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sabato 16 aprile 2016

La nostra esistenza - Gustav Rol

"La nostra esistenza è apparentemente fragile se la consideriamo in rapporto alle nostre azioni; in rapporto allo spirito invece è immensamente forte e indissolubile. Essa passa in un soffio, ma non è soltanto una misera scintilla tra la vita e la morte, bensì un vivido fuoco destinato ad ardere per l'eternità. - Vivre, mourir et renaître: telle est la loi - vivere, morire e rinascere: tale è la legge. 
Prima di morire vedremo le nostre azioni passate, ciò che abbiamo fatto di bene e di male, e non solo, ma anche ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto per aiutare gli altri. Tutto passerà davanti ai nostri occhi come in una carrellata, subito dopo saremo noi, solo noi a giudicarci, perché in noi c'è la scintilla della divinità stessa. 
Decideremo noi se saremo degni di aspirare all'eternità nella luce immensa di Dio o se invece dovremo ripetere la dura, durissima prova della vita incarnandoci un'altra volta per cercare di purificarci. Le anime elette invece, liberate finalmente dai vincoli terreni e dalle pastoie della carne, potranno rivivere trasfigurate nella gioia e nella felicità assoluta senza limiti." 

- Gustav Rol -
(da "Rol e l'altra dimensione" di M.L. Giordano)



«A quale scopo tende la vita, se la vita ci è negata nella gioia, nel tormento, nella stessa speranza? 
Negata nel principio che segna la fine, nella fine che genera un altro principio, principio di altri princìpi? 
Qui mi ritrovo assorto nel pensiero dell’umanità che rivive in tutte le cose e ripenso con la voce del tempo che è la voce della mia anima. 
Se raccolgo l’espressione della luce e delle melodie di tutto il creato, io mi sento, allora, figlio di Dio, e cammino felice.» 

- Gustav Rol -
(da “Io sono la grondaia”, pag. 206)


"Non so
dove vanno
le persone
quando scompaiono,
ma so dove restano..."

- Margaret Mazzantini - 




"Restare" è un verbo importante.
Le cose e le persone migliori restano dentro.
Anche dopo che sono andate via.

- Angelo De Pascalis - 




Non mi vestite di nero:
è triste e funebre.
Non mi vestite di bianco:
è superbo e retorico.
Vestitemi
a fiori gialli e rossi
e con ali di uccelli.
E tu, Signore, guarda le mie mani.
Forse c’è una corona.
Forse
ci hanno messo una croce.
Hanno sbagliato.
In mano ho foglie verdi
e sulla croce,
la tua resurrezione.
E, sulla tomba,
non mi mettete marmo freddo
con sopra le solite bugie
che consolano i vivi.
Lasciate solo la terra
che scriva, a primavera,
un’epigrafe d’erba.
E dirà
che ho vissuto,
che attendo.
E scriverà il mio nome e il tuo,
uniti come due bocche di papaveri.

- Adriana Zarri - 





























Buona giornata a tutti. :-)

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martedì 23 febbraio 2016

"Sulla morte" da "Il Profeta" - Kahlil Gibran

Allora Almitra parlò dicendo: Ora vorremmo chiederti della Morte.

E lui disse:
Voi vorreste conoscere il segreto della morte, ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita?
Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce.

Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. 
poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare.
Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita;
E come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera. 
confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell'eternità. 
La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore.
In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l'impronta regale? 
E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito?
Che cos'è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole?
E che cos'è emettere l'estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio? 
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.

- Kahlil Gibran -



Morte, non essere troppo orgogliosa,
se anche qualcuno ti chiama terribile e possente
Tu non lo sei affatto: perché quelli che pensi di travolgere
in realtà non muoiono, povera morte, né puoi uccidere me.
Se dal riposo e dal sonno, che sono tue immagini,
deriva molto piacere, molto più dovrebbe derivarne da te,
con cui proprio i nostri migliori se ne vanno, per primi,
tu che riposi le loro ossa e ne liberi l’anima.
Schiava del caso e del destino, di re e disperati,
Tu che dimori con guerra e con veleno, con ogni infermità,
l’oppio e l’incanto ci fanno dormire ugualmente,
e molto meglio del colpo che ci sferri.
Perché tanta superbia? Perché tanta superbia?
Trascorso un breve sonno, eternamente,
resteremo svegli, e la morte non sarà più,
sarai Tu a morire.


