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mercoledì 9 agosto 2023

La donna con l'agnello

Un caldo giorno d'estate, uno studente attraversava la piazza di una grande città, famosa per la bellezza delle sue antiche chiese. Stava preparando la tesi in architettura e voleva includervi la storia di quegli splendidi monumenti. Proprio quella mattina aveva deciso di visitare una delle cattedrali più importanti quando, un po' per l'afa fattasi insopportabile, un po' per sottrarsi al rumoroso traffico dell'ora di punta, decise di entrare nella chiesa che si affacciava sulla piazza.

Appena entrato, si guardò intorno con l'occhio attento di chi cerca qualcosa di particolare, ma la chiesa gli parve del tutto normale, comunque offriva un po' di frescura e i rumori della città vi giungevano piacevolmente attutiti.

Ai lati della navata centrale si allineavano piccole cappelle, ognuna con la rappresentazione di una figura sacra e un tavolino in ferro su cui brillavano allegri tanti lumini. Non che lo studente fosse particolarmente religioso ma ormai, dopo gli studi fatti, sapeva riconoscere gran parte delle figure rappresentate in ogni nicchia.

La Vergine... san Giuseppe con il suo bastone... san Pietro crocifisso a testa in giù... E questa? Si fermò incuriosito davanti al quadro di una giovanissima donna che reggeva fra le braccia una foglia di palma e un piccolo agnello.

Quella tela lo affascinò a tal punto da non riuscire a staccarne gli occhi. Così si sedette su un banco da cui poterla comodamente osservare. Era certamente una giovane dell'antica Roma: lo si notava subito dall'abbigliamento, ma anche dai tratti del volto con il naso diritto e affilato, gli occhi scuri e penetranti soffusi di fierezza e dignità, l'ovale perfetto e le labbra sottili appena increspate da un sorriso.

Il nostro studente si domandava quale artista l'avesse mai ritratta con tanta maestria... o forse la fanciulla stessa, con la sua conturbante bellezza, aveva dato vita e anima a quella tela.

«Non la riconosci?» gli chiese una voce al suo fianco.

Il ragazzo fece un balzo: era talmente intento a osservare il quadro che non si era accorto di non essere più solo. Vicino a lui sedeva una donna anziana e sorridente, bella di quella particolare bellezza interiore che solo l'età sa donare quando la vita ha maturato buoni frutti.

«A essere sincero, non la riconosco proprio. Lei sa chi è?»

«Ma certo» rispose la donna: «porto il suo nome e so tutto di lei... Vuoi conoscerne la storia?».

«Ne sarei felice, ma non vorrei farle perdere tempo...» rispose lui, senza sapersi spiegare il perché di quell'insopprimibile desiderio di ascoltare la storia della "ragazza con l'agnello".

«Non ho problemi di tempo, figlio mio. Allora ascolta...» e l'anziana signora si sedette vicino a lui cominciando il suo racconto.

«Si chiamava Agnese e la sua bellezza, come puoi ben vedere, era straordinaria. Chi la incontrava non poteva che fermarsi ad ammirarla, rimanendo calamitato dall'espressione di quel viso. Non era solo la perfezione delle forme che risaltava in

Agnese, ma qualcosa di più profondo, come se un fuoco l'abitasse emanando un alone luminoso.

Di lei era pazzamente innamorato il figlio del prefetto che avrebbe dato qualunque cosa pur di essersene ricambiato. Più volte l'aveva chiesta in moglie offrendole quello che nessuna donna in Roma avrebbe neanche osato sperare di possedere, ma Agnese pareva non interessarsi né all'amore del giovane né a quanto lui le offriva.

Un giorno le parve però corretto giustificarsi con lui, sperando che di fronte a un'evidenza che non gli lasciava speranze avrebbe smesso di soffrire. Gli confidò quindi di essere già innamorata di un uomo cui nessun altro poteva essere paragonato, che non le offriva nulla di quanto si potesse immaginare ma qualcosa che valeva molto di più. Lo pregò quindi di non tormentarsi per lei ma di rivolgere il suo amore verso una giovane che potesse ricambiarlo rendendolo felice.

A quelle parole, pronunciate con dolcezza ma anche con determinazione, il giovane tornò al suo palazzo in preda alla disperazione, avendo intuito che non avrebbe mai potuto competere con questo misterioso rivale.

Passò un certo tempo e il prefetto cominciò seriamente a preoccuparsi per lo stato di depressione in cui era caduto il figlio. Decise quindi di scoprire chi fosse l'amante di questa cocciuta fanciulla e, forte del suo potere, sguinzagliò i migliori informatori per tutta Roma.

Uno di loro aveva particolarmente in odio Agnese, essendo a sua volta segretamente innamorato di lei e, come spesso accade agli uomini, non gli parve vero di poter distruggere ciò che non poteva avere.

Si recò quindi dal prefetto e gli raccontò di come Agnese facesse parte della setta dei cristiani e, come molti di loro, fosse esperta in arti magiche tanto da dichiararsi perdutamente innamorata di qualcuno crocifisso a Gerusalemme tanti anni prima. Il suo parere personale era che non si può amare qualcuno che neppure si è conosciuto e che, per giunta, è già morto, senza dar segno di un profondo squilibrio della mente, sicuramente dovuto ai malefici influssi di qualche forza occulta.

In parte rincuorato da questa notizia che non prospettava nessun aitante giovane nella vita di Agnese, il prefetto decise di convocarla al suo palazzo per rendersi personalmente conto della situazione.

Quando la vide ne rimase però stranamente turbato: non solo era bella, ma emanava qualcosa di simile a una calda e fluida corrente che faceva vibrare il cuore. Non riuscì neppure a trattarla troppo rudemente, come era sua abitudine. Cercò invece di allettarla con parole e offerte che la sua esperienza sapeva non avrebbero potuto lasciare indifferente una donna.

Ma Agnese non era una donna come le altre e tutto quello che lui metteva in campo, pensando di far presa sulla sua natura femminile, si scioglieva nella totale indifferenza.

