che prima della ricerca condotta dalla formica impazzita guardavo senza sapere quanto vi appartenessi, e avviandone il racconto mi pare giusto offrire qualche notizia a chi non conosce quel tempo o quel luogo. Panzano sta su un poggio del Chianti, a mezza strada tra Siena e Firenze, e il Chianti è la zona della Toscana che si stende tra il fiume Greve e il fiume Pesa: trecento chilometri quadri composti da montagne e colline di rara bellezza. 
Le montagne sono coperte di piante ed alberi sempre verdi, castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali, nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro, e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed immobili ondate. 
Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato. 
Due secoli fa Panzano contava duecentocinquanta abitanti tra cui lo speziale, il vetturale, il procaccia, il sensale di matrimoni, il cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire, ed eccetto quei cinque erano tutti contadini. Mezzadri o pigionali che lavoravano i latifondi del granduca o dei signori o degli enti ecclesiastici e il cui sogno era possedere un livello. Vale a dire, prendere in enfiteusi un podere e scrollarsi di dosso il padrone. Di solito, un despota al quale apparteneva ogni istante della loro giornata e senza il cui permesso non potevano nemmeno sparare a un fagiano o prendere moglie. 
La loro anima, invece, apparteneva al prete. E di preti a Panzano ve n’erano due: il vecchio don Antonio Fabbri e il giovane don Pietro Luzzi. Il primo, nella prioria di Santa Maria Assunta in Cielo: al centro del paese. Il secondo, nella Pieve di San Leolino: lungo la strada per Siena. V’era inoltre un grosso via-vai di frati in cerca di adepti da controllare o da aggregare al rigorosissimo Ordine dei Terziari Francescani, e ovunque trovavi oratori o cappelle o santuari o tabernacoli dove si svolgevano noiose processioni che insieme alla Messa e al Vespro costituivano il massimo svago d’un contadino. Insomma, nonostante la fede nel raziocinio e nel progresso che veniva predicata dall’Illuminismo, nonostante gli ideali di libertà e di uguaglianza che stavano prendendo corpo, nonostante i principii irreligiosi e i costumi epicurei che caratterizzavano l’epoca, in cima a quel poggio del Chianti la religione dominava spietata e la Chiesa imperava: somma regina e principale tiranna. 
La città era lontana, sebbene fosse geograficamente vicina. I ricchi vi si recavano col cavallo o con la carrozza, i meno ricchi col calesse del vetturale, i quasi poveri con il barroccio, e i poveri a piedi. 
Così i più morivano senza aver mai visto Firenze che da Panzano distava appena venti miglia, o Siena che ne distava appena diciannove.
Le strade eran strette e sconnesse, un acquazzone bastava a renderle impraticabili, e d’inverno succedeva spesso di restare isolati per settimane o per mesi. Le case, no: erano quasi sempre belle perché nelle regie fattorie il granduca aveva ordinato di ricostruirle su modelli architettonici pieni di grazia. Bei porticati, bei torrini e bei forni per cuocervi il pane. 
Ma contenevano le stalle, i porcili, gli ovili, i pollai da cui veniva un gran puzzo e come quelle di città non avevano acqua. 
L’acqua si prendeva alla sorgente, trasportandola a braccia coi secchi, e si serbava nei fiaschi o nelle brocche di rame dette mezzine. Infatti ci si lavava pochissimo, diciamo una volta al mese o una volta all’anno, e la latrina era un lusso costituito da un recipiente o da un buco chiuso da un coperchio. 

Oriana a sei mesi tra le braccia della madre Tosca Cantini 
- Foto - Oriana Fallaci

Il cariello. Era un lusso anche illuminare le stanze. Le lampade a olio costavano care e al calar del buio si accendeva una candela o si andava a letto. Altrettanto presto ci si svegliava. D’estate, alle quattro del mattino: per correr subito a lavorare nei campi. Si lavorava molto, a Panzano. In media, quindici ore al giorno. E, a parte lo svago delle Messe o dei Vespri o delle processioni, l’unica ricompensa erano le veglie. Cioè i raduni serali che la domenica si tenevano in una stalla o in cucina per raccontarsi le novelle popolate di streghe e di diavoli, di fate e di fantasmi. L’unico divertimento mondano, il mercato settimanale o la fiera stagionale di Greve e di Radda: i due paesi attigui. 
L’unico vero conforto, l’amore consentito dalla Chiesa cioè l’amore coniugale. (Il che non impediva frementi amplessi nei pagliai e scomode gravidanze da riscattare col matrimonio). 
Cos’altro? Bè, i figli davano del voi ai genitori, in segno di rispetto. Anche fra marito e moglie ci si dava del voi, in segno di riguardo, e le donne contavano poco. Non avevano diritto all’eredità, per sposarsi dovevano possedere una dote e un corredo, in mancanza di ciò finivano spesso in convento, e sfacchinavano di zappa o di vanga proprio come gli uomini. Gli ospedali in campagna non esistevano. Sebbene a Radda ci fosse un medico condotto, a Panzano bisognava accontentarsi del cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire. Quindi una ferita o una bronchite bastavano a spedirti nell’al di là. 
Non esistevano nemmeno i cimiteri. I morti si seppellivano sotto l’impiantito della Pieve di San Leolino o della prioria di Santa Maria Assunta in Cielo, con un po’ di calce e via. 
Tantomeno esistevan le scuole. Solo se il prete ti insegnava, imparavi a leggere un libro, compilare una lettera, far di conto. Ma don Fabbri non ne aveva voglia, don Luzzi lo faceva esclusivamente nei casi eccezionali, e tra i contadini della zona la percentuale dell’analfabetismo toccava l’ottantasette per cento. Eppure quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena era giudicato da chiunque un angolo benedetto da Dio, il Chianti era una delle contrade più ammirate e più invidiate d’Europa, e la sua fama giungeva fino alla Virginia: la prima delle tredici colonie che stavano per ribellarsi all’Inghilterra. 
Questo spiega perché la saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, includa all’inizio tre personaggi ai quali non mi lega alcuna parentela e che tuttavia furono coinvolti nel mio venire al mondo. 
Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza Americana e terzo presidente degli Stati Uniti che in Virginia viveva e possedeva molte terre cui si dedicava con l’entusiasmo di un agronomo. Benjamin Franklin, il geniale scienziato e scrittore e politico della colonia chiamata Pennsylvania che fra le altre cose inventò il parafulmine e la stufa a combustione. 
E il fiorentino Filippo Mazzei: medico, commerciante, memorialista, esperto di agricoltura, avventuriero di classe nonché amico di quei due. Coinvolgimento che induce a riflettere sulla comicità del destino e sull’inopportunità di prenderlo troppo sul serio.

Oriana Fallaci -
da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli,La prima parte 




"Non so arrendermi al fatto che per vivere si debba morire, che vivere e morire siano due aspetti della medesima realtà, l'uno necessario all'altro, l'uno conseguenza dell'altro. 
Non so piegarmi all'idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte e nascere una condanna a morte. 
Eppure l'accetto. 
Mi inchino al suo potere illimitato e accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico. Spinta da un tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore la invoco."


Oriana Fallaci -

da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli 




“Ho sempre amato la vita.
Chi ama la vita
non riesce mai ad adeguarsi,
subire, farsi comandare.
Chi ama la vita
è sempre con il fucile alla finestra
per difendere la vita…
Un essere umano che si adegua,
che subisce, che si fa comandare,
non è un essere umano”. 

- Oriana Fallaci -



Buona giornata a tutti. :-)