- Johnn Donne -


Credo che nessuno muoia
credo che l’anima in realtà
divenga un’ombra
e al culmine del suo vagare
si adagi ai piedi
d’un fiore non visto.
Quei fiori gialli
di cui son piene
le campagne
quando fai ritorno a casa
e vorresti che lei
esistesse.


- Carlo Bramanti - 






Se un giorno non mi vedessi più varcare la soglia della porta come sono solita fare, alza gli occhi al cielo turchese di un nuovo giorno e cercami fra le stelle che accendono la luce della volte celeste, fra le odoroso ginestre gialle che incorniciano le nostre colline.
Cercami negli occhi di chi ami.
Cercami nel silenzio del tuo Cuore.

- Stephanie Sorrel - 




Buona giornata a tutti. :-)



lunedì 2 novembre 2015

Non inferno, ma regno dei morti – padre Alberto Maggi

La parola “inferno” fa andare in crisi coloro che studiano teologia o la Sacra Scrittura e che sono abituati a parlare di inferno, perché non la trovano nel dizionario biblico. Nella Bibbia non c’è né la parola e neanche l’immagine dell’inferno. 
Nella vecchia traduzione la parola “inferno” si trovava in tre testi. 
Nella nuova c’è solo una volta, per dimenticanza, ignoranza o trascuratezza del traduttore. 
Nella parabola del ricco e del povero Lazzaro, Gesù dice - il vangelo è di Luca (16,23) - “E nel soggiorno dei morti essendo di tormenti, alzò gli occhi e vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno”. “Soggiorno dei morti” era tradotto con “inferno”. 
A quell’epoca si credeva che tutti, quando morivano, andavano a finire in un’enorme voragine sotto terra, un’enorme caverna, tutti buoni e cattivi, dove vivevano come ombre. Era il regno dei morti che nella lingua ebraica si scrive “sheol”, probabilmente è una radice ebraica che significa “quello che ingoia, quello che inghiotte”. Quando hanno tradotto la Bibbia dall’ebraico al greco non potevano mettere “sheol”, termine che i greci non conoscevano. Allora hanno preso dal mondo mitologico greco il termine Ade che indicava appunto il “regno dei morti”. Ade era il dio che presiedeva al regno dei morti, era chiamato anche Plutone o Giove sotterraneo. 
Dunque la traduzione dall’ebraico al greco ha usato al posto di “regno dei morti” il termine “Ade”. Quando il vangelo fu tradotto in latino questo termine venne tradotto con “inferi”. Nel mondo romano c’erano gli dei che stavano in cielo, si chiamavano “superi” e quelli che stavano in basso si chiamavano “inferi”, le divinità del regno della morte. Quando nel Credo si diceva “Gesù morì, fu sepolto e discese agli inferi”, si voleva dire che era andato nel regno dei morti a comunicare la sua vita a quelli che erano morti prima di lui. 
Un altro testo dove si trova questo termine “inferno” è la seconda lettera di Pietro. La vecchia edizione riportava (2Pt 2,4) “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno serbandoli per il giudizio”. 
Oggi, nella nuova edizione si legge “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi tenendoli prigionieri per il giudizio”: non c’è più la parola “inferno”. 
L’autore aveva tradotto con “inferno” il verbo greco “tartaròo” da cui tartaro, che significa essere gettati nel tartaro. Nel mondo mitologico greco il tartaro era l’opposto del cielo, era il luogo di condanna per i malvagi. 
Le immagini che Dante Alighieri ha nella “La Divina Commedia” (di stagni di fuoco, di gente che si mangia, di esseri che torturano) vengono prese proprio da questo mondo mitologico: il tartaro. Essere gettati nel tartaro significa essere gettati nel più sprofondo della terra. Un’interpretazione non esatta nella vecchia edizione aveva tradotto con “inferno”, ma non si trattava di inferno, proprio perché nel mondo ebraico non c’era il concetto dell’inferno. 
L’altro termine si trova nel libro dell’Apocalisse dove si leggeva nel cap. 6,8: “Colui che lo cavalcava si chiama morte e gli veniva dietro l’inferno”. Qui c’era il termine “Ade” che abbiamo visto. Adesso si legge: “Colui che lo cavalcava si chiamava morte e gli inferi lo seguivano”, cioè il regno dei morti.
È importante che si siano superate queste traduzioni errate. 
Molta gente, nei secoli, non è riuscita a percepire l’amore di Dio, terrorizzata e angosciata da queste immagini dell’inferno. E tanta gente ha rifiutato un Dio del genere. Secondo una certa teologia anche per un singolo peccato mortale si veniva condannato all’inferno per tutta l’eternità. Dio era capace per un solo peccato a condannare per tutta l’eternità. Molte persone hanno rifiutato questo Dio. 
Questa immagine dell’inferno nei vangeli non c’è. Da parte di Gesù c’è una proposta positiva che è una pienezza di vita. Il rifiuto, o la non accettazione di questa proposta, porta alla pienezza della morte. 

