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sabato 5 agosto 2023

Una cosa che comincia per elle - Dino Buzzati

Arrivato al paese di Sisto e sceso alla solita locanda, dove soleva capitare due tre volte all’anno, Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.

Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio, tanto che volle alzarsi senza aspettare il dottore. In maniche di camicia stava facendosi la barba quando fu bussato all’uscio. Era il medico. Lo Schroder disse di entrare. “Sto benone stamattina” disse il mercante senza neppure voltarsi, continuando a radersi dinanzi allo specchio. ”Grazie di essere venuto, ma adesso potete andare.” “Che furia, che furia!” disse il medico, e poi fece un colpettino di tosse a esprimere un certo imbarazzo. ” Sono qui con un amico, questa mattina. ”

Lo Schroder si voltò e vide sulla soglia, di fianco al dottore, un signore sulla quarantina, solido, rossiccio in volto e piuttosto volgare, che sorrideva insinuante. Il mercante, uomo sempre soddisfatto di sé e solito a far da padrone, guardò seccato il medico con aria interrogativa.

“Un mio amico ” ripeté il Lugosi ” Don Valerio Melito. Più tardi dobbiamo andare insieme da un malato e così gli ho detto di accompagnarmi. ”

” Servitor suo ” fece lo Schroder freddamente. ” Sedete, sedete.”

” Tanto ” proseguì il medico per giustificarsi maggiormente ” oggi, a quanto pare, non c’è più bisogno di visita. Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ”

” Un salasso? E perché un salasso? ”

” Vi farà bene” spiegò il medico. ” Vi sentirete un altro, dopo. Fa sempre bene ai temperamenti sanguigni. E poi è questione di due minuti. ”

Così disse e trasse fuori dalla mantella un vasetto di vetro contenente tre sanguisughe. L’appoggiò ad un tavolo e aggiunse: ” Mettetevene una per polso. Basta tenerle ferme un momento e si attaccano subito. E vi prego, di fare da voi. Cosa volete che vi dica? Da vent’anni che faccio il medico, non sono mai stato capace di prendere in mano una sanguisuga “.

” Date qua ” disse lo Schroder con quella sua irritante aria di superiorità. Prese il vasetto, si sedette sul letto e si applicò ai polsi le due sanguisughe come se non avesse fatto altro in vita sua.

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò, con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.

” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già ” disse allo Schroder il medico, sedendosi pure lui, chissà perché, vicino alla porta.

” Non mi ricordo di aver avuto l’onore ” rispose lo Schroder che, seduto sul letto, teneva le braccia abbandonate sul materasso, le palme rivolte in su, mentre le sanguisughe gli succhiavano i polsi. Aggiunse: ” Ma dite, Lugosi, piove stamattina? Non ho ancora guardato fuori. Una bella seccatura se piove, dovrò andare in giro tutto il giorno. ”

“No, non piove ” disse il medico senza dare peso alla cosa. ” Ma don Valerio vi conosce davvero, era ansioso di rivedervi. ”

” Vi dirò ” fece il Melito con voce spiacevolmente cavernosa. ” Vi dirò: non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ”

” Non saprei proprio ” rispose il mercante con assoluta indifferenza.

” Tre mesi fa? ” chiese il Melito. ” Cercate di ricordare: tre mesi fa non siete passato con la vostra carrozzella per la strada del Confine vecchio? ”

” Mah, può darsi ” fece lo Schroder. ” Può darsi benissimo, ma esattamente non ricordo. ”

” Bene. E non vi ricordate allora di essere slittato a una curva, di essere andato fuori strada? ”

” Già, è vero ” ammise il mercante, fissando gelidamente la nuova e non desiderata conoscenza.

” E una ruota è andata fuori di strada e il cavallo non riusciva a rimetterla in careggiata? ”

” Proprio così. Ma, voi, dove eravate? ”

” Ah, ve lo dirò dopo ” rispose il Melito scoppiando in una risata e ammiccando al dottore. ” E allora siete sceso, ma neanche voi riuscivate a tirar su la carrozzella. Non è stato così, dite un po’? ”

” Proprio così. E pioveva che Dio la mandava. ”

” Caspita se pioveva! ” continuò don Valerio, soddisfattissimo. ” E mentre stavate a faticare, non è venuto avanti un curioso tipo, un uomo lungo, tutto nero in faccia? ”

” Mah, adesso non ricordo bene ” interruppe lo Schroder. ” Scusate, dottore, ma ce ne vuole ancora molto di queste sanguisughe? Sono già gonfie come rospi. Ne ho abbastanza io. E poi vi ho detto che ho molte cose da fare. ”

” Ancora qualche minuto! ” esortò il medico. ” Un po’ di pazienza, caro Schroder! Dopo vi sentirete un altro, vedrete. Non sono neanche le dieci, diamine, c’è tutto il tempo che volete! ”

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”

” Bene: sì, mi ricordo ” rispose scortesemente lo Schroder. ” E, scusate, dove volete andare a finire? ”

” Ma niente! ” fece il Melito. ” Solo per dirvi che vi conoscevo già. E che ho buona memoria. Purtroppo quel giorno ero lontano, al di là di un fosso, ero almeno cinquecento metri distante. Ero sotto un albero a ripararmi dalla pioggia e ho potuto vedere. ”

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito.