Di fronte a tanto evidente insuccesso non poté che prendere il sopravvento la collera e il prefetto passò a ben altri sistemi per tentare di convincere la ragazza a sposare il figlio, non ultima la prospettiva di terribili torture.

La paura che albergava nel cuore di Agnese, come in quello di chiunque altro, in quel momento irruppe in tutta la sua potenza. Era giovane e amava la vita: come non temere il dolore e la morte? Le era stato insegnato che la vita era un grande dono

divino, ma anche che il coraggio di difendere ciò in cui si crede la rende veramente degna di essere vissuta.

Agnese era perciò confusa: la mente metteva in campo i suoi soldati, uno da una parte e uno dall'altra, come sempre in contrapposizione. Che fare?

Non rimaneva che scavalcare d'un balzo la mente e tuffarsi nel cuore: così la giovane rimase ferma sul suo tenace rifiuto.

"Se lo è cercato proprio lei" pensò il prefetto, come per alleggerirsi da un peso, e convocò per quello stesso giorno il tribunale che avrebbe dovuto giudicare Agnese in quanto appartenente alla fanatica setta dei cristiani.

Contro di loro tuonò il più agguerrito dei giudici romani: "... non si può ulteriormente tollerare un nido di vipere simile a quello nel cuore della città! I cristiani sono dei pazzi, fautori di pericolose utopie e, come tali, vanno distrutti".

Avrebbero però concesso ad Agnese, in virtù della sua incosciente giovinezza, ancora una scelta: avrebbe avuto salva la vita se fosse entrata a far parte delle vestali del tempio.

Ma come avrebbe potuto inchinarsi di fronte a un vuoto simulacro, quando nel suo cuore ardeva la fiamma dell'unico Dio vivente! Il solo pensiero la faceva rabbrividire: il tempio di Vesta sarebbe stato simile a una nera tomba in cui la sua anima sarebbe lentamente morta.

"È la tua ultima possibilità" replicò il prefetto: "o ti unisci alle vergini che onorano la dea Vesta o sarai portata nella piazza delle meretrici e lì la tua sorte seguirà quella delle altre sciagurate che offrono il loro corpo, non a un degno amore ma solo alla bramosia dei sensi".

"Tu non sai quello che stai dicendo" rispose pacatamente Agnese, sicura delle sue parole come mai lo era stata prima d'allora. "Nulla accade fuori dalla volontà divina e se è questo che Lui vorrà nessuno toccherà il mio corpo".

"Stupida ragazza" pensò indispettito il prefetto, chiedendosi con quale demoniaca fattura i cristiani fossero riusciti a irretire quella giovane mente.

La sentenza fu subito emessa: Agnese doveva essere condotta nella piazza delle meretrici, denudata e lì lasciata per il pubblico piacere. Così, caricata su un traballante carro, la giovane cristiana venne condotta nella malfamata piazza, dove ogni più abominevole desiderio della carne poteva essere appagato.

Fu gettata in una cella aperta sulla strada e lì cominciarono a spogliarla. Ma, a mano a mano che le vesti le venivano tolte, i suoi capelli iniziarono a crescere a dismisura, finché la sua nudità fu ricoperta da una folta chioma, pesante e morbida come un prezioso mantello.

La voce che una giovane e bellissima donna era stata portata fra le meretrici attirò un gran numero di persone, ma chiunque guardasse nella cella di Agnese non vedeva altro che una luce abbagliante davanti alla quale non si poteva fare a meno di inginocchiarsi in deferente silenzio.

Il figlio del prefetto aveva seguito tutta questa vicenda con il cuore in tumulto, diviso fra un accecante amore e un odio altrettanto smisurato. Potrà sembrare assurdo che due sentimenti a tal punto contrastanti possano condividere lo stesso cuore, ma questa è l'altalena della luce e dell'ombra.

Così una sera, più che mai in preda all'ansia, cercò la compagnia degli amici più intimi con cui cenare e, soprattutto, spegnere nella coppa del vino il suo tormento. Era già notte fonda quando decisero di recarsi nella piazza delle meretrici per dare una bella lezione a quella sciocca cristiana.

Nella piazza si aggiravano ormai poche persone ciondolanti, più preda dell'alcol che del desiderio. Il luogo si presentava in tutto il suo squallore e le celle si affacciavano sul selciato come tante bocche nere e sdentate.

"Entrate voi e divertitevi quanto volete" disse il figlio del prefetto agli amici, mentre i suoi occhi si riempivano di una rabbia spaventosa.

"Sei sicuro di volerlo?" chiese uno di loro.

"Vi ho detto di entrare!" urlò il giovane.

Tornò il silenzio. Solo qualche ubriaco biascicava parole sconnesse e alcune donne ridacchiavano in un angolo.

Non passò molto tempo prima che il gruppo di giovani ritornasse dall'amico.

"Allora?" chiese questi cupo.

"Allora... niente!" risposero quelli con il volto sbiancato. "Dai retta a noi, andiamocene. Lei non è una donna come le altre. O è una dea o è un demone: certamente non appartiene alla terra ma all'Olimpo".

"Stupide femminucce, vi farò vedere io a chi appartiene!" e così dicendo il ragazzo attraversò di corsa la piazza e sparì nel buio.

Oltre quella soglia stava Agnese, la sua adorata Agnese che aveva osato respingerlo e alla quale ora lui avrebbe strappato dignità e vita. E lei era là, brillante come una stella nell'oscurità e altrettanto lontana. Il giovane si bloccò per un attimo soltanto, poi il solo vederla riaccese in lui una fiamma potente come quelle degli inferi.

Si slanciò su di lei come il lupo sul piccolo agnello, ma come le sue mani si posarono sul corpo di Agnese il giovane cadde a terra fulminato.

Quando lo aveva visto entrare, lei aveva tremato di paura, perché più di ogni altra emozione l'amore può manifestare una potenza dirompente; ma poi, guardando il giovane corpo immobile ai suoi piedi, Agnese provò una profonda pietà. Pensò in quel momento che forse aveva amato quel giovane, anche se non come lui avrebbe voluto.

