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lunedì 11 marzo 2019

Una leggenda irlandese - John Powell

Ci fu un tempo, dice una leggenda, in cui l'Irlanda era governata da un re che non aveva figli maschi. Così, il sovrano inviò i suoi messi ad affiggere dei bandi sugli alberi di tutte le città del regno, per invitare ogni giovanotto che ne avesse i requisiti a presentarsi a palazzo e avere un colloquio con il re come possibile successore al trono. 
Le caratteristiche richieste erano le seguenti: 1) amare Dio e 2) amare gli altri esseri umani.
Il giovanotto di cui parla la leggenda vide i bandi e riflette fra sé e sé che amava Dio e gli altri esseri umani. Tuttavia, data la sua estrema indigenza, non possedeva degli abiti che lo rendessero presentabile alla vista del re; ne disponeva dei mezzi per acquistare le vettovaglie necessarie per il viaggio sino al castello. Perciò mendicò ed ottenne dei prestiti finché non ebbe denaro a sufficienza per dei vestiti adeguati e per le provviste necessarie, e finalmente potè mettersi in viaggio alla volta del castello. 
Lungo la strada, giunto quasi nei pressi della meta, incontrò un mendicante, il quale stava seduto tutto tremante, e non indossava altro che stracci; il poveretto allungò le braccia per implorare aiuto e con voce debole disse piano: «Ho fame e ho freddo. Mi aiuti?»
Il giovane fu così commosso dallo stato di bisogno del povero mendicante che si privò immediatamente degli abiti, facendo il cambio con gli stracci del mendicante. Senza pensarci un attimo, inoltre, gli diede tutte le sue provviste. Poi, benché titubante, riprese il cammino verso il castello, con indosso gli stracci e senza provviste per il viaggio di ritorno. 
All'arrivo al castello, una persona al seguito del sovrano lo fece entrare e, dopo una lunga attesa, finalmente potè accedere nella sala del trono.
Quando il giovane, chinatesi profondamente davanti al sovrano, sollevò gli occhi, fu colmo di stupore.
«Voi... voi siete il mendicante che ho incontrato lungo la strada».
«Sì», rispose il re. «Quel mendicante ero proprio io».
«Ma non siete un vero mendicante. Siete il re».
«Sì, sono il re».
«Perché avete fatto questo?», chiese, allora, il giovane.
«Perché volevo scoprire se tu ami veramente, se ami Dio e gli altri esseri umani. Sapevo che se mi fossi presentato a te come il re, saresti stato molto colpito dalla mia corona d'oro e dai miei abiti regali.
Avresti fatto qualunque cosa io chiedessi per via del mio aspetto regale; ma in questo modo non avrei mai saputo com'è realmente il tuo cuore. Perciò mi sono presentato a te come un mendicante, senza pretese nei tuoi confronti se non quella dell'amore del tuo cuore.
Ed ho scoperto che tu ami realmente Dio e gli altri esseri umani. 
Tu sarai il mio successore. Tu avrai il mio regno!»

- John Powell, gesuita -
da: Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, pagg 109-110



Essere generosi vuol dire vincere l'antica ansia di perdere ciò che possediamo. Vuol dire ridisegnare i nostri confini. 
Per la persona generosa i confini sono permeabili. 
Ciò che è tuo - la tua sofferenza, i tuoi problemi - è anche mio: questa è la compassione. 
Ciò che è mio - i miei possessi, le mie abilità e conoscenze, le mie risorse, il mio tempo, la mia energia - è anche tuo. Questa è la generosità.

