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mercoledì 10 gennaio 2024

Tutte le lettere d'amore e altre poesie - Ferdinando Pessoa

Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.

(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole).

(Fernando Pessoa)



Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. 
Non è pesante come la stanchezza del corpo, non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. 
È un peso della consapevolezza del mondo, un’impossibilità di respirare con l’anima.

- Fernando Pessoa - 





Amo tutto ciò che è stato

Amo tutto ciò che è stato,
tutto quello che non è più,
il dolore che ormai non mi duole,
l'antica e erronea fede,
l'ieri che ha lasciato dolore,
quello che ha lasciato allegria
solo perché è stato, è volato
e oggi è già un altro giorno.


- Fernando Pessoa -




Nulla - Fernando Pessoa

Gli angeli vennero a cercarla
la trovarono al mio fianco,
lì dove le sue ali l'avevano guidata.

Gli angeli vennero per portarla via.
Aveva lasciato la loro casa,
il loro giorno più chiaro
ed era venuta ad abitare presso di me.

Mi amava perché l'amore
ama solo le cose imperfette.

Gli angeli vennero dall'alto
e la portarono via da me.

Se la portarono via per sempre
tra le ali luminose.

È vero che era la loro sorella
e così vicina a Dio come loro.

Ma mi amava perché
il mio cuore non aveva una sorella.

Se la portarono via,
ed è tutto quel che accadde.


(Fernando Pessoa)




Buona giornata a tutti :-)


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sabato 30 dicembre 2023

da: "La Morte del Tempo" - Giancarlo Petrella

Ed ecco Lucifero dalle ali stupendamente blu; occhi finissimi, zigomi accentati, pelle bianchissima più de le nuvole del suo infinito oppositore, labbra carnose di odio, naso perfetto come 'l suono perpetuo dei suoi fiumi infernali allattati dal pianto dei dannati. Capelli color dell'oro ove punte di sangue innocente trovano luogo e denti bianchi ribelli alle tenebre. 

I demoni, affogati dalla saliva dell'odio, lo venerano, Padre lo chiamano, ed in questa valle sconsolata, il punto più in basso dell'universo, lo adorano; ma lui è per sé solo. 
Non meno angosciato è il Dio dei cieli che diletta i secoli con l'indifferenza; e di indifferenza governa la terra. Queste anime dannate, l'una verso l'altra di amore si cibavano, imperano questo regno del pianto; per orgoglio rimangono eretti nei propri troni, credendo di essere l'un più in alto dell'altro; perché a seconda del punto di vista si vede in profondità l'altro. 
Così Lucifero, volgendo li occhi al cielo, che per lui è sotto di lui, ricorda il suo amato e così, con non minore amore, il Dio volge li occhi stupendi alla sua anima ritrovando Lucifero venerato. 
Il Dio possiede un trono bellissimo, con oro che disgusterebbe persino il più avaro fra li uomini, il celeste regna come nelle sue pupille, giacinto giunto dal regno dell'azzurro; il suo volto eternamente fanciullo ha fatto innamorare Venere e l'intero creato si muove come atto di preghiera; la sua magnificenza è tale che giustamente gli scarafaggi umani lo venerano. 
Entrambi per amore tollerano l'esistenza dell'altro. Egli venera l'amato Lucifero; nel silenzio della sua anima. Ecco! parliamo di quell'anima che gli eserciti degli angeli da secoli hanno tentato di penetrare con i loro sguardi capaci di comprendere gli universi; i suoi capelli neri hanno saziato la notte, mentre il dorato trova nella sua pelle luogo e tempo. 
Tutte le sofferenze di tutti i secoli e di tutte le lande del pianto degli umani sono un nulla di fronte alle lacrime di Lucifero: di lui il popolo dei morti, tormentato dal castigo eterno della fine del desiderio, ne ha compassione e non solo per se stesso piange, ma soprattutto per il suo imperatore; splendono di più le lacrime che le stelle. Oh Lucifero, maladetta aurora, dimentica le cose del giorno; abbracciati, poiché nessuno questa notte ti abbraccerà.