” Ah, non lo so chi fosse, esattamente, l’ho visto da lontano! Voi, piuttosto, chi credete che fosse? ”

“Un povero disgraziato, doveva essere ” disse il mercante. ” Un sordomuto pareva. Quando l’ho pregato di venire ad aiutarmi, si è messo come a mugolare, non ho capito una parola. ”

” E allora voi gli siete andato incontro, e lui si è tirato indietro, e allora voi lo avete preso per un braccio, L’avete costretto a spingere la carrozza insieme a voi. Non è cosi? Dite la verità. ”

” Che cosa c’entra questo? ” ribatté lo Schroder insospettito. ” Non gli ho fatto niente di male. Anzi, dopo gli ho dato due lire. ”

” Avete sentito? ” sussurrò a bassa voce il Melito al medico; poi, più forte, rivolto al mercante: ” Niente di male, chi lo nega? Però ammetterete che ho visto tutto “.

” Non c’è niente da agitarsi, caro Schroder ” fece il medico a questo punto vedendo che il mercante faceva una faccia cattiva. ” L’ottimo don Valerio, qui presente, è un tipo scherzoso. Voleva semplicemente sbalordirvi. ”

Il Melito si volse al dottore, assentendo col capo. Nel movimento, i lembi del mantello si dischiusero un poco e lo Schroder, che lo fissava, divenne pallido in volto.

” Scusate, don Valerio ” disse con una voce ben meno disinvolta del solito. ” Voi portate una pistola. Potevate lasciarla da basso, mi pare. Anche in questi paesi c’è l’usanza, se non mi inganno. ”

” Perdio! Scusatemi proprio! ” esclamò il Melito battendosi una mano sulla fronte a esprimere rincrescimento. ” Non so proprio come scusarmi! Me ne ero proprio dimenticato. Non la porto mai, di solito, è per questo che mi sono dimenticato. E oggi devo andare fuori in campagna a cavallo. ”

Pareva sincero, ma in realtà si tenne la pistola alla cintola; continuando a scuotere il capo. ” E dite ” aggiunse sempre rivolto allo Schroder. ” Che impressione vi ha fatto quel povero diavolo? ”

” Che impressione mi doveva fare? Un povero diavolo, un disgraziato. ”

” E quella campanella, quell’affare che continuava a suonare, non vi siete chiesto che cosa fosse? ”

” Mah ” rispose lo Schroder, controllando le parole per il presentimento di qualche insidia. ” Uno zingaro, poteva essere; per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana. ”

“Uno zingaro! ” gridò il Melito, mettendosi a ridere come se l’idea lo divertisse un mondo. ” Ah, L’avete creduto uno zingaro? ”

Lo Schroder si voltò verso il medico con irritazione. ” Che cosa c’è? ” chiese duramente. ” Che cosa vuol dire questo interrogatorio? Caro il mio Lugosi, questa storia non mi piace un bel niente! Spiegatevi, se volete qualcosa da me! ”

” Non agitatevi, vi prego… ” rispose il medico interdetto. ” Se volete dire che a questo vagabondo è capitato un accidente e la colpa è mia, parlate chiaro ” proseguì il mercante alzando sempre più la voce ” parlate chiaro, cari i miei signori. Vorreste dire che l’hanno ammazzato? ”

” Macché ammazzato! ” disse il Melito, sorridendo, completamente padrone della situazione ” ma che cosa vi siete messo in mente? Se vi ho disturbato mi spiace proprio. Il dottore mi ha detto: don Valerio, venite su anche voi, c’è il cavaliere Schroder. Ah lo conosco, gli ho detto io. Bene, mi ha detto lui, venite su anche voi, sarà lieto di vedervi. Mi dispiace proprio se sono riuscito importuno… ”

Il mercante si accorse di essersi lasciato portare.

” Scusate me, piuttosto, se ho perso la pazienza. Ma pareva quasi un interrogatorio in piena regola. Se c’è qualche cosa, ditela senza tanti riguardi. ”

” Ebbene ” intervenne il medico con molta cautela. ” Ebbene: c’è effettivamente qualche cosa. ”

” Una denuncia? ” chiese lo Schroder sempre più sicuro di sé, mentre cercava di riattaccarsi ai polsi le sanguisughe staccatesi durante la sfuriata di prima. ” C’è qualche sospetto contro di me? ”

” Don Valerio ” disse il medico. ” Forse è meglio che parliate voi. ”

” Bene ” cominciò il Melito. ” Sapete chi era quell’individuo che vi ha aiutato a tirar su la carrozza? ”

” Ma no, vi giuro, quante volte ve lo devo ripetere? ”

” Vi credo ” disse il Melito. ” Vi domando solo se immaginate chi fosse. ”

” Non so, uno zingaro, ho pensato, un vagabondo… ”

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. ”

” Una cosa che comincia per elle? ” ripeté meccanicamente lo Schroder, cercando nella memoria, e un’ombra di apprensione gli si era distesa sul volto.

” Già. Comincia per elle ” confermò il Melito con un malizioso sorriso.

” Un ladro? volete dire? ” fece il mercante illuminandosi in volto per la sicurezza di aver indovinato.