Il prefetto fu subito informato di quanto era accaduto e si precipitò in preda all'angoscia là dove il figlio giaceva. Abbracciò il corpo senza vita e pianse a lungo.

Agnese lo stava osservando con tristezza quando lui le chiese fra i singhiozzi: "Perché hai colpito proprio lui e non gli altri? Perché proprio il mio ragazzo?".

"Non io l'ho colpito! Chi è entrato qui prima di lui ha percepito la presenza dell'angelo inviato da Dio per proteggere il mio corpo, ma solo tuo figlio, accecato dalla passione, ha teso le sue mani su di me e l'angelo lo ha colpito."

"Ora so che il Dio di cui parli è davvero presente e potente. Ti prego, Agnese, chiedigli di avere pietà e di restituirmi l'unico figlio!"

"Io posso chiedere, ma non è in mio potere cambiare ciò che deve essere. Se Dio lo vorrà, tuo figlio ti sarà restituito". Così Agnese si sedette sulle pietre del pavimento e prese nel suo grembo la testa del giovane romano; poi chiuse gli occhi e pregò.

Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte cadendo sul volto senza vita del ragazzo, mentre un alone di luce pareva giocare, accarezzando ora l'una ora l'altro.

Quando lui riaprì gli occhi, vide il volto pallidissimo di Agnese che lo stava guardando e le sorrise. Un'emozione intensa li unì per un breve attimo e da quel momento non si rividero mai più.

Mentre il giovane si rialzava sostenuto dal padre, un drappello di guardie irruppe nella piazza trascinando via Agnese, né qualcuno ebbe modo di salvarla.

Il prefetto e suo figlio, così come coloro che furono presenti al miracoloso evento, si convertirono al cristianesimo, ma dovettero fuggire in gran fretta da Roma e furono perseguitati per lungo tempo come traditori.

Agnese fu invece portata nella prigione del prefetto Aspasio, che la condannò al rogo. Ma, ancora una volta, l'angelo di Dio giocò un brutto scherzo ai suoi aguzzini. Ogni volta che il fuoco veniva acceso, le rosse lingue ardenti danzavano in ogni dove fuorché intorno al corpo della ragazza.

Il fuggi fuggi intorno alla pira era generale, pareva che ogni brace andasse alla ricerca di una persona prescelta e non la perdesse più di mira... successe un vero parapiglia mentre Agnese non veniva neppure lambita da una fiammella.

Aspasio era furente contro quella cristiana che aveva già portato abbastanza guai, trasformando persino il suo predecessore, insieme al figlio e ai suoi amici, in altrettanti fanatici di quel Dio che metteva scompiglio ovunque arrivasse. Era veramente troppo! Decise così che sarebbe stata sgozzata come un agnello.

Era giunto il suo tempo e così doveva essere. Agnese porse la sua gola al boia come l'agnello al macellaio... ma il sangue non scorre mai invano...»

«Scusa, ragazzo, ma non si viene in chiesa per dormire». Il nostro studente si scosse intorpidito guardando di traverso il sacerdote che lo stava gentilmente scuotendo per una spalla.

«Ma, veramente, stavo ascoltando la storia di questa santa... Agnese, se non sbaglio...» rispose il ragazzo guardando verso l'altare.

«Sì, certo che è Agnese, ma qui da ore non entra nessuno; quindi non vedo chi possa averti raccontato la sua storia» rispose il prete, cominciando a guardare il ragazzo con più sospetto.

«Ma, reverendo, non ha visto una signora anziana seduta di fianco a me?»

«Assolutamente no; e adesso scusa ma ho da confessare. Se vuoi, fermati, ma fammi il piacere di non rimetterti a dormire!» e così dicendo si affrettò verso la sacrestia.

«Agnese...» bisbigliò il ragazzo e, guardando la splendida creatura che teneva tra le braccia la palma del martirio e l'agnello dell'innocenza, le sorrise. Si guardò subito intorno per accertarsi che nessuno l'avesse visto. Ora quel gesto gli sembrava sciocco, ma era stato così spontaneo, quasi familiare. Non riusciva a staccarsi da quel luogo, ma era tardi e doveva andare. Prima di uscire la guardò ancora... c'era qualcosa di strano... ma cos'era?

- Leggenda attribuita a sant'Ambrogio - 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


Buona giornata a tutti :-)



martedì 13 luglio 2021

Chi sei?

Nemo era morto da pochi attimi, proprio il tempo di un sospiro, quando un angelo si presentò al suo capezzale. L'uomo stava ancora riflettendo sul fatto che attraversare la porta tra il prima e il dopo non era poi così terribile come lui aveva temuto.

Nella stanza fremeva un gran trambusto. Il medico stava armeggiando con intrugli benefici che avrebbero dovuto, a parer suo, salvargli la vita; ma Nemo stava bene così, già rivolto verso un mondo che percepiva dolce e accogliente.

L'angelo gli rivolse un cordiale sorriso e, noncurante di chi stava lì attorno, prese una sedia accomodandosi di fianco al suo letto. Chissà come mai l'uomo non si era neppure chiesto chi fosse quel pallido personaggio comparso all'improvviso: forse la presenza della morte porta con sé una più profonda consapevolezza, chissà...

«Cosa fai, non vedi che sono morto?» chiese l'uomo.

«Se proprio lo vuoi sapere, ti posso assicurare che in questo momento non sei né di qua né di là e io me ne intendo di queste cose» rispose l'angelo.

«Sei venuto a prendermi?» chiese allora Nemo.

«Non lo so. A dire il vero, si deve ancora prendere una decisione definitiva su di te. Il mio compito è farti una domanda, poi si vedrà» disse l'angelo, accomodandosi ancor meglio.

L'uomo si sentì un po' infastidito. Gli sembrava di aver passato tutta la vita a sostenere esami e ora ecco di nuovo una prova a cui far fronte.

«Senti, io non sono mai stato un gran che, insomma intendo uno colto: non vorrei...» si schermì timidamente Nemo.

