La paura è in un
certo qual modo il nostro principale nemico. Essa si annida nel cuore dell’uomo
e lo mina interiormente finché egli crolla improvvisamente, senza opporre
resistenza e privo di forza.
Corrode e
rosicchia di nascosto tutti i fili che ci uniscono al Signore e al prossimo.
Quando l’essere umano in pericolo tenta di aggrapparsi alle corde, queste si
spezzano, ed egli, indifeso e disperato, si lascia cadere tra le risate
dell’inferno. Allora la paura lo guarda sogghignando e gli dice: ora siamo soli, tu e io, e
ora ti mostro il mio vero volto.
Chi ha
conosciuto e si è abbandonato a questo sentimento in un’orribile solitudine —
la paura di fronte a una grave decisione, la paura di un destino avverso, la
preoccupazione per il lavoro, la paura di un vizio a cui non si può più opporre
resistenza e che rende schiavi, la paura della vergogna, la paura di un’altra
persona, la paura di morire — sa che è soltanto una maschera del
male, una forma
in cui il mondo ostile a Dio cerca di ghermirlo.
Non c’è nulla nella nostra
vita che ci renda evidente la realtà di queste forze ostili al Creatore come
questa solitudine, questa fragilità, questa nebbia che si diffonde su ogni
cosa, questa mancanza di vie di uscita e questa folle agitazione che
ci assale quando vogliamo uscire da questa terribile disperazione.
Avete mai
visto qualcuno assalito dalla paura? Il suo viso è orribile quando è bambino e
continua a essere spaventoso anche da adulto: quella fissità dello sguardo,
quel tremore animalesco, quella difesa supplichevole.
La paura fa perdere
all’uomo la sua umanità. Non sembra più una creatura di Dio, ma del diavolo;
diventa un essere devastato, sottomesso.
Abbiamo paura
della quiete. Siamo così abituati all’agitazione e al rumore, che il silenzio
ci appare minaccioso e lo rifuggiamo.
Passiamo da un’attività all’altra per non
dover stare soli, per non essere costretti a guardarci allo specchio. Ci
annoiamo, a tu per tu con noi stessi. Spesso le ore che siamo costretti a
trascorrere in solitudine ci sembrano le più tristi e le meno fruttuose.
Ma non
abbiamo soltanto il timore di noi e di scoprirci; temiamo molto di più
l’Onnipotente. Vorremmo evitare che disturbi la nostra tranquillità e ci
smascheri, creando un rapporto esclusivo a due per poi disporre di noi secondo
la sua volontà.
Questo incontro misterioso ci preoccupa e cerchiamo di
sottrarci a questa esperienza. Ci teniamo alla larga dal pensiero di Dio, per
evitare che Egli arrivi inaspettatamente e ci rimanga troppo vicino. Sarebbe
terribile doverlo guardare negli occhi e doversi giustificare. Dal nostro volto
potrebbe scomparire per sempre il sorriso. Potrebbe, per una volta, accadere
qualcosa di molto serio a cui non siamo più abituati.
Questa paura è
una caratteristica della nostra epoca. Viviamo con l’ansia di essere
improvvisamente avvolti e manovrati dall’infinito.
Allora preferiamo vivere in
società, andare al cinema o a teatro per poi essere portati al cimitero,
piuttosto che rimanere un minuto di fronte al Signore.
Nell’Apocalisse
di san Giovanni leggiamo: «Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora
del suo giudizio» (14, 7). «Temete Dio», invece delle cose che vi fanno paura.
Non temete il futuro, non temete gli altri uomini.
Non temete la violenza e la
forza, anche se possono privarvi dei vostri beni e della vostra vita.
Non
temete i potenti di questo mondo.
Non temete nemmeno voi stessi.
Non temete i
peccati.
Morirete a causa di tutti questi timori.
Liberatevi da queste paure,
ma temete Dio e soltanto Lui, che ha autorità su tutti i poteri terreni.
Davanti a Lui deve provare timore tutta la Terra.
Può darci la
vita o privarcene. Tutto il resto non ha importanza, solo il Signore conta.
Che
cosa ci chiederà il Padre nell’ultimo giorno? Soltanto una cosa: «Avete creduto
al Vangelo e gli avete ubbidito?». Non domanderà se eravamo tedeschi o ebrei,
se eravamo nazisti oppure no, e nemmeno se facevamo parte della Chiesa
confessante, se eravamo persone influenti e di successo, se possiamo vantarci
di grandi opere, se eravamo rispettati oppure malvagi, insignificanti, inutili
e sconosciuti. Il nostro unico giudice sarà il Vangelo.
Perché io sono proprio
io? Che cosa sono davvero? Chi sono?
Perché esisto?
Da dove arrivo? Qual è il mio fine? Cosa ne sarà di me?
Sono queste le domande
che l’umanità si pone da sempre. L’uomo si sente aggredito da una forza
superiore, da tutto un mondo, dal suo stesso io; allora comincia a indagare, a
cercare, ad arrovellarsi e procede di scoperta in scoperta,
sentendosi sempre più inquieto. Di fronte a se stesso viene colto da una grande
paura. Per la prima volta è toccato dalla miseria dell’essere umano e il cuore
si contrae nella consapevolezza della sua mancanza di libertà. A questo punto
reclama una cosa soltanto: la liberazione dal demone delirio e dal
suo dominio, la redenzione.