Don Valerio scoppiò in una risata: ” Ah, un ladro! Buona davvero questa! Avevate ragione, dottore: una persona piena di spirito, il cavaliere Schroder! “. In quel momento si sentì fuori della finestra il rumore della pioggia.

” Vi saluto ” disse il mercante recisamente, togliendosi le due sanguisughe e rimettendole nel vasetto. ” Adesso piove. Io me ne devo andare, se no faccio tardi. ”

” Una cosa che comincia per elle ” insistette il Melito alzandosi anche lui in piedi e manovrando qualcosa sotto l’ampia mantella.

” Non so, vi dico. Gli indovinelli non sono per me. Decidetevi, se avete qualche cosa da dirmi… Una cosa che comincia per elle?… Un lanzichenecco forse?… ” aggiunse in tono di beffa.

Il Melito e il dottore, in piedi, si erano accostati l’un l’altro, appoggiando le schiene all’uscio. Nessuno dei due ora sorrideva più.

” Né un ladro né un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ”

Il mercante guardò i due uomini, pallido come un morto. ” Ebbene? E se anche fosse stato un lebbroso? ”

” Lo era purtroppo di certo ” disse il medico, cercando pavidamente di ripararsi dietro le spalle di Don Valerio

” E adesso lo siete anche voi. ”

” Basta! ” urlò il mercante tremando per l’ira. ” Fuori di qua! Questi scherzi non mi vanno. Fuori di qua tutti e due! ” Allora il Melito insinuò fuori del mantello una canna della pistola.

” Sono l’alcade, caro signore. Calmatevi, vi torna conto. ”

” Vi farò vedere io chi sono! ” urlava lo Schroder. ” Che cosa vorreste farmi, adesso? ”

Il Melito scrutava lo Schroder, pronto a prevenire un eventuale attacco. ” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. ”

” Ve la farò vedere io la campanella! ” ribatté lo Schroder, e tentava ancora di gridare ma la voce gli si era spenta in gola, l’orrore della rivelazione gli aveva agghiacciato il cuore. Finalmente capiva: il dottore, visitandolo il giorno prima, aveva avuto un sospetto ed era andato ad avvertire l’alcade. L’alcade per caso lo aveva visto afferrare per un braccio, tre mesi prima, un lebbroso di passaggio, ed ora lui, Schroder, era condannato. La storia delle sanguisughe era servita per guadagnar tempo. Disse ancora: ” Me ne vado senza bisogno dei vostri ordini, canaglie, vi farò vedere, vi farò vedere… ”

” Mettetevi la giacca ” ordinò il Melito, il suo volto essendosi illuminato di una diabolica compiacenza. ” La giacca, e poi fuori immediatamente. ”

” Aspetterete che prenda le mie robe ” disse lo Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo. ” Appena ho impacchettato le mie robe me ne vado, statene pur sicuri. ”

” Le vostre robe devono essere bruciate ” avvertì sogghignando l’alcade. ” La campanella prenderete, e basta. ”

” Le mie robe almeno! ” esclamò lo Schroder, fino allora così soddisfatto e intrepido; e supplicava il magistrato come un bambino. ” I miei vestiti, i miei soldi, me li lascerete almeno! ”

” La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto. ”

” Come? Che cosa volete dire? ” balbettò il mercante.

” Carrozza e cavallo sono stati bruciati, come ordina la legge ” rispose l’alcade, godendo della sua disperazione.

“Non vi immaginerete che un lebbroso se ne vada in giro in carrozzella, no?” E diede in una triviale risata. Poi, brutalmente: ” Fuori! fuori di qua! ” urlava allo Schroder. “Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane! ”

Lo Schroder tremava tutto, grande e grosso com’era, quando uscì dalla camera, sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo inebetito.

” La campana! ” gli gridò ancora il Melito facendolo sobbalzare; e gli sbatté dinanzi, per terra, il pacchetto misterioso, che diede una risonanza metallica. ” Tirala fuori, e legatela al collo. ”

Si chinò lo Schroder, con la fatica di un vecchio cadente raccolse il pacchetto, spiegò lentamente gli spaghi, trasse fuori dell’involto una campanella di rame, col manico di legno tornito, nuova fiammante. ” Al collo! ” gli urlò il Melito. ” Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo! ”

Le mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l’ordine dell’alcade. Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni movimento.

“Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come te. Va’ che bel lebbroso! ” infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sbalordito dalla scena ripugnante.

Lo Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le scale. Dondolava la testa da una parte e dall’altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi strade. Dopo due gradini si voltò cercando il medico e lo fissò lungamente negli occhi.

” La colpa non è mia! ” balbettò il dottor Lugosi. “è stata una disgrazia, una grande disgrazia! ”

” Avanti, avanti! ” incitava intanto l’alcade come a una bestia. ” Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi! ”

Lo Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza. Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva.

(Dino Buzzati)

riduzione da: "La boutique del mistero", ed. Mondadori, Milano


Buona giornata a tutti :-)





 

giovedì 28 ottobre 2021

Una cosa che comincia per elle – Dino Buzzati

"Don Valerio" disse il medico. "Forse è meglio che parliate voi." "Bene" cominciò il Melito. "Sapete chi era quell'individuo che vi ha aiutato a tirar su la carrozza?" "Non so, uno zingaro, ho pensato, un vagabondo..." "No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell'uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle." "Una cosa che comincia per elle?" ripeté meccanicamente lo Schroder, cercando nella memoria, e un'ombra di apprensione gli si era distesa sul volto. "Un ladro? volete dire?" fece il mercante illuminandosi in volto per la sicurezza di aver indovinato. 