Con la vittoria sui livelli antichi dell'inconscio e una ridefinizione dei confini, la generosità provoca in noi una trasformazione profonda. 
Inutile negarlo: spesso anche la persona più rilassata e gioviale nell'intimo è aggrappata ai suoi averi con tutte le sue forze. 
Questi muscoli emotivi sono sempre tesi. Ciò che abbiamo, o che crediamo di avere, ce lo teniamo stretto: una persona, una posizione sociale, un oggetto, la nostra sicurezza. E in questo trattenere c'è paura. 
Siamo come quei bambini, descritti da una parabola buddhista, che su una spiaggia hanno costruito i loro castelli di sabbia. Ognuno ha il suo castello. Ognuno ha il suo territorio. 
Tutti si sentono importanti: «È mio!», «È mio!». Magari si azzuffano, fanno la guerra. Poi cala la sera, i bambini ritornano alle loro case. 
Dimenticano i castelli di sabbia e vanno a dormire. 
Intanto l'alta marea cancella tutto. 
I nostri monumenti più preziosi sono castelli di sabbia. 
Vogliamo prenderci veramente così sul serio? 
La generosità molla la presa, è molto più rilassata.

- Piero Ferrucci -
 La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005



Un chicco di frumento si nascose nel granaio.
Non voleva essere seminato.
Non voleva morire.
Non voleva essere sacrificato.
Voleva salvare la propria vita.
Non gliene importava niente di diventare pane.
Né di essere portato a tavola.
Né di essere benedetto e condiviso.
Non avrebbe mai donato vita.
Non avrebbe mai donato gioia.
Un giorno arrivò il contadino.
Con la polvere del granaio spazzò via anche il chicco di frumento.

- don Bruno Ferrero - 
Bollettino Salesiano, giugno 2016


Buona giornata a tutti. :-)





martedì 26 febbraio 2019

La soluzione - don Bruno Ferrero

Un’allegra e vorace comunità di piccioni aveva eletto come domicilio il sagrato di una chiesa. 

Dopo i matrimoni, le fessure del lastrico si riempivano di chicchi di riso che facevano la gioia dei volatili. 
Qualche chicco finiva anche oltre il portale della chiesa e, presi dall’entusiasmo, i piccioni finirono per entrare dentro la chiesa. 
Qualcuno restava dentro anche durante le funzioni domenicali, e operava incursioni che disturbavano e distraevano i fedeli. 
Senza contare le «firme» oltraggiose lasciate sulle statue dei santi. 
Il parroco, esasperato, convocò in seduta straordinaria il Consiglio Pastorale, mettendo all’ordine del giorno la soluzione del problema. 
«Dobbiamo assolutamente fare qualcosa per impedire ai piccioni di entrare in chiesa!». 
Parlò per primo un consigliere, forse discendente di Erode, che disse: «Buttiamo del riso avvelenato e facciamoli fuori tutti!». 
L’anima francescana di molti consiglieri si ribellò con veemenza: «Questo mai! Portiamoli in qualche cascina in campagna dove vivranno felici e in compagnia!». Ma anche questa soluzione non sembrò praticabile. 
Furono ugualmente bocciate la proposta di procurare un rapace opportunamente addestrato per catturare i piccioni, come pure quella di installare pesanti reti sulle porte e sulle finestre della chiesa. 
Alla fine, quando cominciava a serpeggiare un silenzio imbarazzato, il più anziano del Consiglio domandò: «Insomma, voi volete che i piccioni non entrino più in chiesa?». 
«Sì!» gridarono in coro i consiglieri. 
«Volete proprio non vederceli mai più?». 
«Sì!» urlarono i consiglieri, spazientiti. «Allora è facile» replicò il vecchietto. «Fate così: battezzateli, fategli fare la Prima Comunione, cresimateli e in chiesa non li vedrete mai più...». 

- don Bruno Ferrero  -
da: "A volte basta un raggio di sole", ed. LDC, Torino 1998, pp. 32-33




La via del servizio è l’antidoto più efficace contro il morbo della ricerca dei primi posti; è la medicina per gli arrampicatori, questa ricerca dei primi posti, che contagia tanti contesti umani e non risparmia neanche i cristiani, il popolo di Dio, neanche la gerarchia ecclesiastica. 