«Non preoccuparti: qualsiasi decisione sarà presa per il tuo bene. Rispondi pure in tutta tranquillità ma, soprattutto, cerca la risposta nel tuo cuore, non nella tua mente. Comprendi?». E l'angelo diede una strizzatina d'occhio all'uomo che, in effetti, non aveva capito niente.

«Allora sentiamo» proseguì l'angelo. «La domanda è la più semplice che si possa fare. Chi sei?».

Nemo cominciò velocemente a pensare se in quel quesito potesse nascondersi un trabocchetto, ma anche se ci fosse stato lui non lo vedeva. Non volendo fare brutta figura, proprio in un momento così importante, cercò il modo migliore per definirsi.

«Beh, prima di tutto sono un uomo!» forse l'aveva azzeccata alla prima battuta, pensò rincuorato.

«Ti pare io ti abbia chiesto a che specie appartieni?»

«Io sono Nemo Qualunque.»

«Ti ho chiesto chi sei, non come ti chiami» ribadì calmo l'angelo.

«Sono un impiegato delle poste.»

«Ma io ti ho chiesto chi sei, non cosa fai.»

«Sono un uomo sposato, ho due figli e amo la mia famiglia». Ottima referenza, pensò Nemo.

«Non ho chiesto il tuo stato civile o i sentimenti che hai per la tua famiglia, ma più semplicemente chi sei.»

«Sono un uomo religioso, credo in Dio e mi comporto bene con il prossimo.»

«Non ho chiesto di che religione sei, in cosa credi o i tuoi rapporti sociali.»

Il povero Nemo non sapeva più che dire. Ma che razza di domanda era mai quella, chi sei... Lui sapeva solo come poteva definirsi nella società umana; e in che altro modo poteva farlo?

Si era mai posto quella domanda durante la sua vita? No, perché era talmente evidente davanti agli occhi di tutti chi era lui! Forse c'era qualcosa di più profondo ed essenziale che mai gli era capitato di percepire... diamine, non aveva mai avuto tempo per certi sofismi, lui che si era trovato a fronteggiare i mille problemi della vita quotidiana! Eppure, solo ora lo rammentava, qualche momento c'era stato in cui una sottile insoddisfazione si era impossessata di lui, insinuando il vago presentimento che dietro ogni manifestazione della realtà si celasse qualcosa di più profondo e sfuggente.

«Bene» disse l'angelo alzandosi e lasciando al suo posto un tenue alone di luce «ti lascio con questo compito: ogni qualvolta userai il pronome Io chiediti di chi stai veramente parlando». Quindi sfiorò Nemo con una carezza, mentre il suo cuore riprendeva a battere tranquillo e regolare.

«Ce l'abbiamo fatta» esclamò il medico soddisfatto: «l'abbiamo salvato!».

La forma dell'angelo stava svanendo quasi completamente ma, se qualcuno avesse potuto vederlo, si sarebbe accorto della strizzatina d'occhio rivolta all'uomo steso sul letto.

Nemo Qualunque non aveva superato l'esame, ma quando guarì decise di scoprire chi era e niente fu più come prima.

Leggenda del XVII secolo

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


Azrael è il 4° arcangelo, figura canonica solo nell’Islam e che qui svolge la funzione di Angelo della Morte

L’angelo della morte

“È colui che quieta i movimenti e separa le anime dai corpi. […] Al A’mash riporta che Khaythama ha detto: “L’Angelo della morte si recò da Salomone e prese a fissare uno dei suoi compagni. Quando l’angelo se ne fu andato, l’uomo domandò: “Profeta di Dio, chi era quello?”. Salomone rispose: “Era l’Angelo della Morte!”. L’uomo disse: “Ho visto che mi osservava come se mi volesse. Vorrei che mi liberassi da lui, ordinando al vento di trasportarmi nelle regioni più lontane dell’India”. Allora Salomone diede l’ordine e questo eseguì.

Quando l’Angelo della Morte tornò da Salomone, questi gli disse: “Ho visto che osservavi uno dei miei compagni”. Ribatté l’angelo: “Sono rimasto meravigliato da quell’uomo, perché ho dato l’ordine di afferrare la sua anima nelle regioni più remote dell’India, poco fa, mentre invece l’avevo visto con te!”.

“Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri” di Zakariyya ibn Muhammad al Qazwini

 


Buona giornata a tutti :-)