Il Melito e il dottore, in piedi, si erano accostati l'un l'altro, appoggiando le schiene all'uscio. Nessuno dei due ora sorrideva più. "Né un ladro né un lanzichenecco" disse lentamente il Melito. "Un lebbroso, era." Il mercante guardò i due uomini, pallido come un morto. "Ebbene? E se anche fosse stato un lebbroso?" "Lo era purtroppo di certo" disse il medico, cercando pavidamente di ripararsi dietro le spalle di Don Valerio. "E adesso lo siete anche voi."

Il Melito insinuò fuori del mantello una canna della pistola. "Sono l'alcalde, caro signore. Calmatevi, vi torna conto. "Vi farò vedere io chi sono!" urlava lo Schroder. "Che cosa vorreste farmi, adesso?" Il Melito scrutava lo Schroder, pronto a prevenire un eventuale attacco. "In quel pacchetto c'è la vostra campanella" rispose. "Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno."

"Ve la farò vedere io la campanella!" ribatté lo Schroder, e tentava ancora di gridare ma la voce gli si era spenta in gola, l'orrore della rivelazione gli aveva agghiacciato il cuore. Finalmente capiva: il dottore, visitandolo il giorno prima, aveva avuto un sospetto ed era andato ad avvertire l'alcade. L'alcade per caso lo aveva visto afferrare per un braccio, tre mesi prima, un lebbroso di passaggio, ed ora lui, Schroder, era condannato.

"Me ne vado senza bisogno dei vostri ordini, canaglie, vi farò vedere, vi farò vedere..." "Mettetevi la giacca" ordinò il Melito, il suo volto essendosi illuminato di una diabolica compiacenza. "La giacca, e poi fuori immediatamente." "Aspetterete che prenda le mie robe" disse lo Schroder, oh quanto meno fiero di un tempo. "Appena ho impacchettato le mie robe me ne vado, statene pur sicuri."

"Le vostre robe devono essere bruciate" avvertì sogghignando l'alcade. "La campanella prenderete, e basta." "Le mie robe almeno!" esclamò lo Schroder, fino allora così soddisfatto e intrepido; e supplicava il magistrato come un bambino. "La giacca, la mantella, e basta. L'altro deve essere bruciato. Carrozza e cavallo sono stati bruciati, come ordina la legge" rispose l'alcade, godendo della sua disperazione. "Non vi immaginerete che un lebbroso se ne vada in giro in carrozzella, no?" E diede in una triviale risata. Poi, brutalmente: "Fuori! fuori di qua!" urlava allo Schroder. "Non immaginerai che stia qui delle ore a discutere? Fuori immediatamente cane " Lo Schroder tremava tutto, grande e grosso com'era, quando uscì dalla camera, sotto la canna puntata della pistola, la mascella cadente, lo sguardo inebetito.

"La campana!" gli gridò ancora il Melito facendolo sobbalzare; e gli sbattè dinanzi, per terra, il pacchetto misterioso, che diede una risonanza metallica. "Tirala fuori, e legatela al collo. Se non ti sbrighi, perdio, ti sparo!" Le mani dello Schroder erano scosse da un tremito e non era facile eseguire l'ordine dell'alcade.

Pure il mercante riuscì a passarsi attorno al collo la cinghia attaccata alla campanella, che gli pendette così sul ventre, risuonando ad ogni movimento. "Prendila in mano, scuotila, perdio! Sarai buono, no? Un marcantonio come te. Va' che bel lebbroso!" infierì don Valerio, mentre il medico si tirava in un angolo, sbalordito dalla scena ripugnante. 

Lo Schroder con passi da infermo cominciò a scendere le scale. Dondolava la testa da una parte e dall'altra come certi cretini che si incontrano lungo le grandi strade. "Avanti, avanti!" incitava intanto l'alcade come a una bestia. "Scuoti la campanella, ti dico, la gente deve sapere che arrivi!" Lo Schroder riprese a scendere le scale. Poco dopo egli comparve sulla porta della locanda e si avviò lentamente attraverso la piazza.

Decine e decine di persone facevano ala al suo passaggio, ritraendosi indietro man mano che lui si avvicinava. La piazza era grande, lunga da attraversare. Con gesto rigido egli ora scuoteva la campanella che dava un suono limpido e festoso; den, den, faceva.

- Dino Buzzati - 

riduzione da: "La boutique del mistero", ed. Mondadori, Milano


Separare il puro dall’impuro - Il Coronavirus nel Levitico

Nel documento pubblicato il 29 febbraio 2020 concernente le direttive per affrontare e combattere la diffusione del Coronavirus, l’OMS indica come misura primaria la quarantena, strumento classico per il contenimento delle crisi epidemiche nella storia europea (e non solo).

Com’è noto, almeno dal XIV secolo, ai tempi della cosiddetta peste nera, le città costiere italiane imponevano quaranta giorni di segregazione e isolamento alle navi che si avvicinavano ai loro porti.

La parola quarantena è d’origine veneziana e cominciò a circolare proprio in quel periodo. 