Nel Nuovo Testamento non si parla di “inferno”, ma si parla di morte seconda. 
C’è una prima morte alla quale andiamo tutti incontro: è la morte biologica. Quando arriva questa morte noi non faremo esperienza della seconda morte perché abbiamo una pienezza di vita tale che continueremo a vivere. 
Se quando arriva la morte trova un corpo svuotato di energie vitali perché una persona ha vissuto soltanto per sé, non ha mai risposto agli impulsi d’amore e ai limiti degli altri, allora è la fine dell’individuo. 
La morte fisica corrisponde con la morte dell’individuo. 
Per questo l’Apocalisse dice: “Beati quelli che non vengono colpiti dalla morte seconda”. 
Questi esempi danno l’idea che è importante la traduzione perché su di essa si basa la teologia. 
Da 1500 anni si ha una traduzione piena di errori, di modifiche, di accrescimenti. 
Essi hanno portato a tanti danni nella teologia e nella spiritualità della Chiesa cattolica. 
Ringraziamo il cielo che viviamo in un’epoca in cui abbiamo potuto scoprire questa realtà del vangelo e chissà in futuro quante ce ne saranno, siamo appena alla primavera.

- Padre Alberto Maggi - 
www.studibiblici.it



I veri cristiani hanno sempre saputo vincere la paura della morte. Ecco un aneddoto tratto dai Detti dei padri del deserto:

«Raccontano che un anziano morì a Scete e i fratelli si radunaro­no intorno al suo letto, lo vestirono, e cominciarono a piangere.
Egli aprì gli occhi e rise, e così fece una seconda e una terza volta. 
I fratelli lo pregarono:
- Dicci, padre, perché noi piangiamo e tu ridi?

Dice loro: - La prima volta ho riso, perché voi temete la morte; la seconda, perché non siete pronti; la terza, perché dalla fatica io va­do alla quiete. 
E subito l'anziano si addormentò».


Il cimitero è il luogo dove riposano i fedeli defunti, pertanto è degno di rispetto e di venerazione. 
Entrando nel cimitero fate il segno della Croce e recitate la seguente preghiera.

"Oh! Voi non siete morti, anche se le vostre ceneri riposano sotto la terra: voi vivete in Cielo accanto al vostro Creatore e la polvere che avete lasciato quaggiù è solo un ricordo per coloro che vi hanno amati su questa terra e che vi raggiungeranno nell'eternità".
Requiem




Dormi sepolto in un campo di grano
non è la rosa non è il tulipano
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.

- Fabrizio De André - 






Buona giornata a tutti.  :-)

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sabato 31 ottobre 2015

All'Autunno - John Keats -

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

- John Keats -


Eppure non è il declino ciò che Keats coglie dell'autunno.
Nel settembre 1819, John Keats scrisse l'Ode all'Autunno; il giovane poeta (aveva 24 anni) sapeva che la vita poteva giungere al termine in breve tempo perché la sua salute era minata dalla tubercolosi. Di fatto, sarebbe morto pochi mesi dopo, nel febbraio 1820 a Roma. L'autunno, quindi, non era solo la stagione che osservava intorno a sé quel settembre, era anche la stagione interiore che stava attraversando.