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domenica 12 gennaio 2020

Dominus tecum, figlio mio - Leggenda popolare spagnola


Tutto ciò che sto per narrarvi accadde tanto tempo fa, in un paese di cui nessuno ricorda il nome.
Era un paese prospero e allegro, sdraiato su una dolce collina coltivata con cura e perizia. I suoi abitanti, contadini dall'animo semplice e gentile, erano sempre pronti al sorriso e generosi fra di loro e con i forestieri.
La vita trascorreva senza grandi scosse, con quel tanto di dolce e di amaro che abitualmente l'attraversa quando la si sa guardare con occhio benevolo.
Finché, improvvisamente, qualcosa di insolito e malvagio percorse le strade di quel luogo e incominciò a colpire ora questa, ora quella famiglia. 
Ogni giorno di festa per la nascita di un bimbo si trasformava in un giorno di dolore perché, senza che nessuno potesse darne una spiegazione, il neonato moriva dopo poche ore dalla nascita.
Neppure il vecchio prete, che tante ne aveva viste e passate, riusciva a comprendere da dove quel terribile morbo provenisse e perché si accanisse tanto contro quelle piccole e innocenti creature. 
Dopo aver consultato gli antichi libri, racchiusi nella cripta della chiesa, il brav'uomo cominciò a pensare che forse un folletto malvagio, inviato dalle oscure dimore degli spiriti negativi, si aggirava nel paese, spinto dall'invidia per quel placido angolo di serenità.
Ben presto gli abitanti divennero preda di un'angoscia mai prima d'allora conosciuta, non sapendo spiegarsi come mai la vita si accanisse proprio contro di loro. Essi pregavano con fervore il buon Dio che ogni cosa conosce, perché li aiutasse a uscire da quell'incubo in cui parevano sprofondare sempre di più.
Potete immaginare a questo punto in quale stato d'animo essi si trovarono quando Prospero, il panettiere, annunciò all'intera comunità, riunita per la messa, la prossima nascita di un figlio.
«Ma sei proprio matto!» esclamarono in coro. «Non ti basta quello che già è successo? Non capisci che qualche maleficio si è abbattuto sul nostro paese?».
Prospero, attanagliato dalla paura, non sapeva che dire. Ormai non poteva far altro che attendere, rassegnato a sopportare la sua parte di dolore.
Intanto il vecchio prete non aveva smesso per un solo giorno di sfogliare le enigmatiche pagine di quegli antichi testi che le umide pietre della cripta avevano custodito gelosamente così a lungo. Come poteva Dio non aver previsto tutto ciò che stava accadendo e non aver messo a loro disposizione un suggerimento che potesse aiutarli?
Il sant'uomo leggeva e rileggeva, studiava e rifletteva, percependo in cuor suo che dietro tutta quest'affannosa ricerca doveva nascondersi qualcosa di molto più semplice, come solo Dio sa essere semplice.
Nel frattempo i mesi erano trascorsi veloci e il piccolo figlio del panettiere era nato in una assolata quanto fredda mattina di febbraio.
Nella casa, che avrebbe dovuto accoglierlo con gioia, regnava invece un cupo dolore e la giovane mamma scrutava preoccupata il visetto paffuto aspettandosi di vederne volar via la vita, come già tante altre volte era accaduto nel villaggio.
Mentre tutti se ne stavano lì tristi e piangenti, ecco spalancarsi la porta ed entrare il vecchio prete.
«Che splendido bambino, miei cari!» esclamò, abbracciando la stanza con un largo sorriso.
Poi si rivolse alla donna china sul lettino del neonato: «Non piangere, cara, asciuga piuttosto i tuoi occhi e fai quanto ora ti dico!».
Fra la meraviglia generale l'uomo fece sollevare il bimbo, ordinando alla madre di tenerlo in grembo fino a quando lui non avesse deciso altrimenti.
La donna pareva incerta, ma la forza che il vecchio emanava era così concreta che sembrava impossibile contrastarla. Prese il piccolo e lo tenne sulle ginocchia finché il bimbo fece un leggero starnuto.
«Dominus tecum, figlio mio!» esclamò subito il vecchio solennemente. 
Nel medesimo istante s'intese una voce sgradevole e irritata provenire dalla cappa del camino.
«Vecchiaccio! Mille volte maledetto! Chi ti ha insegnato tutto ciò?» e, nel dire questo, un folletto ghignante e storpio attraversò di corsa la stanza, uscendo con un balzo dalla porta e scomparendo in un battibaleno dalla vista degli increduli spettatori.
Sotto la forma di una tremolante ombra scura, il male se ne scappò via, vinto dalla forza di due sole parole che però non ammettevano dubbio alcuno.
È inutile che vi diciamo che quel bimbo, come tutti quelli che nacquero da allora in poi, crebbe sano e vispo così come il paese ritrovò tutta la serenità e l'allegria di un tempo.
Se però in questi giorni vi capitasse di passare per caso di là, certamente lo riconoscerete, perché gli abitanti, in segno di buon augurio, vi saluteranno dicendovi: 
«Dominus tecum, figlio mio, il Signore sia con te!».

- Leggenda popolare spagnola -
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A.