L’idea di fondo della quarantena, come quella più generale dell’isolamento e della segregazione, era ed è quella di separare il malato, l’infetto, l’appestato dal mondo dei sani. Quest’operazione, per noi ovvia, semplice, quasi banale, ha un fondamento biblico. Essa cela una nefasta insidia etico-politica che, surrettiziamente, s’insinua ancora oggi nel nostro modo di agire e pensare nel quadro delle pratiche d’isolamento e segregazione in campo igienico-sanitario.

 Il capitolo 13 del Levitico, nella Vulgata, è interamente dedicato alla lebbra,

una malattia che ha avuto un carattere epidemico rilevante nel mondo giudaico-cristiano almeno dall’ antichità classica sino alla seconda metà del XIV secolo. ….

 Nel capitolo 13, Dio, rivolgendosi a Mosè e ad Aronne, dà a quest’ultimo alcune precise indicazioni su come comportarsi in qualità di sacerdote, responsabile del benessere degli Israeliti, e quindi di braccio terreno dell’autorità divina. Tocca al sacerdote, sulla base delle indicazioni fornite nel Levitico, indicare chi è “lebbroso” (impuro, segnato). 

Tale diagnosi o, se vogliamo, il riconoscimento effettuato dal sacerdote implica, per il bene comune del popolo, la messa in opera di una pratica d’esclusione sociale: «Il lebbroso, affetto da questa piaga, porterà le vesti strappate e il capo scoperto; si coprirà la barba e griderà: Impuro! Impuro! Sarà impuro tutto il tempo che avrà la piaga; è impuro; se ne starà solo; abiterà fuori del campo.» (Levitico 13, 45-46). 

Il medesimo comportamento è ingiunto da Dio a Mosè in un passo del libro dei Numeri: «Ordina agli Israeliti che allontanino dall’accampamento ogni lebbroso, chiunque soffre di gonorrea o è impuro per il contatto con un cadavere. Allontanerete sia i maschi sia le femmine; li allontanerete dall’accampamento perché non contaminino il loro accampamento in mezzo al quale io abito». (Numeri, 5, 1-3).

Levitico 13 e Numeri 5 contengono tre elementi che vale la pena mettere in evidenza e che caratterizzano le pratiche di esclusione e confinamento sociale sino ai giorni nostri:

1) la designazione dell’impuro è fatta da un’autorità superiore (il potere religioso, politico, medico) in nome della salvaguardia della comunità;

2) i puri e gli impuri, i sani e i malati devono vivere in spazi separati;

3) inevitabilmente, la designazione degli impuri (i lebbrosi, i contagiati, gli untori) comporta la loro stigmatizzazione: la loro riduzione al segno (difforme, anomalo, tipico) che li contraddistingue, segno che dev’essere obbligatoriamente esposto, gridato, per poter essere riconosciuto, tenuto a distanza, segregato.

Attenzione perché, di fatto, queste righe della Bibbia, lette alla luce di quanto la storia ci ha poi mostrato nei processi di esclusione e confinamento per motivi igienico-sanitari, hanno consentito molti comportamenti e la creazione di dispositivi che hanno legittimato, sul piano sociale e politico, l’espropriazione della vita sociale, se non addirittura della vita biologica non soltanto dell’impuro, ma anche dell’anormale, del diverso, sinanco dello straniero.

articolo di Andrea Carlino

https://www.treccani.it/magazine/atlante/cultura/Storie_virali_Separare__il_puro_dall_impuro.html                        

Bibliografia per approfondire:

Erwin Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Englewood Cliffs, N.J., Prentice-Hall, 1963

Mary Douglas, Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, Abingdon-on-Thames, Routledge and Kegan Paul, 1966 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1975)


Buona giornata a tutti :-)




 

 


venerdì 24 settembre 2021

L’ uomo che volle guarire - Dino Buzzati

Intorno al grande lebbrosario sulla collina, a un paio di chilometri dalla città, correva un alto muraglione e in cima al muraglione le sentinelle camminavano su e giù. Tra queste guardie ce n’erano di altezzose e intrattabili, altre invece avevano pietà. Perciò al crepuscolo i lebbrosi si raccoglievano ai piedi del bastione e interrogavano i soldati più alla mano. “Gaspare” per esempio dicevano “che cosa vedi questa sera? C’è qualcuno sulla strada? Una carrozza, dici? E com’è questa carrozza? E la reggia è illuminata? Hanno acceso le torce sulla torre? Che sia tornato il principe?” Continuavano per ore, non erano mai stanchi e, benché il regolamento lo vietasse, le sentinelle di buon cuore rispondevano, spesso inventando cose che non c’erano, passaggio di viandanti, luminarie, incendi, eruzioni perfino del vulcano Ermac, poiché sapevano che qualsiasi novità era una deliziosa distrazione per quegli uomini condannati a non uscire mai di là. Anche i malati gravi, i moribondi partecipavano al convegno portati in barella dai lebbrosi ancora validi.

Soltanto uno non veniva, un giovane entrato nel lazzaretto da due mesi. Era un nobile, un cavaliere, uomo già stato bellissimo, a quanto si poteva indovinare perchè la lebbra lo aveva attaccato con una violenza rara, in poco tempo deturpandogli la faccia. Si chiamava Mseridon.