Luogo è dall'albe remoto; nel centro dell'universo l'oscurità sogna e l'incubo vien tradito da lucciole che sono le lacrime dei dannati. Si intravede, attraverso un blu nervosamente, un colle ove sopra regna, nero come un livido, come un capezzolo di un'arpia, un maestoso castello relitto di tempi eterni; mura malefiche, come peccati taciuti o promesse rinnegate, si alzano al cielo come bestemmie; piante malefiche, di un verde cinereo, si strusciano come lingue di peccatrici alzandosi fra le mura come urla; di lontano, sull'orizzonte, si intravedono le crudeli cupole del globo che fan da cappello alla lordura delle basiliche. A nessuno, neppure ai demoni più fedeli, neppure ai segugi infernali che allietano il male che non dorme mai, è concesso di entrare: nella sala più vasta, nel trono imperiale, rosso di sangue, impossibile che la mente guardi altro che, in qualche modo, lì è reso perfetto e rassicura dell'oscurità che lo circonda, lo 'mperator del doloroso regno si erge. 
Ghigna il sudore, estraneo così a qualunque minatore di inferni artificiali; come quando un treno passaci così velocemente accanto che l'aria regola e qualità non possiede, così il naso non detiene argomenti; la lingua sente il peso di una gravità nuova che la inchioda, nessuna favella, incatenate nell'animo come un mastino infernale che ha poteri sovrumani ma la sua frenesia ammutolita dal greve suono delle catene; pur li occhi tradiscono un desiderio infinito. Come i fulmini nascono dall'incontro della crosta terrestre con le reliquie del cosmo; così la paura è tale che false ombre crea. Ah come lacrimano gli occhi; esistono enti indefinibili, eppure, nominandoli, li distinguiamo (mirate un'ondulazione sopra un suolo bollente, intuirete) così lo sguardo non si possiede, eppur sa di vedere. Nel trono dell'imperatore, tali parole si possono leggere:

È giusto; dimenticano i viventi
le parole retro le quali torme
indistinte dell'esistenza vivono;
eppur il mio popolo ancora sogna,
e non può fa' altro che 'l sognare il sempre.

Nervosamente, senz'alcun movimento umano, Lucifero muove i capelli, e sì facendo un suono stridulo ne esce; che le orecchie si dilaniano ed in un mare di sangue trovano l'agognato silenzio. Appare l'ultima volta, accanto a Lucifero, Maldoror, che rappresenta la perpetuità, che simboleggia il sempre, ci guardiamo ne li occhi e ci giuriamo un amore dilaniante. Qui termina il podere dello spazio esteso: uno Shinigami dalle ali nere come il tradimento e dai denti sporchi come la falsità dei cieli, con le unghie carche di secoli di angoscia, scrive questo nome sul suo braccio e ghigna per la fiera preda che ottiene; ma non smette di vaneggiar la valle d'abisso nel mio desiderio.
  
da:  La Morte del Tempo di Giancarlo Petrella, ed. Feltrinelli



Ah, Faust,
Adesso non hai che un'ora da vivere,
E poi sarai dannato in eterno.
Sfere celesti in moto perpetuo, fermatevi,
Che il tempo possa cessare e mezzanotte mai giungere.
Occhio lieto della Natura, sorgi, sorgi ancora e fai
Un giorno eterno: o lascia quest'ora essere
Un anno, un mese, una settimana, un giorno,
Che Faust possa pentirsi, e l'anima salvare.
'O lente lente currite noctis equi'

C. Marlowe - 
da: Il Dottor Faust


La morte degli innamorati

Lui sapeva della morte solo
quello che tutti sanno: che ci prende
e nella muta dimora ci spinge.
Ma quando lei da lui, no, non strappata,

ma lievemente sciolta dai suoi occhi,
scivolò ad ombre ignote, e lui sentì
che laggiù il suo sorriso di fanciulla
era come una luna a far del bene;

Allora i morti a lui furono noti,
quasi per lei di loro con ognuno
fosse parente: e lasciò parlare gli altri,

Senza prestarvi fede, e quella terra
Dolcissima  chiamò, ed ameno luogo.
E  la tastò per giungere ai suoi piedi.