martedì 17 dicembre 2019

L'angelo e l'albero di Natale - Leggenda popolare della Gran Bretagna

Come si sa, l'uomo ha vagabondato per tutta la terra fondando diversi insediamenti che, nel corso dei secoli, si sono sempre più allargati creando società diverse e poi nazioni.
Sebbene il piccolo Gesù sia nato in Palestina, un paese caldo nel quale sicuramente non si trovano alberi quali gli abeti, le popolazioni del nord del mondo usano addobbare proprio pini e abeti in occasione del Natale.
Anche in Inghilterra, paese del nord dell'Europa, ogni anno, il venticinque di dicembre, piazze e giardini si illuminano di splendide decorazioni con cui la gente riveste gli alberi che diventeranno il simbolo di questa festa così speciale.
In un villaggio inglese viveva molti anni fa un bambino di nome Giacomo.
Era un bimbo molto dolce e sensibile che la sorte aveva però toccato in modo speciale. 
Non aveva ricevuto infatti il dono della vista e si affidava ai racconti degli adulti o degli amici per immaginare dentro di sé tutto ciò che lo circondava.
Se da un lato poteva essere considerato sfortunato, da un altro aveva però ricevuto un regalo: il suo angelo custode, che era davvero straordinario.
A questo angelo era stato affidato proprio Giacomo e lui si dedicava al suo piccolo protetto con un entusiasmo e una dedizione come solo fra gli abitanti del Paradiso si possono trovare.
Il bimbo in realtà non era mai solo e quello che non riusciva a immaginare con la fantasia gli veniva dipinto direttamente nella mente dal suo attentissimo angelo.
A volte questa capacità di intuire le forme della realtà lasciava tutti sbalorditi e alcuni borbottavano a mezza voce che quel bambino riusciva a mettersi in contatto con una dimensione sconosciuta.
Poteva anche capitare, a chi si trovava vicino a lui, di udirlo bisbigliare con qualcuno che, naturalmente, nessuno vedeva, chiedendo dettagli su questa o quella cosa che si trovava lì appresso. 
Giacomo non aveva mai parlato con nessuno di questo prezioso amico, né con mamma né con papà, né, tanto meno, con i suoi giovani amici, ma lo aveva semplicemente accolto nella sua vita come ognuno di noi accoglie la parte più preziosa e profonda di se stesso.
Come ogni anno, anche quella volta stava per arrivare la vigilia di Natale e i preparativi per l'addobbo più bello fervevano in ogni famiglia.
Mamme, papà, nonni, zii e parenti tutti non facevano che correre da un negozio all'altro per riuscire a trovare qualcosa di veramente speciale con cui meravigliare i piccoli e gli amici.
Ognuno lasciava andare a briglia sciolta la propria fantasia e il villaggio, giorno dopo giorno, si stava trasformando in un quadro animato, dove colori e luci rendevano ogni cosa spettacolare e quasi irreale.
Naturalmente la fantasia di Giacomo galoppava più di ogni altra e lui non faceva che chiedere e richiedere, ora a questo e ora a quello, ma proprio in quell'occasione non riusciva a creare dentro di sé l'immagine del "misterioso" albero di Natale.
Spesso pregava il buon Dio perché almeno quella volta, solo per pochi attimi, gli facesse dono della vista permettendogli di ammirare quel prodigioso sfavillio di luci. 
Sapeva bene che Dio era più buono di chiunque altro perché il suo amico segreto gli aveva raccontato su di Lui delle storie meravigliose.
Giacomo intuiva dentro di sé che quell'albero rappresentava qualcosa di ancor più prezioso e profondo di quello che l'apparenza mostrava.
«Quelle luci che giocano con le ombre dei rami sono come tanti sorrisi che si nascondono dentro le pieghe dell'anima» gli sussurrò l'angelo.
«Ma perché si mostrano solo la notte di Natale?» rispose Giacomo perplesso.
«Non si mostrano solo in quella notte, ma ogni qualvolta l'uomo si sente particolarmente vicino a Dio. E la notte di Natale è una di quelle volte.»
«Dimmi tu quale sarà l'albero con i sorrisi più belli, perché io non potrò vederlo». Disse allora sconsolato il bambino all'angelo.
«Mio dolce amico, l'albero più bello sarà quello che brillerà nel tuo cuore!»
Giacomo stava ancora riflettendo su quelle parole quando la mamma lo chiamò.
«Vieni, Giacomino, ti farò toccare tutti gli oggetti che ho appeso al nostro albero: ci sono anche le caramelle che ti piacciono tanto e papà ha appeso una bella sorpresa per te. Sono sicura che ti piacerà tantissimo.»
"Com'è dolce la voce della mamma! Dio è stato veramente buono con me" pensò il bambino, assaporando il tepore che l'amore dei suoi genitori sapeva infondergli.
In quell'attimo dal suo cuore sgorgò un'emozione così profonda che si sentì scosso da un brivido e, guardando nella grande stanza, Giacomo vide brillare il suo albero di Natale.
Non solo Giacomo vide per la prima volta tutto ciò che lo circondava, ma, affacciato alla finestra, fra lo scintillio della neve, distinse chiaramente una figura luminosa che agitava la mano verso di lui in segno di saluto.
Nessuno nel villaggio dimenticò quel Natale in cui avvenne il miracolo del piccolo cieco, e, anche se i medici diedero a quell'inconsueto fenomeno un nome scientifico, tutti vollero sempre considerarlo solo e soltanto un miracolo.
Giacomo crebbe e divenne un uomo. Non si chiese mai cosa fosse successo quella notte, ma accettò pieno di gratitudine e basta.
Il suo misterioso compagno sparì nello stesso attimo in cui lui riacquistò la vista, ma lui non lo dimenticò mai.
Passarono gli anni e Giacomo ebbe a sua volta dei figli e dei nipoti per i quali, ogni Natale, non mancò mai di addobbare bellissimi alberi luminosi, ricordando loro che ogni luce era un sorriso che durante l'anno essi avevano dedicato a Dio.
Ma arrivò un Natale in cui Giacomo non ebbe più la forza di addobbare il grande abete che faceva bella mostra di sé nella sala della sua casa e per lui lo fecero i figli e i nipoti. E lo fecero con tanto amore che mai albero di Natale gli parve più bello.
Seduto nella poltrona preferita, il vecchio Giacomo guardava i suoi cari intorno all'albero luccicante e pareva che la loro gioia riempisse tutto il mondo.
Il suo ultimo pensiero fu: "Dio è stato veramente buono con me!" e lo sguardo andò alla finestra, oltre la quale una figura luminosa, fra lo scintillio della neve, lo stava aspettando.

- Leggenda popolare della Gran Bretagna - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 







Buona giornata a tutti. :-)






lunedì 18 novembre 2019

Saturnino vola in Paradiso - leggenda medievale

Il Maligno stava scrutando con attenzione gli uomini sulla terra, attento come sempre alla possibilità di accaparrarsi qualche nuova anima.
Guarda di qua e guarda di là, fu attratto da una gran profusione di persone che stavano uscendo da una chiesa. Aguzzò ulteriormente lo sguardo tendendo le orecchie come due antenne e, in un baleno, fu come se lui stesso si trovasse in mezzo a quella gente.
Sentì quindi tutti gli elogi con cui chi aveva assistito alla funzione domenicale apostrofava il vescovo della città che, a quanto pareva, aveva appena tenuto uno dei suoi famosi sermoni.
Potete immaginarvi la curiosità di Satana. Chi era questo famoso predicatore sfuggito alle sue sgrinfie?
Si trattava di san Donato, vescovo di Arezzo, le cui argomentazioni, forgiate con voce possente, erano riuscite a sconfiggere i più grandi avversari della Chiesa.
Seduto nel suo antro fumoso, Satana cominciò a rimuginare sul da farsi, ma prima di prendere qualsiasi decisione volle sfogliare la grande enciclopedia in cui ogni anima veniva citata dettagliatamente.
Ecco cosa trovò alla voce "Anima di san Donato".