“Perché non vieni?” gli chiedevano passando dinanzi alla sua capanna “perché non vieni anche tu a sentire le notizie? Ci devono essere questa sera i fuochi artificiali e Gaspare ha promesso che ce li descriverà. Sarà bellissimo, vedrai.”
“Amici” lui rispondeva dolcemente, affacciandosi alla soglia e si copriva la faccia leonina con un pannolino bianco “capisco che per voi le notizie che vi dà la sentinella siano una consolazione. Questo è l’unico legame che vi resta col mondo esterno, con la città dei vivi. È vero o no?”
“Sì certo, è vero.”
“Questo vuol dire che vi siete già rassegnati a non uscire mai di qui. Mentre io…”
“Tu che cosa?”
“Mentre io invece guarirò, io non mi sono rassegnato, io voglio, capite, voglio tornare come prima.”

Tra gli altri, dinanzi alla capanna di Mseridon, passava il saggio e vecchio Giacomo, patriarca della comunità. Aveva almeno centodieci anni ed era quasi un secolo che la lebbra lo smangiava. Non aveva più membra di sorta, non si distinguevano più la testa nè le braccia né le gambe, il corpo si era trasformato in una specie di asta del diametro di tre quattro centimetri che si teneva chissà come in equilibrio, con in cima un ciuffo di capelli bianchi e assomigliava, in grande, a quegli scacciamosche che adoperano i nobili abissini. Come ci vedesse, parlasse, si nutrisse era un enigma perché la faccia era distrutta né si vedevano aperture nella crosta bianca che lo rivestiva, simile alla corteccia di betulla. Ma questi sono i misteri dei lebbrosi. In quanto al camminare, scomparse tutte le articolazioni, se la cavava saltellando sull’unico piede, tondo anch’esso come il puntale di un bastone. Anziché macabro, l’aspetto complessivo era grazioso. Praticamente, un uomo trasformato in vegetale. E siccome era molto buono e intelligente, tutti gli usavano riguardo.

All’udire le parole di Mseridon, il vecchio Giacomo si fermò e gli disse: “Mseridon, povero ragazzo, io sono qui da quasi cento anni e di quanti io trovai o entrarono dipoi nessuno è mai uscito. Tale è la nostra malattia. Ma anche qui, vedrai, possiamo vivere. C’è chi lavora, c’è chi ama, c’è chi scrive poesie, c’è il sarto, c’è il barbiere. Si può anche essere felici, per lo meno non si è molto più infelici degli uomini di fuori. Tutto sta nel rassegnarci. Ma guai, Mseridon, se l’animo si ribella e non si adatta e pretende una guarigione assurda, allora ci si riempie il cuore di veleno”. E così dicendo il vecchio scuoteva il suo bel pennacchio bianco.

“Ma io” ribatté Mseridon “io ho bisogno di guarire, io sono ricco, se tu salissi sulle mura potresti vedere il mio palazzo, ha due cupole d’argento che scintillano. Laggiù ci sono i miei cavalli che mi aspettano, e i miei cani, e i miei cacciatori, e anche le tenere schiave adolescenti mi aspettano che torni. Capisci, saggio bastoncello, io ho bisogno di guarire.”
“Se per guarire bastasse averne bisogno, la cosa riuscirebbe molto semplice” fece Giacomo con una bonaria risatina. “Chi più chi meno, tutti sarebbero guariti.”
“Ma io” si ostinò il giovane “io per guarire ho il mezzo, che gli altri non conoscono.”
“Oh lo immagino” fece Giacomo “ci sono sempre dei bricconi che ai nuovi venuti offrono a caro prezzo unguenti segreti e prodigiosi per guarire. Anch’io ci cascai quando ero piccolo.”
“No, non uso unguenti io, io adopero semplicemente la preghiera.”
“Tu preghi Dio che ti guarisca? E sei perciò convinto di guarire? Ma tutti noi preghiamo, cosa credi? Non passa sera che non si rivolga il pensiero a Dio. Eppure chi…”
“Tutti pregate, è vero, ma non come me. Voi alla sera andate ad ascoltare il notiziario della sentinella, io invece prego. Voi lavorate, studiate, giocate a carte, voi vivete come vivono pressa poco gli altri uomini, io invece prego, tranne il tempo strettamente indispensabile per mangiare, bere e dormire, io prego senza soluzione di continuità e del resto anche mentre mangio io prego e perfino mentre dormo; tanta è infatti la mia volontà che da qualche tempo sogno di essere inginocchiato e di pregare. La preghiera che fate voi è uno scherzo. L’autentica preghiera è una fatica immensa, io alla sera arrivo estenuato dallo sforzo. E come è duro all’alba, appena sveglio, riprendere subito a pregare, la morte talora mi sembra preferibile. Ma poi mi faccio forza e mi inginocchio. Tu, Giacomo, che sei vecchio e saggio, dovresti saperle queste cose. ”

A questo punto Giacomo cominciò a dondolare come se stentasse a mantenere l’equilibrio e calde lacrime rigarono la sua scorza cinerina.
“È vero, è vero” singhiozzava il vecchio “anch’io quando avevo la tua età… anch’io mi gettai nella preghiera e tenni duro sette mesi e già le piaghe si chiudevano e la pelle tornava bella liscia… stavo guarendo… Ma a un tratto non ce la feci più e tutta la fatica andò perduta… lo vedi in che stato son ridotto…”
“E allora” disse Mseridon “tu non credi che io…”
“Dio ti assista, non posso dirti altro, che l’Onnipotente ti dia forza” mormorò il vecchio, e a piccoli saltelli si avviò alle mura, dove la folla era riunita.