- Rainer Maria Rilke -


Buona giornata a tutti. :-)



 

mercoledì 27 dicembre 2023

Dove finirono l'oro, l'incenso e la mirra? - don Bruno Ferrero

 Anche se non lo davano a vedere, i più eccitati erano l'asino e il bue. Non riuscivano ad addormentarsi. Quella notte e quella giornata erano state meravigliosamente caotiche: la nascita del bambino, gli angeli, i pastori, la stella e poi l'arrivo dei tre re con i manti di stoffe ricamate e le pellicce e i loro strani quadrupedi con la gobba. E soprattutto il luccichio degli scrigni che racchiudevano i doni portati dai tre re. Li avevano ammirati tutti e ora stavano là, abbandonati sulla paglia, mentre la donna cullava dolcemente il bambino e l'uomo dalle mani grandi e forti attizzava il fuoco e porgeva un po' di fieno alle due bestie.
Tra le fessure sconnesse della baracca, altri due occhi fissavano eccitati i doni dei re. Erano occhi pieni di ingenua astuzia. Non avevano perso un solo attimo della giornata e ora osservavano con interesse il primo sbadiglio di stanchezza fiorito sulla bocca dell'uomo. Erano gli occhi di Disma, il più bravo dei ladruncoli di Betlemme, agile e svelto come un furetto.
Il bambino si addormentò per primo, poi la madre si assopì sul mucchio di paglia che l'uomo aveva preparato e rassettato. L'uomo aspettò che il fuoco si spegnesse, poi si abbandonò anche lui sulla paglia con un sospiro di stanchezza e si addormentò. L'asino e il bue lo imitarono. Un silenzio profondo avvolse la baracca.
Un fagotto tintinnante.
Disma scivolò nell'ombra e si avvicinò alla porta. Era sbarrata da un robusto paletto. Non poteva scardinarla: avrebbe svegliato tutti. Esaminò le pareti, sfiorandole con la mano. Un' assicella si mosse. Disma intuì che poteva allargare la fessura quel tanto che bastava per permettergli di infilarsi dentro la vecchia stalla. Con consumata abilità, il ragazzo spostò l'asse cercando di non farlo cigolare e si infilò nel varco con le movenze sinuose di un gatto.
Si mosse leggero, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. I tre scrigni erano sotto la culla improvvisata del bambino, illuminati dall'ultimo bagliore delle braci del fuoco.
Il bue sbuffò nel sonno e l'asino scalciò nella paglia. Sognavano anche loro. Disma trattenne il fiato, immobile. Nella stalla i respiri ripresero regolari.
Il ragazzo si mosse rapidamente. 
Afferrò i tre scrigni e li infilò nella bisaccia di tela che portava a tracolla. Diede un'occhiata al bambino e gli parve di vedere sul suo piccolo viso un sorriso, scosse le spalle e uscì dalla fessura che aveva aperto. 
Quando fu fuori della stalla, sorridendo rimise a posto l'assicella che aveva spostato per entrare, poi si allontanò di corsa. Faceva grandi balzi di gioia, tenendo con le due mani il fagotto tintinnante della refurtiva. 
Ripassava a memoria il contenuto e pensava eccitato alla bella somma che ne avrebbe ricavato. 
Il più grosso degli scrigni conteneva monili, bracciali e monete d'oro, il secondo era pieno di purissimo incenso e il terzo conteneva una fiala di preziosissima mirra. 
Un colpo di fortuna incredibile. Doveva solo essere prudente e nascondere tutto bene. Il mondo era pieno di ladri.