- papa Francesco - 
Angelus in Piazza San Pietro domenica 21 ottobre 2018


Non dire mai


Non dire mai: Io
invece di: Noi
Non dire mai: Mio
invece di: Nostro.
Non dire mai: Tocca a lui
invece di: Comincio io.
Non dire mai: Non posso.
invece di: Eccomi.
Non dire mai: Vattene
invece di: Vieni.
Non dire mai: Domani
invece di: Oggi.
Non dire mai: Mai
invece di: Sempre.

- Charles S. Lawrence -

 -


Buona giornata a tutti. :-)









domenica 24 febbraio 2019

Acqua bollente


Una ragazza andò dalla madre, per lamentarsi, di come la vita fosse così dura, per lei!
Non sapeva più, come cavarsela, e aveva tanta voglia, di piantare tutto:
era stanca, di combattere, con le vicissitudini quotidiane...
Sembrava che, appena un problema era risolto, un altro ne sorgesse, a complicare le cose!
La madre la portò, in cucina...
Riempì tre tegamini di acqua, e li depose sul gas, a fuoco alto!
Presto, l'acqua cominciò a bollire...
Nel primo, mise una carota: nel secondo, un uovo, e nel terzo, una manciata di caffè macinato!
Li lasciò bollire, per un certo tempo, senza dire niente.
Dopo circa venti minuti, spense il fuoco.
Tirò fuori la carota, e la depose su un piattino: così, fece anche con l'uovo,
e versò il caffè, filtrandolo, in una tazza!
La madre le disse di avvicinarsi, e di toccare la carota: lo fece, e notò che era soffice...
Poi, la madre le disse di prendere in mano l'uovo, e di romperlo: dopo averne tolto il guscio, notò l'uovo indurito dalla bollitura!


Poi, la madre disse, alla figlia, di sorseggiare il caffè!
La ragazza cominciò a sorridere, al contatto con il ricco aroma del liquido,
che beveva...
Poi, chiese alla madre: «Che cosa significa, tutto questo?».
La madre le spiegò che ognuna, delle tre cose, aveva dovuto far fronte, alla stessa avversità: l'acqua bollente...
E ognuna di esse aveva reagito, in modo diverso!
La carota era entrata nell'acqua, forte, e dura, ma, dopo aver lottato con l'acqua bollente, si era rammollita, e indebolita...
L'uovo era entrato, fragile, nell'acqua!
Il guscio sottile proteggeva il suo interno, liquido,
ma, dopo aver lottato, con l'acqua bollente, si era indurito!
Il caffè macinato, invece, si era comportato,
in modo del tutto unico...
Dopo essere stato gettato, nell'acqua bollente, aveva agito sull'acqua, e l'aveva trasformata!
«Con quale, di questi tre, ti identifichi?», chiese la madre, alla figlia.
«Quando l'avversità bussa alla tua porta, come rispondi?
Come la carota, che molla tutto?
Come l'uovo, che indurisce, e inaridisce il cuore?
O sei come il caffè, che cambia l'acqua, con le qualità migliori, che si porta dentro?».



"La sofferenza è come lo scalpello, dello scultore: rivela, quello che c'è, in te...".



Ci sono due tipi di sofferenti a questo mondo: quelli che soffrono per una carenza di vita e quelli che soffrono per una sovrabbondanza di vita. 

- Waking Life -




 Signore Gesù, tu sei l’acqua viva
che disseta per sempre.
Tante volte abbiamo sete, ma non ci accorgiamo
che il vero nome di questa sete sei tu.
Tante volte crediamo di spegnere la sete di vita
con acqua che non disseta;
la sete di gioia con divertimenti stupidi
che ci lasciano ancora più sete.
Sveglia la nostra mente.
Aiutaci a cercare nella nostra giornata
uno spazio di preghiera con la stessa ansia
con cui si cerca l’acqua nel caldo dell’estate.
Aiutaci a gustare la preghiera,
a incontrarti nella preghiera,
e a incontrare tutte le persone che amiamo.
Insegnaci a pregare come hai insegnato agli apostoli.
Insegnaci a chiamare Dio con il nome di Padre
e a sentirlo così.
Insegnaci ad adorarti in spirito e verità,
cioè in ogni istante della nostra vita
come hai insegnato alla donna samaritana. Amen!