Un sentiero alberato in autunno
Hans Andersen Brendekilde (1857-1942)


In autunno tutto ci ricorda il crepuscolo, – e tuttavia, mi sembra la stagione più bella: volesse il cielo allora, quando io vivrò il mio crepuscolo, che ci debba essere qualcuno che allora mi ami come io ho amato l'autunno. 

- Søren Kierkegaard - 


Notte e giorno desidero che venga la morte a liberarmi da questi dolori, ma poi no, perché la morte distruggerebbe quei dolori che sono pur sempre meglio di niente. 
La terra, il mare, la debolezza e la malattia possono certo dividere, ma mai come la morte, che è per sempre. 
Il prendere coscienza di tanto strazio è in pratica come provare in anticipo l'amarezza della morte. 

- John Keats -
(da Lettera a Charles Brown, 28 settembre 1820)


È sorprendente, ma l'idea di lasciare questo mondo rende ancora più profondo in noi il senso delle sue bellezze naturali. Come il povero Falstaff, anche se non balbetto come lui, penso ai prati verdi. 
Medito con il più grande affetto su ogni fiore che conosco dall'infanzia. 
Le loro forme e i loro colori mi sembrano così nuovi, quasi li avessi appena creati io con fantasia sovrumana. 
Probabilmente è perché sono legati ai momenti più felici e ingenui della nostra vita. 
Ho visto fiori di paesi stranieri delle specie più meravigliose nelle serre, eppure non me ne importa un fico secco. Gli unici fiori che voglio vedere sono i semplici fiori della nostra primavera.

- John Keats -
(da Lettera a James Rice, 14-16 febbraio 1820)
























Buona giornata a tutti. :-)


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martedì 19 maggio 2015

Omelia di Mons. Fiordelli, Prato, 1958

"Se qualcuno pensasse che dopo questo doloroso avvenimento il vostro Vescovo si metterà a tacere, costui fortemente si illude (il popolo è scoppiato in un applauso ma il Vescovo ha vivamente pregato di non applaudire in chiesa).
Il giorno in cui il mio Vescovo mi consacrò, depose sulle mie spalle un grande libro del Vangelo e mi disse: "Prendi il Vangelo di Cristo ed annunzialo al popolo che ti è stato affidato. Non chiamerai luce le tenebre, né tenebre la luce, non chiamerai male il bene né bene il male".
[...] Non chiamerò mai bene il marxismo ateo, oppressore e disumano: lo chiamerò sempre male. Non chiamerò mai bene questa dilagante immoralità, che adesca la nostra amata gioventù e gli stessi adulti. 
Non chiamerò luce [...] quell'infelice orientamento anticattolico laicista, rovina dell'Italia nostra, il cui respiro è odio, il cui metodo è intriso di calunnie, la cui triste missione è una sola: demolire, demolire ogni valore cristiano nelle coscienze e nella società italiana, per aprire all'irrompere delle forze brute del materialismo. 
[...]
Difenderò i miei figli dal male [...]: difenderò con tutte le mie forze la famiglia cristiana. 
La famiglia cristiana, quanto la stimo e la amo! 
Quante volte ho supplicato nelle mie Messe e nelle mie preghiere che Gesù facesse nascere nella mia Diocesi tante belle famiglie cristiane, tanti babbi buoni, tante mamme sante, una gioventù lieta e pura, serena e credente! 
Se ho preso misure doverosamente forti, l'ho fatto proprio per la difesa di quel sacro tesoro che è la famiglia cristiana, per difendere la fede e l'innocenza dei vostri bambini che io immensamente amo".

Omelia di Mons. Fiordelli, Prato, 1958

Nel Marzo del '58, Mons. Fiordelli fu condannato dal Tribunale per diffamazione, in quanto aveva definito pubblici peccatori e concubini i coniugi Bellandi. Il mondo laicista esultò, il Santo Padre Pio XII per protesta sospese le solenni celebrazioni previste per il 12 Marzo alla presenza dell'intero corpo diplomatico.