- don Bruno Ferrero - 
da: "Storie di Natale"


La sorpresa

Entrò in casa dal tetto, come faceva di solito. Non aveva né padre né madre e il vecchio parente che lo teneva in casa non si curava di lui.
Nella sua stanzetta, sotto il pavimento ricoperto di paglia, Disma aveva scavato una nicchia in cui nascondeva le sue cose preziose.
«Terrò nascosti per qualche mese l'oro, l'incenso e la mirra. Poi li venderò un poco alla volta, a Gerusalemme o anche a Damasco, dove non desterà sospetti...» pensava.
Accese una lampada ad olio finemente incisa che proveniva dall'atrio della casa del centurione romano, che la stava ancora cercando, ed esaminò il bottino. Aprì con cautela il primo scrigno e non riuscì a trattenere un'imprecazione stizzita: «Ma che diavolo è successo?». 
Spalancò con furia gli altri due astucci, guardò, annusò e poi imprecò ancora più rabbiosamente. Qualcuno gli aveva giocato uno scherzo terribile. Forse quell'uomo era molto più furbo di quanto desse a vedere. 
Invece dell'oro, lo scrigno conteneva un grosso martello, al posto dell'incenso c'erano tre grossi chiodi e la bottiglietta, invece della mirra raffinata, conteneva volgare aceto.
«Accidenti, accidenti! Che me ne faccio di questa robaccia? La rifilerò ai soldati romani per qualche moneta...».

- don Bruno Ferrero - 
da: "Storie di Natale"



Tre croci

Passarono gli anni. Disma era diventato il più ricco e sfrontato predone del deserto. I suoi uomini compivano razzie nelle più ricche città d'Oriente e l'esercito di Roma era stato costretto più volte a scendere a patti con lui. 
Ma un giorno, arrivò da Roma un governatore ambizioso di nome Ponzio Pilato che, per fare carriera e ingraziarsi i notabili di Gerusalemme, decise di catturare Disma. Ci riuscì con un tranello e Disma fu condannato alla pena più terribile ed infamante: la morte mediante crocifissione.
Erano in tre a salire sul Golgota, il luogo delle condanne, poco fuori Gerusalemme, dove erano state preparate tre croci. Disma conosceva il vecchio brigante legato con lui, ma non riusciva a spiegarsi il terzo condannato. Aveva il volto nobile e pieno di bontà, anche sotto i segni della tortura. Dicevano che era un profeta di Galilea di nome Gesù, che faceva miracoli, che era stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio e Messia.
Gli occhi gelidi e feroci di Disma si incontrarono con quelli del terzo condannato. Per il bandito tutto divenne stranamente diverso: la sua rabbia feroce svanì e si sentì stranamente in pace.
Il boia cominciò il suo miserabile compito con il profeta galileo: impugnò un grosso martello e tre grossi chiodi, mentre un soldato inzuppava una spugna di aceto. Improvvisamente Disma capì: eccoli i doni dei re che lui aveva rubato tanti anni prima in una stalla di Betlemme, dove c'erano un uomo e una madre e un bambino. Quel bambino era il Messia! Quindi anche lui aveva contribuito a crocifiggere il Figlio di Dio... 
Con le lacrime agli occhi, Disma sentì che Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Con la solita insensibilità, i soldati si misero a litigare per dividersi le vesti dei condannati. 
Quando le tre croci furono innalzate con il loro carico di dolore, la gente cominciò a farsi beffe dei condannati. Si accanivano particolarmente contro Gesù. 
I capi del popolo lo schernivano: «Ha salvato tanti altri, ora salvi se stesso, se egli è veramente il Messia scelto da Dio». Anche i soldati lo schernivano: si avvicinavano a Gesù, gli davano da bere aceto e gli dicevano: «Se tu sei davvero il re dei Giudei salva te stesso!».
L'altro bandito crocifisso si era unito agli schernitori e insultava Gesù: «Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!». Disma lo rimproverò con asprezza: «Tu che stai subendo la stessa condanna non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male».
Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».
Gli occhi del Messia torturato e morente guardarono Disma con bontà infinita, poi il feroce bandito udì le parole più belle e amorevoli di tutta la sua vita disperata: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso».