Buona giornata a tutti. :-)

www.leggoerifletto.it


giovedì 21 febbraio 2019

Un albero – don Bruno Ferrero

In un paese lontano si trovava un albero prodigioso.

Nessuno conosceva la sua età.

Alcuni dicevano che era più vecchio della terra.

Donne e uomini venivano a supplicarlo. Anche i lupi, nelle notti senza luna, ululavano verso di lui.

Ma nessuno osava mangiare i suoi frutti.
Eppure erano frutti magnifici, enormi, innumerevoli, che pendevano dalle due ramificazioni dell'albero.

Metà di questi frutti erano velenosi. Nessuno sapeva quale delle due metà. 

Dei due grandi rami, uno portava la vita, l'altro la morte.
Venne una grande carestia e la gente del paese soffriva la fame.

Solo l'albero rimaneva imperturbabile, carico di frutti splendidi.
Gli abitanti dei dintorni si avvicinavano indecisi e timorosi. Erano affamati e soffrivano, ma non volevano morire avvelenati.
Ma, un giorno, un uomo che stava per morire si fermò sotto il ramo di destra, raccolse un frutto e lo mangiò senza esitare. Rimase in piedi, tranquillo, con un respiro che si faceva sempre più gioioso.
Tutti di colpo si accalcarono verso il ramo di destra e cominciarono a mangiare quei frutti deliziosi e salutari.
Alla sera, gli abitanti dei posto si riunirono in consiglio. Il ramo di sinistra era non solo inutile, ma anche pericoloso. Decisero di reciderlo con decisione dal tronco. Il giorno dopo, tutti si svegliarono presto e si affrettarono a cercare il loro cibo.
Tutti i frutti del ramo di destra erano caduti in terra e imputridivano nella polvere. Gli uccelli che abitavano tra le foglie erano scomparsi.
L'albero era morto durante la notte.

I contadini allora dissero al padrone. "Signore, tu avevi fatto seminare dei buon grano nel tuo campo. Da dove viene l'erba cattiva?".
Egli rispose: "E' stato un nemico a far questo".
I contadini gli domandarono: "Vuoi che andiamo a strapparla via?".
Ma egli rispose: "No! Perché, così rischiate di strappare anche il grano insieme con l'erba cattiva. Lasciate che crescano insieme fino al giorno del raccolto. A quel momento io dirò ai mietitori: raccogliete prima l'erba cattiva e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece mettetelo nel mio granaio" (Matteo 13,2 7-30).

Male e bene sono misteriosamente mescolati e crescono insieme. Nessun essere umano può sottrarsi alla responsabilità fondamentale che sgorga dalla libertà che Dio gli ha donato: scegliere.

- don Bruno Ferrero -
Fonte: La Vita è Tutto Ciò che Abbiamo - Casa Editrice: ElleDiCi




Dobbiamo essere ben coscienti che il male non è una forza anonima che agisce nel mondo in modo impersonale o deterministico.
Il male, il demonio, passa attraverso la libertà umana, attraverso l’uso della nostra libertà.
Cerca un alleato, l’uomo. Il male ha bisogno di lui per diffondersi.
È così che, avendo offeso il primo comandamento, l’amore di Dio, viene a pervertire il secondo, l’amore del prossimo.
Con lui, l’amore del prossimo sparisce a vantaggio della menzogna e dell’invidia, dell’odio e della morte. Ma è possibile non lasciarsi vincere dal male e vincere il male con il bene (cfr Rm 12, 21)

- papa Benedetto XVI - 
Libano 15 settembre 2012






Porta un albero verde nel tuo cuore e forse gli uccelli vi verranno a cantare….