L'anima di questo soggetto possiede grande forza, la sua struttura è legata a un corpo altrettanto forte e robusto. Cresciuto in ambiente contadino, ne ha ereditato i saldi principi legati al rispetto della natura e dell'essere umano che da essa trae vigore.
Di temperamento focoso, Donato ama cimentarsi in qualsiasi tipo di disputa e non disdegna neppure qualche baruffa.
Questa anima non appartiene al tipo ascetico, considerando la sua permanenza sulla terra una palestra di prova per rinforzare se stessa e lo spirito che la guida.
L'uomo che ospita quest'anima apprezza i piaceri della compagnia, della buona tavola e del buon bere.
«Caspita!» pensò il diavolo. «Questo qui me lo lavoro io a dovere! Se il fiuto non m'inganna, il terreno è fertile per piantare le mie radici». E così si mise a considerare quale dei suoi aiutanti poteva impegnare in quell'opera.
Gli venne in mente un diavoletto decisamente maligno e furbo che, uscito a pieni voti dal corso di "tentatore", aveva già dato buona prova delle sue capacità.
Il Maligno fece così chiamare Saturnino, questo era il nome del diavoletto, e gli affidò il delicato incarico di circuire l'anima di Donato e di farne una sua conquista.
A Saturnino non parve vero di tenersi un po' in forma con le tentazioni che da qualche tempo non esercitava più, avendo avuto solo incarichi amministrativi.
Per prima cosa seguì Donato per diversi giorni, tenendosi però lontano da lui, anche a causa di quell'odore di zolfo che sempre gli rimaneva appiccicato addosso quando usciva dall'Inferno.
Poi, fattosi un'idea più precisa sul sant'uomo, preparò un dettagliato piano di attacco.
La prima mossa coinvolse l'ignara perpetua che da tanti anni provvedeva alla cura della canonica.
Teresa, ormai di mezza età, era rimasta vedova ancora giovane e aveva potuto allevare i tre figli grazie alla generosità del suo vescovo; così le era sembrato più che giusto rendersi utile occupandosi di lui come una affezionata sorella.
Donna di grande giudizio, aveva accudito Donato con la stessa dedizione con cui aveva cresciuto i suoi figli, né mai il suo sguardo si era posato su di lui con occhio diverso da quello di una madre.
Lo rispettava profondamente e lo ammirava per la forza con cui affrontava ogni problema della sua diocesi, occupandosi anche dei più piccoli dettagli.
Eccellente cuoca, Teresa indulgeva verso le golosità del suo benefattore e la tavola di Donato era rinomata per i manicaretti che la brava donna riusciva a preparare anche con poca spesa, senza contare che chiunque si trovasse nell'indigenza poteva sempre fare affidamento su quel generoso desco.
Saturnino pensò quindi di mettere in pratica una delle più antiche tentazioni: quella della sensualità femminile. Non diceva anche la Bibbia che la donna è la prima fonte di peccato?
Fu così che l'ignara Teresa finì preda di quel furbacchione.
Figurarsi la sorpresa di Donato quando una sera vide la sua brava perpetua presentarsi con il solito bicchiere di latte, ma...
Le vesti erano inequivocabilmente provocanti e, diciamolo fra noi, anche ridotte all'essenziale. I capelli, solitamente raccolti in una crocchia, facevano bella mostra, morbidamente sciolti sulle spalle; e quella voce suadente...
"Perbacco! Cos'è accaduto?" pensò sconcertato l'uomo.
Ma se Saturnino era furbo, il vescovo non era da meno. Senza lasciarsi trarre in inganno, Donato si alzò in piedi e, dall'alto della sua imponente mole, gridò con quanto fiato avesse in gola: «Fuori da lì, manigoldo!».
E, così dicendo, prese la scodella del latte, lo benedisse e si mise ad aspergere la donna e tutto quanto si trovasse lì intorno.
A contatto con il liquido benedetto Saturnino non poté resistere dal bruciore, gli sembrava di essere ustionato da olio bollente. Per tutti i diavoli, ma quello era peggio dell'Inferno!
Con un balzo uscì dalla donna, andando a nascondersi nel primo anfratto buio che trovò sulla sua strada. Bella figura aveva fatto! E ora, che avrebbe raccontato al suo signore?
Intanto, nella canonica, Teresa, tornata in sé, stava valutando la situazione con grande imbarazzo, non riuscendo a capire come mai si trovasse lì in quelle condizioni.
«Portami un'altra tazza di latte, per favore, e non preoccuparti» le disse gentilmente il vescovo: «non è successo niente, abbiamo solo ricevuto una visita inattesa, ma adesso è tutto sistemato».
Passò un po' di tempo e il nostro diavoletto si riprese alla grande dallo smacco e dallo spavento di quella sera.
Gironzolando intorno a Donato, in attesa di un momento favorevole per intervenire, gli si presentò ben presto l'occasione di introdursi nei suoi sogni. Quale momento migliore per trovare quell'uomo indifeso e vulnerabile?
Approfittando di un pisolino che il vescovo si era concesso dopo il pasto di mezzogiorno, si avvicinò cauto bisbigliandogli all'orecchio: «Ascolta la voce di un amico... Io posso darti potere e gloria... Abbandona la strada del bene ed entra a far parte dei servitori del mio signore: lui ti colmerà di tutto ciò che un uomo possa desiderare!».
Donato stava godendosi il sonnellino pomeridiano ma, messo in allerta dalla prima visita di quell'abitante degli inferi, non abbandonava mai completamente le sue difese.
Così, nella parte vigile della sua mente, suonò immediatamente un campanello
d'allarme: "Attento, si sente odore di zolfo!".
Il sant'uomo finse allora di russare rumorosamente, ma in realtà si stava preparando ad attaccare contando sulla sorpresa.
Infatti Saturnino si era messo tranquillo di fianco all'uomo addormentato e continuava imperterrito a sciorinare promesse e lusinghe.
D'un balzo Donato si alzò e, prendendo il diavoletto per gli zoccoli, cominciò a sbatacchiarlo di qua e di là come un tappetino; poi, con uno scatto veloce, inusuale per un uomo della sua mole, lo afferrò per la gola stringendo così forte che a Saturnino non rimase che chiedere indulgenza.
«Abbi pietà, buon vescovo» tossicchiava il miserello: «se mi lascerai andare, non ti importunerò mai più, parola di diavolo!».