- Don Bruno Ferrero - 
Da: "Storie di Natale" di don Bruno Ferrero, ed. Elledicì


Buona giornata a tutti. :-)

giovedì 2 novembre 2023

Bagaglio del ritorno - Wislawa Szymborska

 Un settore di piccole tombe al cimitero.
Noi, i longevi, lo oltrepassiamo furtivi,
come i ricchi oltrepassano i quartieri dei poveri.
Qui giacciono Zosia, Jacek e Dominik,
prematuramente sottratti al sole, alla luna,
al mutare delle stagioni, alle nubi.
Non molto hanno messo nel bagaglio del ritorno.
Frammenti di viste
in numero non troppo plurale.
Una manciata d’aria con una farfalla in volo.
Un sorso di amaro sapere sul gusto della medicina.
Piccole disobbedienze,
una delle quali mortale.
L’allegro inseguimento d’una palla per strada.
Pattinare felici sul ghiaccio sottile.
Quello laggiù e quella accanto, e quelli di lato:
prima che riuscissero a crescere fino alla maniglia,
a guastare un orologio,
a fracassare il loro primo vetro.
Malgosia, di anni quattro,
due dei quali distesa a guardare il soffitto.
Rafalek: gli mancava un mese ai cinque anni,
e a Basia le feste di Natale
con la nebbiolina del fiato nel gelo.
Che dire poi di un giorno di vita,
di un minuto, di un secondo:
buio, s’accende una lampadina, di nuovo buio?

Kosmos Makros Chronos Paradoxos
Nell'infinità dell'universo, il tempo è un paradosso

- Wislawa Szymborska - 


Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. 
O un giardino piantato col nostro sudore. 
Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. 
Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. 
La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. 
Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.

- Ray Bradbury -
da: Fahrenheit 451, 1953




E' così desolante lasciare incompleto un lavoro che in realtà non sarà mai completato; è così de­solante abbandonare i compagni che si logorano accanto a noi.
E' normale che uno si ostini a tener duro, spossandosi.
Eccomi dunque, o Signore, per un certo tempo o per sempre, non so, fuori combattimento.
Sia fatta la tua volontà!
So che siamo sempre dei servi inutili; tu puoi suscitare coloro che proseguiranno e faranno molto me­glio, mentre l'essenziale è amarti e continuare ad amare intensamente i propri fratelli, quando pa­re impossibile poter essere utili per loro.
L'arre­sto dell'azione non comporta l'arresto del deside­rio, e il desiderio espresso in preghiera non è inefficace.
Tu sai realizzare le cose anche con le preghiere di coloro che non possono far altro che pregare.
Affido a te il mio desiderio, affinché i miei compagni non si scoraggino, affinché nuovi compagni si aggiungano al loro sforzo, affinché questi facciano molto meglio di quanto avevano pensato quando ero uno di loro.
Se a te piace che la mia partenza sia seguita da decadenza, da sbandamento, da soppressione, ho fiducia che tutto questo sarà in vista di un gran bene, affin­ché ne venga qualcosa di meglio.
Tu solo sai ciò che è meglio, e io mi affido a te, o Signore.

- Padre Louis Joseph Lebret -
Fonte: Breviario della Terza età, don FerdinandoBay, Ed. Salcom, gennaio 1989


Buona giornata a tutti. :-)




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giovedì 31 agosto 2023

Io, Welby e la morte – Card. Carlo Maria Martini

Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però, con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. 
Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico", mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". 

Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. 
È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. 
Sarebbe quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave. 
Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. 
Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.

La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. 

Senz'altro il progresso medico è assai positivo. 
Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi

La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia ... all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). 

Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278) assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.

Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. 
In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.

Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione   del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. 
Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare   non di «sospensione dei trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei trattamenti. 
Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. 
Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente — , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. 
Un'impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. 

È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.

- Cardinale Carlo Maria Martini                                                                                                 
 21 gennaio 2007 


E’ sacrosanto e pienamente cattolico e legittimo il rifiuto del vecchio cardinale morente di non sottoporsi a interventi da lui ritenuti, nella sua condizione, inutili e invasivi. 

“Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita poiché vi è grande differenza etica tra ‘procurare la morte e ‘permettere la morte’: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa”: è scritto nel documento della Pontificia accademia per la vita sul “Rispetto della dignità del morente” (2000) ed è la migliore descrizione della scelta del cardinale Martini.



"Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio."

- Card. Carlo Maria Martini -

Buona giornata a tutti :-)


 

lunedì 12 giugno 2023

La morte del pessimismo - leggenda araba

C'era una volta un vecchio, così vecchio che non ricordava neppure di essere stato giovane. E forse non lo era mai stato.
In tutto il tempo che era stato in vita, ancora non aveva imparato a vivere.
E, non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.

Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere.
Nulla esisteva al mondo che potesse addolorarlo e stupirlo. Trascorreva i suoi giorni inoperosi sulla soglia della sua capanna, guardando con occhi indifferenti il cielo, quello zaffiro immenso che Allah pulisce ogni giorno con la soffice bambagia delle nuvole.
A volte qualcuno si fermava ad interrogarlo. Così carico d'anni qual era, la gente lo credeva molto saggio e cercava di trarre qualche consiglio dalla sua secolare esperienza.

«Che cosa dobbiamo fare per conquistare la gioia?» gli chiedevano i giovani. «La gioia è un'invenzione degli stolti», rispondeva lui.

Passavano uomini dall'animo nobile, apostoli bramosi di rendersi utili: «In che modo possiamo sacrificarci, per giovare ai nostri fratelli?» gli domandavano. «Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo», rispondeva il vecchio con un ghigno sinistro.

«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?», domandavano i padri e le madri. «I figli sono serpi», rispondeva il vecchio. «Da essi non ci si può aspettare che morsi velenosi».

Anche gli artisti e i poeti, nella loro ingenuità, si recavano talvolta a consultare quell'uomo. «Insegnaci ad esprimere quell'anelito che abbiamo nel cuore!», gli dicevano. «Fareste meglio a tacere», sogghignava il vegliardo.

Le convinzioni malvagie di colui che non sapeva né vivere né morire, poco a poco si diffondevano nel mondo.
L'Amore, la Bontà, la Poesia, investiti dal ventaccio del Pessimismo (poiché tale era il nome del Vecchio), si appannavano e inaridivano.
L'esistenza umana veniva sommersa in una gara di stagnante malinconia.

Alla fine Allah si rese conto dello sfacelo che il Pessimismo operava nel mondo, e decise di porvi riparo. «Poveretto», pensò, «scommetto che nessuno gli ha mai dato un bacio». Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».

Subito il bambino obbedì: mise le braccia intorno al collo del vecchio e gli scoccò un bacio sulla faccia rugosa.
Il vegliardo fu molto stupito - lui che non si stupiva di niente. Difatti, nessuno mai gli aveva dato un bacio. E così il Pessimismo aperse gli occhi alla vita, e morì sorridendo al bambino che lo aveva baciato.

Leggenda araba



Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto,  ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.
La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta,  ma di come danzare nella pioggia!

Kahlil Gibran -



Tu ti credi già al limite delle possibilità ed ecco che nuove forze accorrono.
È proprio questa la vita.

- Franz Kafka -

Buona giornata a tutti. :-)