L’inquisizione spagnola in 400 anni ha ucciso molte meno persone di quelle uccise dal Terrore giacobino in un solo anno. 
Eppure non mi sembra che si consideri la Rivoluzione francese come simbolo di oscurantismo. 

- Vittorio Messori -  



"Cara figlia, voglio insegnarti a ricevere la mia Benedizione con fervore. 
Cerca di capire che qualcosa di grande ha luogo quando ricevi la benedizione di un mio sacerdote. 
La benedizione è uno straripamento della mia Divina Santità "Quando il sacerdote benedice, Io benedico" .
Mi addolora che la benedizione della Chiesa sia tanto poco apprezzata e raramente ricevuta.
Per mezzo di essa ti è data la forza e il desiderio di cercare il bene, di sfuggire il male, di godere della protezione dei miei figli contro i poteri delle tenebre. 
È un grande privilegio quando ti è concesso di ricevere la benedizione, non puoi capire quanta misericordia ti giunge per suo mezzo. 
Perciò mai ricevere la benedizione in modo piatto o distratto, ma con tutta la tua attenzione completa!!! 
Tu sei povera prima di ricevere la benedizione, sei ricca dopo averla ricevuta.

Figlia mia, proteggi chi dà la benedizione! Stima altamente le cose benedette, così piacerai a Me, tuo Dio. 

Ecco cosa disse Gesù a Teresa Neuman
· 


Preghiera di offerta della S. Messa 

Eterno Padre vi offro il sacrificio che il vostro diletto Figlio Gesù vi offrì sulla Croce e che tra breve si rinnoverà su quest’altare.
Ve lo offro a nome di tutte le creature, con le Sante Messe che si sono celebrate e si celebreranno in tutto il mondo,
per adorarVi e renderVi l’onore che meritate,
per ringraziarVi dei vostri innumerevoli benefici,
per riparare le offese fatte a Voi con i peccati che si commettono
e per supplicarVi per me, per la Chiesa, per il mondo intero
e in modo particolare per la salvezza dei morenti
e in suffragio delle Anime sante del Purgatorio

e  ………………....

(aggiungere un intenzione desiderata)




Buona giornata a tutti. :-)




martedì 20 gennaio 2015

Eterno riposo? - Padre Alberto Maggi

I defunti non stanno al cimitero, il luogo dei “resti mortali”, ma continuano la loro esistenza nella pienezza di Dio, è questo il significato di “Riposeranno dalle loro fatiche”.
Il riposo al quale allude l’autore non indica la cessazione delle attività, ma la condizione divina, come il Creatore che “compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno” (Gen 2,2). 

Con la morte l’individuo riposa dalle opere compiute nella sua esistenza terrena, ma viene chiamato a collaborare all’azione creatrice di Dio comunicando vita agli uomini: “Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch’egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie” (Eb 4,10).
La morte non conduce a un eterno riposo inteso nel senso di un divino ozio per tutta l’eternità, ma all’attiva e vivificante collaborazione con l’azione del Creatore. 

In quest’azione creatrice l’amore che il defunto aveva verso i suoi cari non viene affievolito, ma arricchito dalla stessa potenza d’amore del Padre. La morte non allenta i rapporti umani ma li potenzia.
L’unica cosa che l’uomo porta con sé nella nuova dimensione di vita sono le opere compiute nella sua esistenza terrena. Le opere con le quali l’uomo ha trasmesso vita agli altri, sono la sua ricchezza, quel che hanno reso la vita eterna già in questa esistenza, innescando nell’individuo un processo di trasformazione che non viene fermato dalla morte, ma potenziato.


Padre Alberto Maggi
(Montefano, 2 novembre 2012)





Verso la fine della vita, avviene come verso la fine di un ballo mascherato, quando tutti si tolgono la maschera. Allora si vede chi erano veramente coloro coi quali si è venuti in contatto durante la vita.

- Arthur Schopenhauer -


Siamo attesi come amati figli che tornano al focolare dopo l'esilio; per ricondurci a casa, Dio stesso si è fatto nostro compagno di viaggio. 