Chiuso nella sua capanna, Mseridon continuò a pregare, insensibile ai richiami dei lebbrosi. A denti stretti, col pensiero fisso a Dio, tutto in sudore per lo sforzo, lottava contro il male e a poco a poco ie immonde croste si accartocciavano al bordo e poi cadevano, lasciando che la Carne sana rinascesse. Intanto la voce si era sparsa e attorno alla capanna stazionavano sempre gruppi di curiosi. Mseridon aveva ormai fama di santo.

Avrebbe vinto o tanto impegno non sarebbe servito a niente? Si erano formati due partiti, pro e contro il giovane ostinato. Finché, dopo quasi due anni di clausura, Mseridon un giorno uscì dalla capanna. Il sole finalmente gli illuminò la faccia, la quale non aveva più segni di lebbra, non assomigliava ai muso di un leone, bensì risplendeva di bellezza.
“È guarito, è guarito!” gridò la gente incerta se mettersi a piangere di gioia o lasciarsi divorare dall’invidia. Era guarito infatti Mseridon ma per poter lasciare il lebbrosario doveva avere un documento.

Andò dal medico fiscale che faceva ogni settimana l’ispezione, si spogliò e si fece visitare.
“Giovanotto, puoi dirti fortunato” fu il responso “devo ammettere che sei quasi guarito.”
“Quasi? Perché” chiese il giovane con amara delusione.
“Guarda, guarda qui la brutta crosticina” fece il medico additando con una bacchetta, per non toccarlo, un puntino colore della cenere non più grande di un pidocchio, sul mignolo di un piede “bisogna che tu elimini anche questa se vuoi che io ti lasci libero.”
Mseridon tornò alla sua capanna e mai seppe neppur lui come fece a superare lo sconforto. Credeva di essere ormai salvo, aveva allentato tutte le energie, già si apprestava al premio: e doveva invece riprendere il calvario.

“Coraggio” lo incitava il vecchio Giacomo “ancora un piccolo sforzo, il più l’hai fatto, sarebbe pazzesco rinunciare proprio adesso.”
Era una rugosità microscopica sui mignolo ma sembrava che non volesse arrendersi. Un mese e poi due mesi di ininterrotta potentissima preghiera. Niente. Un terzo, un quarto, un quinto mese.
Niente. Mseridon stava per mollare quando una notte, passandosi, come faceva ormai meccanicamente, una mano sul piede malato, non incontrò più la crosticina.

I lebbrosi lo portarono in trionfo. Era ormai libero. Dinanzi al corpo di guardia ci furono i commiati. Poi soltanto il vecchio Giacomo, saltellando, lo accompagnò alla porta esterna. Furono controllati i documenti, la chiave cigolò girando nella serratura, la sentinella spalancò la porta.

Apparve il mondo nel sole del primo mattino, così fresco e pieno di speranze. I boschi, le praterie verdi, gli uccellini che cantavano, e in fondo biancheggiava la città con le sue torri candide, le terrazze orlate di giardini, gli stendardi fluttuanti, gli altissimi aquiloni a forma di draghi e di serpenti; e sotto, che non si vedevano, miriadi di vite e di occasioni, le donne, le voluttà, i lussi, le avventure, la corte, gli intrighi, la potenza, le armi, il regno dell’uomo!

Il vecchio Giacomo osservava la faccia del giovane, curioso di vederla illuminata dalla gioia. Sorrise infatti Mseridon al panorama della libertà. Ma fu un istante. Subito il giovane cavaliere impallidì.
“Che hai?” gli chiese il vecchio supponendo che l’emozione gli avesse tolto il fiato. E la sentinella: “Su, su svelto, giovanotto, passa fuori che io devo subito richiudere, non ti farai pregare, spero!”
Invece Mseridon fece un passo indietro e si coprì gli occhi con le mani: “Oh è terribile!”
“Che hai?” ripeté Giacomo. “Stai male?”
“Non posso!” disse Mseridon. Dinanzi a lui, di colpo, la visione era cambiata. E al posto delle torri e delle cupole, giaceva adesso un sordido groviglio di catapecchie polverose, grondanti di sterco e di miseria, e invece degli stendardi, sopra i tetti, nugoli caliginosi di tafani come un infetto polverone.

Il vecchio domandò: “Che cosa vedi, Mseridon? Dimmi: vedi marcio e luridume dove prima tutto era glorioso? Al posto dei palazzi vedi ignobili capanne? È cosi, Mseridon?”
“Sì, sì, tutto è diventato orribile. Perché? Cosa è successo?”
“Io lo sapevo” fece il patriarca “lo sapevo ma non osavo dirtelo. Questo è il destino di noi uomini, tutto si paga a caro prezzo. Non ti sei mai chiesto chi ti dava la forza di pregare? Le tue preghiere erano di quelle a cui non resiste neanche la collera del cielo. Tu hai vinto, sei guarito. E adesso paghi.”
“Pago? E perché?”
“Perché era la grazia che ti sosteneva. E la grazia dell’Onnipotente non risparmia. Sei guarito ma non sei più lo stesso di una volta. Di giorno in giorno, mentre la grazia lavorava in te, senza saperlo tu perdevi il gusto della vita. 