(antico proverbio cinese)


Buona giornata a tutti. :-)














mercoledì 20 febbraio 2019

L'uomo che perse e riacquistò la parola

Accadde un pomeriggio, quando tutta la gente del villaggio, radunata davanti al tempio, aspettava l'offerta all'altare del profumo, nel tempio del Signore.
In quella quieta giornata, all'apparenza come tante altre nel regno di Erode re di Giudea, al vecchio e saggio sacerdote Zaccaria accadde ciò che sto per narrarvi.
Il nostro sacerdote apparteneva alla nobile famiglia di Abia ed era sempre vissuto in quella dolce terra dove il sole, i profumi e la calda sabbia rendono l'orizzonte perennemente sfocato e ciò che ti circonda pieno di luce.
Fin dalla fanciullezza Zaccaria era stato attratto dal fascino del tempio, dal quale udiva uscire il lento salmodiare degli anziani e nel quale egli percepiva battere il cuore del suo villaggio.
Sedotto da quello che per lui era un magico incanto, Zaccaria crebbe forte nel sapere e nella fede fino a diventare egli stesso custode di quel tempio tanto amato.
Per lunghi anni con lui visse la sua compagna, Elisabetta, piena di bellezza e di grazia, e la loro unione, con l'andare del tempo, divenne l'esempio citato ad ogni coppia di giovani sposi.
Si può pensare che Zaccaria fosse veramente un uomo appagato avendo accumulato sapere, saggezza e pace nella sua casa. Ma mai nell'uomo alberga la totalità: così anche a lui mancava un pezzetto di felicità.
Infatti, il grande desiderio che la vita non gli aveva concesso di realizzare era la nascita di un figlio.
Probabilmente così aveva scelto il Signore, pensava Zaccaria, trovando conforto solo in questa riflessione, oppure semplicemente così aveva architettato la natura, rendendo sterile Elisabetta.
Va da sé che il nostro devoto sacerdote si guardava bene dal muovere rimprovero a chicchessia e, anno dopo anno, aveva visto svanire ogni sua speranza di paternità.
Nel giorno di cui stiamo narrando toccava proprio a Zaccaria officiare un rito di offerta nel tempio ed egli vi si stava recando con l'usuale devozione, ringraziando più per quanto nella sua lunga vita aveva ricevuto che rimpiangendo ciò che non gli era stato concesso.
Sul piccolo spiazzo sabbioso scambiò alcune parole amichevoli e si fermò a bere un mestolo d'acqua fresca dal pozzo, usanza che acquistava un particolare significato per ogni uomo di quell'arida regione.
Era quello un momento di convivenza e partecipazione molto caro a Zaccaria, che ogni giorno ascoltava con comprensione e saggezza sia le confidenze sia le richieste di consiglio da parte della popolazione del villaggio.
Giunta l'ora di officiare il rito e lasciato fuori il mondo, il sacerdote entrò tutto solo nell'avvolgente aroma di olio e incenso che avevano il buon profumo di Dio e della sua pace.
Grande fu quindi il suo stupore nel percepire, proprio accanto all'altare, una presenza che non avrebbe dovuto esserci.
Chi mai aveva osato entrare nel tempio prima di lui, sconvolgendo l'usanza?
Si voltò deciso da quella parte e rimase impietrito. Non vi erano dubbi: quello che vedeva non poteva che essere un angelo di grande bellezza, fatto di infiniti pulviscoli di luce iridescente, come un raggio di sole che sciabola improvvisamente in una stanza.
Abituato all'attenta lettura delle Sacre Scritture, Zaccaria seppe subito che un Messaggio divino stava attraversando la sua strada e che lui nulla contava né poteva fare in quell'attimo.
Anche il grande angelo sapeva, nella sua profonda conoscenza dell'uomo, che il vecchio sacerdote aveva paura di quell'apparizione che, benché conosciuta sui libri, era ignota alla sua consapevolezza, e subito lo rassicurò.