- Elisabetta della Trinità -






"C'è un sentiero che si forma man mano che il terreno
è sgombrato dall'importanza che davamo alle cose.
A volte non è facile, ma è necessario liberare la mente,
cancellare ciò che ci fa star male...

per poter ricostruire la vita."






Niente è più veritiero di un discorso funebre: 
dice precisamente quello che il morto avrebbe dovuto essere. 

 - Gustave Vapereau -




Buona giornata a tutti. :-)








venerdì 26 settembre 2014

I sette piani - Dino Buzzati -

Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta. Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - , Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. 

Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di alti alberi.

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. 

I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé... 

Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa...

Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. 

Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. 
Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. 

Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo, quelli per cui era inutile sperare.

Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. 
Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo.
Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuovo per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani inferiori. 

La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. La maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.

Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: "Anche lei sta qui da poco?"
"Oh no - fece l'altro - sono qui già da due mesi..." tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: "Guardavo giù mio fratello."
"Suo fratello?"
"Sì." spiegò lo sconosciuto. "Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto."
"Al quarto che cosa?"
"Al quarto piano" spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.
"Ma son così gravi al quarto piano?" domandò cautamente.
"Oh Dio" fece l'altro, scuotendo lentamente la testa "non sono ancora così disperati, ma comunque poco da stare allegri."
"Ma allora", chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, "allora, se al quarto sono già così gravi, al quinto chi mettono allora?"
"Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente..."
"Ma ce n'è pochi al primo piano" interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma "quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù."
"Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi" rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. "Dove le persiane sono abbassate lì qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi, aggiunse ritraendosi lentamente "mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri..."
L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. 

Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene cosi lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie.

Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. 
Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo, e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. 

Un principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.

"E allora resto al settimo piano?" aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.
"Ma naturalmente!" gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.
"Meglio così, meglio così!" fece il Corte. "Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio".
Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. 

Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie.

Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano, libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole? Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera.
"La ringrazio di cuore", fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto" aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. "Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria, " si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, "una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra."
"Le confesso", disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino "le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto."
"Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carità", aggiunse ridendo apertamente "non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni".
"Sarà", disse Giuseppe Corte "ma mi sembra di cattivo augurio".
Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico dell'ospedale; già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto, il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero.
Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un minuto sforzo; non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei "quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare che trovarsi con loro, soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione.
II convincimento di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra e scandiva tale definizione per darle importanza - ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato.
"Non cominciamo con queste storie", interveniva a questo punto il malato con decisione. "Lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto e voglio ritornarci".
"Nessuno ha detto il contrario". ribatteva il dottore "il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo delle cellule" (era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione "il processo distruttivo delle cellule") è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico, solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più tipici ed intensi. Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) l'inferiore di queste due metà veniva d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del settimo piano passare al sesto. La notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.
Quando accennò a questa sua speranza con l'infermiera egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al settimo, bensì al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più "grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al quinto.
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo. Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. o meglio la direzione aveva di proposito leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il medico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. 


La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta.

Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al piano di sotto.
L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il menu grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine.
Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.
"E non si possono avere qui i raggi digamma?", chiese Giuseppe Corte.
"Certamente" rispose compiaciuto il medico, "il nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo inconveniente....
"Che cosa?" fece il Corte con un vago presentimento.
"Inconveniente per modo di dire". si corresse il dottore, "volevo dire che l'installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto".
"E allora niente?"
"Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto."
"Basta!" urlò allora esasperato Giuseppe Corte. Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!"
"Come lei crede" fece conciliante il medico per non irritarlo "come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno".
Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. 

Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.

Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra. Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo.
"Al settimo, al settimo!." esclamò sorridendo il medico, che finiva proprio allora di visitarlo. Sempre esagerati voi ammalati. Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vede, dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settime, piano - mi scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo io, ma è pur sempre un ammalato!"
"E allora, allora" fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, "lei a che piano mi metterebbe?"
"Oh, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana."
"Va bene" insistette Corte "ma pressapoco lei saprà."
Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: 

"Oh Dio, proprio per accontentarla, ecco, ma potremo in fondo metterla al sesto!"