Tu guarivi, ma le cose per cui smaniavi di guarire a poco a poco si staccavano, diventavano fantasmi, cimbe natanti sopra il mar degli anni! Io lo sapevo. Credevi di essere tu a vincere, e invece era Dio che ti vinceva. Così hai perso per sempre i desideri. Sei ricco ma adesso i soldi non ti importano, sei giovane ma non ti importano le donne. La città ti sembra un letamaio. Eri un gentiluomo, sei un santo, capisci come il conto torna? Sei nostro, finalmente, Mseridon! L’unica felicità che ti rimane è qui tra noi, lebbrosi, a consolarci… Su, sentinella, chiudi pure la porta, noi rientriamo.”
La sentinella tirò a sé il battente.

- Dino Buzzati - 

dalla raccolta “Sessanta racconti”


Padre Damiano de Veuster (1840-1889) era missionario nelle isole Sandwich. 

Lì sentì parlare dell’« Isola maledetta », Molokai, dove venivano segregati e abbandonati alla morte i lebbrosi. 

Aveva allora 33 anni, era sano e faceva ovunque un mucchio di bene. Ma volle rinchiudersi in quell’isola del dolore e condividere in tutto la vita di 800 lebbrosi. 

A forza di sacrifici, di solidarietà e d’amore trasformò quell’inferno di morte in un sereno angolo di pace e di rassegnazione; fu così che l’imitazione di Gesù gli donò la vita eterna: morì lebbroso tra i suoi lebbrosi.



La malattia di Hansen meglio conosciuta come lebbra è una malattia infettiva causata da un batterio bacilliferico chiamato Mycobacterium leprae. È una malattia che colpisce principalmente il sistema nervoso periferico, la pelle, il tratto respiratorio e il sistema oculare. Oggi è una malattia che ha una cura fintanto che viene rilevata nelle prime fasi per evitare la morte e l'invalidità, sebbene nei tempi antichi fosse una delle cause della mortalità.

A livello storico, la lebbra è stata una malattia molto antica in cui i malati venivano trattenuti nel lebbrosario e venivano spesso ripudiati dalla società per paura del contagio. Un punto di svolta nella gestione di questa patologia fu negli anni '1940 quando fu sviluppato un farmaco chiamato "dapsone".

È stato un trattamento cronico o per molti anni che ha reso difficile aderire al trattamento. Il problema si manifestò intorno al 1960 quando il Mycobacterium Leprae sviluppò un farmaco di resistenza, quindi i nuovi farmaci dovettero essere riqualificati. Fu allora che furono scoperte rifampicina e clofazimina che permisero di trattare di nuovo efficacemente questa malattia.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1981 ha raccomandato un trattamento multimedicamento con dapsone, clofazimina e rifampicina con una durata compresa tra 6 e 12 mesi a seconda del tipo di bacillo. Questo trattamento consente al paziente di essere curato e di sterminare il Mycobacterym Leprae.

Sebbene dal 2000 la lebbra non sia considerata un problema di salute pubblica, l'Organizzazione Mondiale della Sanità offre attualmente un trattamento gratuito a tutti i pazienti affetti da lebbra.

 Il bacillo Mycobacterium Leprae si riproduce molto lentamente, quindi il periodo di incubazione può arrivare fino a cinque anni, facendo sì che la sintomatologia impieghi fino a un anno e anche venti nei casi più lenti. Ciò può rendere difficile dove e quando la malattia potrebbe essere contratta.

Un'alta percentuale di persone che entrano in contatto con il bacillo non sviluppa la malattia perché il sistema immunitario è in grado di far fronte all'infezione.

Il modo di trasmissione della malattia di Hansen è attraverso le goccioline di Flügge (le goccioline che si diffondono tossendo o parlando) quando una persona è infetta o per contatto con i fluidi corporei di una persona infetta.

Secondo gli ultimi dati, nel 2017 sono stati registrati 211.009 casi di lebbra in tutto il mondo secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità.

 

Bibliografia:

who.int Organizzazione mondiale della sanità [Internet] Centro stampa, note descrittive. [aggiornato il 10 settembre 2019, citato il 9 gennaio 2020]. Disponibile su: https://www.who.int/es/news- room / fact-sheet / detail / leprosy

Medlineplus.gov. Biblioteca nazionale di medicina degli Stati Uniti. [Internet] Enciclopedia medica. [aggiornato il 27 settembre 2017, citato il 9 gennaio 2020]. Disponibile su: https://medlineplus.gov/spanish/ency/article/001347.htm



Buona giornata a tutti :-)




 


martedì 15 dicembre 2020

Racconto di Natale - Dino Buzzati

Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? 
Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, il carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata di vento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale".
"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. 
Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. 
Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo,  si fece, se era possibile, ancora più pallido.

"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"

- Dino Buzzati -




Ti attendo, Signore, nella quiete e nel silenzio, Con una grande nostalgia nel cuore, con un desiderio insopprimibile.

- Dal Diario di Suor Faustina -



Buona giornata a tutti. :-)



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