«Non temere, Zaccaria, perché io sono un angelo del Signore e ti dico che il tuo desiderio è stato esaudito. Tu avrai la gioia di un figlio che si distinguerà fra gli uomini, gli darai nome Giovanni e il suo cammino sulla terra sarà ricordato nel tempo.»
Nel preciso istante in cui quelle parole furono pronunciate, la mente del sacerdote si frappose velocissima fra lui e il volere divino. Cosa suggerì? Nessuno lo sa: forse un pensiero d'orgoglio per essere in quell'attimo un prediletto o forse il dubbio sulla possibilità che la previsione dell'angelo si avverasse.
Certo fu che la bocca di Zaccaria si aprì in una risposta che forse il suo cuore non avrebbe dato: «Ma come è possibile quello che mi stai dicendo? Io e mia moglie siamo ormai anziani e lei mai poté concepire un figlio!».
«Io sono Gabriele e sto davanti a Dio, raccolgo i suoi voleri e li paleso agli uomini; ma tu non hai avuto abbastanza fiducia nella sua onnipotenza e così perderai quella parola che più di ogni altra cosa serve all'uomo per manifestare pensieri ed emozioni. D'ora innanzi tu sarai muto». 
E così dicendo lo sfiorò con le ali, spargendo intorno a sé miriadi di coriandoli luminosi.
Come era apparso in un turbinio di luce, Gabriele sparì, portandosi via la voce di Zaccaria che rimase lì stupefatto, sconvolto e turbato, ma ormai incapace di condividere con altri ciò che aveva visto e udito.
Uscito dal tempio, lo accolse il tranquillo parlottare della gente che aspettava di poter a sua volta entrare. Tutti si sarebbero aspettati una delle sue solite frasi cordiali, e invece niente... solo silenzio... silenzio assoluto.
Zaccaria era pallido e sudato. Il suo imbarazzo, di fronte a tanti occhi che lo guardavano, era davvero grande, ma così era accaduto e lui nulla poteva fare né, soprattutto, dire.
In paese, tutti s'interrogavano sull'improvviso mutismo del sacerdote, chiedendosi se per caso non avesse visto cose talmente inenarrabili da togliergli addirittura la favella e qualcuno sussurrava: «A volte Dio si mostra, ma non essendoci parola appropriata per esprimere ciò che accade in quel momento, non rimane che il silenzio».
Passarono i mesi e quanto era stato predetto si avverò. 
A Zaccaria ed Elisabetta nacque un bimbo e il sacerdote esultò nel suo cuore, non potendo esprimere la sua immensa gratitudine al Signore con alcuna parola.
I due genitori furono festeggiati come mai era successo nel villaggio: quella nascita era un vero prodigio!
II figlio di Elisabetta e Zaccaria fu portato al tempio, affinché Dio lo accogliesse ufficialmente fra il numero dei suoi figli terreni. Non rimaneva dunque che una domanda: come avrebbero chiamato il bimbo?
«Giovanni, dovrà chiamarsi Giovanni!»
Chi aveva pronunciato con tanta forza quel nome? Tutti si voltarono verso di lui e Zaccaria, più stupito degli altri, si accorse di aver ritrovato la parola proprio nel momento giusto per rispettare il volere dell'angelo.
«Giovanni, sì, sarà Giovanni il suo nome» ripeteva fuori di sé dalla gioia, riascoltando il suono di quelle parole che uscivano dalla sua bocca.
«Dio mio, quanto sei grande!» esclamò a un tratto Zaccaria a gran voce. Egli era felice per quel bimbo che gli era appena stato donato, ma soprattutto lo era per l'incontenibile emozione esplosa in quel grido d'amore.
In quel momento, se qualcuno dei presenti avesse avuto occhi buoni per vedere, si sarebbe accorto di una miriade di pulviscoli luminescenti che andava scomponendosi nella luce del sole.