"Sì sì" aggiunse come per persuadere se stesso. "Il sesto potrebbe andar bene."
II dottore credeva così di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione di sgomento: si accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l'avevano ingannato; ecco, qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salì sensibilmente. La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata all'ospedale.
Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita d'avvocato e d'uomo di mondo. 

Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.

Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.
"Mi dica, dottore. disse un giorno, come va il processo distruttivo delle mie cellule?"
"Oh, ma che brutte parole!" lo rimproverò scherzosamente il dottore. "Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili"
"Va bene" obiettò il Corte "ma così lei non mi ha risposto"
"Oh, le rispondo subito" fece il dottore cortese. "Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato"
"Ostinato, cronico vuol dire?"
"Non mi faccia dire quello che non ho detto. lo voglio dire soltanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe"
"Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento?"
"Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta" aggiunse dopo una pausa meditativa "vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le consiglierei?"
"Ma dica, dica pure, dottore...."
"Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal prima giorno, capisce? A uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al...."
"Al primo?" suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.
"Oh no! al primo no!" rispose ironico il medico, "questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi è l'anima di questo ospedale?"
"Non è il professor Dati?"
"Già il professor Dati. E' lui I'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori"
"Ma insomma" fece Giuseppe Corte con voce tremante, "allora lei mi consiglia ..." "Aggiunga una cosa" continuò imperterrito il dottore "aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo "morale"; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi "meriti" anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire"
"Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?"
"Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni"
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di sotto.
Notò subito al terzo piano che nel reparto 'regnava una speciale gaiezza', sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri.
"Ah, non lo sa?" rispose l'infermiera "fra tre giorni andiamo in vacanza"
"Come andiamo in vacanza?"
"Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani"
"E i malati? come fate?"
"Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo.."
"Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?"
"No, no" corresse l'infermiera "del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso"
"Discendere al secondo?" fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. "lo dovrei cosi scendere al secondo?"
"Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi"
Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene - l'eczema si era quasi completamente riassorbita - egli non osò muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto "Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio". Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave scossa. 


Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni non uno di più, non uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.

Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. Dalla finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle. 
"Siamo pronti per il trasloco?" domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.
"Che trasloco?" domandò con voce stentata Giuseppe Corte "che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?"
"Che terzo piano?" disse il capo-infermiere come se non capisse "io ho avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua." e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.
Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. "Adagio, adagio per carità", supplicarono gli infermieri "ci sono dei malati che non stanno bene". 

Ma ci voleva altro per calmarlo. Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era un'insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro d tutto... 

Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente. "Purtroppo però" aggiunse il medico "purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è partito, per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!"

Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. 

La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza.

Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio dell'estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra con l'impressione di esser giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. 
Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento. 
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di completo silenzio. 

Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio? 

Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? 
Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

- Dino Buzzati -



"Credo che tutti dovrebbero amare la vita prima di ogni altra cosa al mondo."
"Amare la vita più del senso della vita?"
"Proprio così: amarla prima della logica, come dici tu, assolutamente prima di ogni logica, e solo allora se ne afferrerà il senso"...

da: F. Dostoevskij - I fratelli Karamazov




Anche se tu dovessi vivere tremila anni e dieci volte altrettanto, in ogni caso ricorda che nessuno perde altra vita se non questa che sta vivendo, né vive altra vita se non questa che va perdendo. Pertanto la durata più lunga e la più breve coincidono. Infatti il presente è uguale per tutti e quindi ciò che si consuma è uguale e la perdita risulta, così, insignificante.

Perché nessuno può perdere il passato né il futuro: come si può essere privati di quello che non si possiede? Ricordate sempre, quindi, questi due punti: il primo, che tutto, dall’eternità, e dalla medesima specie, ciclicamente ritorna, e non fa alcuna differenza se si vedranno le stesse cose nello spazio di cento o di duecento anni o nell’infinità del tempo; il secondo che, sia chi vive moltissimi anni sia chi dopo brevissimo tempo è già morto, subiscono una perdita uguale. È solo il presente, infatti, ciò di cui possono essere privati, poiché è anche l’unica cosa che possiedono, e uno non perde quello che non ha.

- Marco Aurelio  -





























Buona giornata a tutti :-)