Come posso salvare il mio io? Come posso diventare libero?
Come posso dare una forma a ciò che non ne ha e organizzare ciò che è privo di
coerenza?
Come posso
dominare il caos?
In ogni tempio
greco antico erano riportate queste parole: «Conosci te stesso!». Solo in
questo modo diventerai padrone del tuo io. È un’esperienza che può fare ognuno
di noi: nessuno riesce realmente a conoscersi nel corso della sua vita. Siamo e
rimaniamo ignoti a noi stessi, soltanto Dio è in grado di vedere davvero dentro
di noi.
Se ci
lambicchiamo il cervello ci procuriamo soltanto grandi tormenti: sappiamo bene
che questo atteggiamento conduce alla disperazione e non al sollievo.
Quindi è
necessario percorrere un’altra via: non quella della conoscenza di sé, ma il
dominio e la formazione di sé attraverso la volontà.
Perché il
problema della debolezza è così importante?
Hai mai visto nel mondo un mistero
più grande dei poveri, dei vecchi, dei malati.
Hai mai pensato a come appare la
vita a uno storpio, a un infermo senza speranza, a una persona sfruttata, a un
nero in un ambiente di bianchi, a un intoccabile? Se lo hai fatto, riesci a
sentire che in quei casi l’esistenza ha un significato diverso da quello che le
attribuisci tu? Comprendi che anche tu, comunque, appartieni alla categoria
degli sfortunati, perché anche tu sei un essere umano come loro, perché sei
forte e non debole, perché in tutti i tuoi pensieri avvertirai la loro
fragilità? Non ci siamo resi conto che non potremo mai essere felici finché
questo universo della debolezza, da cui forse finora siamo stati risparmiati ci
rimane estraneo e sconosciuto, distante, finché lo teniamo lontano dalla nostra
portata, in modo consapevole o inconsapevole?
Che cosa
significa debolezza nel nostro mondo? Sappiamo che fin dai primi tempi fu
rimproverato al cristianesimo di rivolgere il suo messaggio ai deboli: era
considerato la religione degli schiavi, di quelli che soffrono di complessi di
inferiorità; si diceva che dovesse il suo successo alla massa di
disperati dei
quali ha esaltato la condizione di miseria. È stato proprio l’atteggiamento nei
confronti del problema del male nel mondo che ha attirato simpatie oppure odio
per questa confessione. Ha sempre prodotto l’opposizione forte e sdegnata di
una filosofia aristocratica che esaltava la forza e il potere, in
contrapposizione con i nuovi valori di rifiuto della violenza ed esaltazione
dell’umiltà.
Anche nella
nostra epoca siamo testimoni di questa lotta. Il cristianesimo resiste o
fallisce con la sua protesta rivoluzionaria contro l’arbitrio e la superbia del
potente, con la sua difesa del povero.
Credo che i
cristiani facciano troppo poco, e non troppo, per rendere chiaro questo concetto.
Si sono adattati troppo facilmente al culto del più forte. Dovrebbero dare
molto più scandalo, scioccare molto più di quanto facciano ora.
- Dietrich Bonhoeffer -
in
“L'Osservatore Romano” del 9 aprile 2015
Scritti
inediti di Dietrich Bonhoeffer, ucciso nel campo di concentramento di
Flossenbürg il 9 aprile 1945, sono appena apparsi nel volume dal titolo "La
fragilità del male" (Milano, Piemme, 2015, pagine 176, Stralcio dal primo capitolo)
"I figli di Dio non
devono avere quaggiù altra patria che l’universo intero. Con la totalità delle
creature ragionevoli che ha contenuto e contiene e conterrà, il nostro amore
deve avere la stessa estensione attraverso tutto lo spazio.
Ogni qual volta un uomo ha invocato con cuore puro
Osiride, Dioniso, Crisna, Budda, Il Tao ecc. il Figlio di Dio ha risposto
inviandogli lo spirito Santo e lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non
inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli luce e nei migliori dei casi la
pienezza della luce all’interno di tale tradizione.
Poiché in occidente la parola Dio, nel suo significato corrente, disegna
una persona, quegli uomini nei quali l’attenzione, la fede e l’amore si
applicano quasi esclusivamente al perfetto impersonale di Dio, possono credere
e dirsi atei, sebbene l’amore soprannaturale abiti nella loro anima.
Costoro sono sicuramente salvati e si riconosce dal loro atteggiamento
verso le cose di quaggiù, quelli che possiedono allo stato puro l’amore per il
prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo compresa la sventura, costoro
sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza
atei".
- Simone Weil -
"Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i
generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi.
Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male
stesso, quanto chi lo nomina.
In modo che più volte, mentre chi fa male
ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui
patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo
qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi."
- Giacomo Leopardi -
Cercavo
te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Perché mancavi, nelle lunghe sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio,
io uno sbaglio nel mondo.
E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’eri tu.
(Primo
Levi)
Titolo
della poesia "11 febbraio 1946".
Fa parte della raccolta "Ad ora
incerta"
Buona giornata a tutti. :-)