- Dai Vangeli apocrifi - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 





Risveglia il mio spirito, Signore.
Apro il libro della mia esistenza
Davanti a te, Mio Dio.
Gusto la tua dolce presenza
E ascolto il mormorio dello Spirito
Che parla e risveglia il mio intimo.
Donami di vivere nella costante ricerca
Del senso più profondo della vita
E di saper discernere
Dove lo Spirito orienta il mio cammino.

- suor Anna Maria Vissani - 
da: "La preghiera che è in te", ed. Velar, Elledicì


Buona giornata a tutti. :-)







domenica 10 febbraio 2019

Come il sale - don Bruno Ferrero

C'era una volta un re che rispondeva al nobile nome di Enrico il Saggio. Aveva tre figlie che si chiamavano Alba, Bettina e Carlotta. In segreto, il re preferiva Carlotta. Tuttavia, dovendo designare una sola di esse per la successione al trono, le fece chiamare tutte e tre e domandò loro: 
"Mie care figlie, come mi amate?"
La più grande rispose:
"Padre, io ti amo come la luce del giorno, come il sole che dona la vita alle piante. Sei tu la mia luce!"
Soddisfatto, il re fece sedere Alba alla sua destra, poi chiamò la seconda figlia e gli fece la stessa domanda , Bettina rispose:
"Padre, io ti amo come il più grande tesoro del mondo, la tua saggezza vale più dell'oro e delle pietre preziose. Sei tu la mia ricchezza!"
Lusingato e cullato da questo filiale elogio, il re fece sedere Bettina alla sua sinistra. Poi chiamò Carlotta e gli chiese teneramente :
"E tu, piccola mia, come mi ami?"
La ragazza lo guardò fisso negli occhi e rispose senza esitare:
"Padre, io ti amo come il sale da cucina!"
Il re rimase interdetto:
"Che cosa hai detto?"
Carlotta disse di nuovo :
"Padre, io ti amo come il sale da cucina."
La collera del re tuonò terribile:
"Insolente! Come osi, tu, luce dei miei occhi, trattarmi così? Vattene! Sei esiliata e diseredata!"
La povera Carlotta, piangendo tutte le sue lacrime, lasciò il castello e il regno di suo padre. Trovò un posto nelle cucine del re vicino e, siccome era bella, buona e brava, divenne in breve la capocuoca del re. 
Un giorno arrivò al palazzo il re Enrico. Tutti dicevano che era triste e solo. Aveva avuto tre figlie ma la prima era fuggita con un chitarrista californiano, la seconda era andata in Australia ad allevare canguri e la più piccola l'aveva cacciata via lui...
Carlotta riconobbe subito suo padre. Si mise ai fornelli e preparò i suoi piatti migliori. Ma invece del sale usò in tutti lo zucchero.
Il pranzo divenne il festival delle smorfie: tutti assaggiavano e sputavano poco educatamente nel tovagliolo.
Il re, rosso di collera, fece chiamare la cuoca.
La dolce Carlotta arrivò e soavemente disse:
"Tempo fa, mio padre mi cacciò perché avevo detto che lo amavo come il sale di cucina che dà gusto a tutti i cibi. Così, per non dargli un altro dispiacere, ho sostituito il sale importuno con lo zucchero."
Il re Enrico si alzò con le lacrime agli occhi:
"E il sale della saggezza che parla per bocca tua, figlia mia. Perdonami e accetta la mia corona."
Si fece una gran festa e tutti versarono lacrime di gioia: erano tutte salate, assicurano le cronache del tempo. 

- don Bruno Ferrero -

"Voi siete il sale della terra" (Matteo 5,13).






 Saggio è colui che non si lascia turbare dalle sofferenze, 
non si lascia allettare dalle gioie, 
non cade preda della paura e della collera.

- Bhagavad-Gita -
 [poema indù, 5° secolo a.C.]


"La Chiesa non ha mai detto che le ingiustizie non possono o non devono essere corrette; o che le condizioni della società non possono o non devono essere rese più felici o che non vale la pena di dedicarsi alle faccende secolari e materiali; o che non è giusto promuovere le buone maniere, diffondere il benessere o ridurre la violenza. 
Ha detto che non dobbiamo fare affidamento sulla certezza che il benessere diventerà più diffuso o la violenza più rara, come se ciò fosse un inevitabile movimento della società verso un’umanità senza peccato, invece di essere, com’è, una condizione dell’umanità, anche migliore, che però può essere seguita da una peggiore".

- Gilbert Keith Chesterton -
da: Il pozzo e le pozzanghere


Buona giornata a tutti. :-)