Sbuffando come un mantice, Donato si accontentò di immergere il malcapitato nell'acquasantiera della sacrestia, dove lo lasciò in ammollo più morto che vivo.
Quando finalmente riuscì ad aggrapparsi ai bordi dell'ampio bacile, Saturnino trovò a malapena la forza per sgattaiolare fuori e raggiungere una buia grotta fuori città, direttamente collegata con le gallerie infernali e lì, finalmente, poté riprendere fiato e farsi curare dagli gnomi dell'oscurità.
Rimessosi in forze, il nostro diavolo pensò che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere quella missione e starsene per un po' lontano da quei luoghi. 
A lui che importava di Donato e della sua virtù? Se la tenesse... in fondo Saturnino era sempre stato un assertore del libero arbitrio.
Ma non così la pensava Satana, che subito lo mandò a chiamare, minacciandolo di tremendi castighi se non gli avesse portato al più presto l'anima di quel cocciuto seguace della bontà e, pronunciando quella parola, storse la bocca in un terribile ghigno di disprezzo.
Tutto mogio, il nostro diavolo si rimise in cammino, ma l'antica baldanza era completamente svanita.
Magro da far pena, spelacchiato e in preda a frequenti tremori, Saturnino si aggirava per le strade di Arezzo indeciso sul da farsi.
Tanto per tenersi in allenamento, si nascondeva negli antri più scuri o agli angoli dei vicoli per balzar fuori all'improvviso e spaventare gli occasionali passanti, ma i più lo guardavano con disgusto, scambiandolo per un cane randagio, oltretutto un po' rognosetto.
Il suo orgoglio era profondamente ferito, doveva ad ogni costo raccogliere quello che rimaneva dell'antico vigore e affrontare nuovamente il vescovo. S'intrufolò nella sua casa e, approfittando della momentanea assenza di Teresa dalla cucina, cominciò con lo sbafarsi la rimanenza della cena; poi, rimuginando su quale tipo di tentazione mettere in atto, finì con l'intrufolarsi dentro un abito di Donato.
Era il mese di gennaio e quell'anno il freddo non scherzava; così Saturnino, abbondantemente rifocillato, finì con l'addormentarsi sodo e al calduccio.
Ma quando si risvegliò si trovò avvinghiato dalla stretta terrificante di quella che avrebbe dovuto essere la sua preda.
«Diavolaccio malefico» stava gridando Donato, «ti farò passare io la voglia di importunare i vescovi!».
Quindi lo portò sul campanile legandolo strettamente al batacchio della campana grande, così che ogni volta questa suonava il diavolo veniva scosso, urtato, tirato e frastornato come un cencio battuto sulla pietra.
I topi che abitavano la torre campanaria si chiesero ben presto che ci facesse lì quel coso e cominciarono a rosicchiare la corda che lo teneva legato, finché, finalmente, lo liberarono dall'incomoda situazione facendolo cadere con un tonfo sul pavimento. 
Per la prima volta Saturnino cominciava seriamente a dubitare sulla sua natura diabolica, eppure non voleva ancora darsi per vinto. Alla prima occasione scese cautamente nelle stanze di Donato e si nascose nella sua tabacchiera; così, quando questi ne sollevò il coperchio, balzò fuori con un urlo da far accapponare la pelle. Ma non era così facile intimorire un santo, e tanto meno quello.
«Sei dunque tornato, spiritello malvagio» gli disse, osservandone con soddisfazione l'aspetto malconcio. «Ora ti sistemo una volta per tutte, così potrai riferire al tuo padrone che con me non c'è niente da fare!».
Detto questo, Donato prese il diavolo per un orecchio e lo ficcò dentro il ripostiglio dove erano conservate tutte le preghiere che il vescovo aveva rivolto al buon Dio.
Questo fu il colmo! Saturnino strabuzzò gli occhi, si contorse in preda a spasimi atroci mentre le sue fibre erano sottoposte a inimmaginabili sconvolgimenti. Infine, al colmo della disperazione, svenne e tutto sprofondò in un grande silenzio.
A cominciare dal quel giorno il nostro diavoletto non osò più tormentare il santo né tanto meno tornare dal suo padrone, il maligno Signore delle Tenebre.
Si aggirava per la casa e per il giardino cercando di passare inosservato, sgattaiolava lungo i muri accontentandosi di qualche avanzo della cucina e di poter nascondersi in quel luogo che cominciava quasi a piacergli.
Intanto il tempo passava e Donato perdeva sempre più le sue forze avvicinandosi ormai alla vecchiaia.
Quando infine si ammalò, da quell'uomo robusto che era si ridusse in un letto preso da estrema debolezza.
Saturnino considerò allora che forse poteva essere giunto il tempo della sua rivincita e, avvicinandosi stancamente al capezzale del suo temuto antagonista, gli sussurrò con quel po' di voce che anche a lui era rimasta: «Dammi finalmente retta, io posso ridarti salute e giovinezza se tu ti affiderai al mio signore! Basta un tuo cenno, anzi il solo tuo desiderio, e potrai tornare quello di un tempo: giovane, forte e protetto dal più potente dei principi».
II santo guardò quel malconcio demonio spelacchiato e smunto, ormai sfinito dopo tante inutili lotte, e provò per lui una grande pietà.
«Ascolta, se il tuo padrone può fare tutto ciò che dici, per quale motivo non ne approfitti tu stesso?».
Saturnino non sapeva che rispondere, ma quelle parole lo fecero riflettere.
«Posso forse proporre io un patto a te» proseguì Donato con un filo di voce. «Non posso certo trasformarti così sui due piedi in un angelo, ma posso sottrarti al potere del tuo sgradevole padrone».
E visto che il diavoletto sembrava contento di quella proposta, Donato si rivolse al buon Dio affinché si prendesse cura Lui di quella creatura. 
In quello stesso istante, la sgraziata ombra scura che si trovava accanto al santo si trasformò per incanto in un grazioso e variopinto uccellino dal canto melodioso.
Per tutti i giorni in cui Donato giacque ammalato il piccolo animale non lasciò più la stanza, cercando di dare conforto al moribondo con il trillo del suo canto.
Passò poco tempo e il santo lasciò questa terra per raggiungere il Paradiso dove, statene pur certi, fece in modo che fosse chiamato anche un certo uccellino.

- Leggenda medievale - 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 





Buona giornata a tutti. :-)