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martedì 27 febbraio 2018

Il Povero e i Poveri da: "Diario di un curato di campagna" - Georges Bernanos

È la parola più triste dell'Evangelo, la più carica di tristezza. 
Prima di tutto, è rivolta a Giuda.
Giuda! San Luca ci riferisce che teneva i conti e che la sua contabilità non era pulitissima; e sia pure! Ma infine era il banchiere dei Dodici; e chi ha mai visto in regola la contabilità d'una banca? 
È probabile che gravasse un po' sulla provvigione, come tutti. A giudicare dalla sua ultima operazione, non sarebbe stato un brillante commesso d'agente di cambio, Giuda. 
Ma il buon Dio prende la nostra povera società qual è; al contrario di quello che fanno i buffoni che ne fabbricano una sulla carta, poi la riformano a tutta forza, sempre sulla carta, beninteso!
A dirla in breve, Nostro Signore conosceva benissimo il potere del danaro; e ha fatto accanto a sé un posticino al capitalismo; gli ha lasciato le sue possibilità; ha fatto persino il primo deposito di fondi. 
Trovo tutto questo prodigioso, che vuoi! Così bello! Dio non disprezza nulla.
Dopo tutto, se l'affare fosse andato bene, Giuda avrebbe probabilmente sovvenzionato dei sanatori, degli ospedali, delle biblioteche o dei laboratori. Avrai osservato che già s'interessava al problema del pauperismo, come un milionario qualsiasi. «Ci saranno sempre dei poveri tra voi» risponde Nostro Signore, «ma io non sarò sempre con voi». 
Il che significa: Non lasciar suonare invano l'ora della misericordia. Tu farai meglio a restituire immediatamente il danaro che m'hai rubato, invece di cercar di montare la testa dei miei apostoli con le tue speculazioni immaginarie sui fondi di profumeria e sui tuoi progetti d'opere sociali.
Per di più, credi di lusingare così il mio conosciutissimo gusto per i senzatetto; e sbagli completamente. 
Io non amo i miei poveri come le vecchie inglesi amano i gatti sperduti, o i tori delle corride. Sono abitudini da ricchi, codeste. 
Io amo la povertà d'un amore profondo, riflessivo, lucido - da uguale a uguale - come una sposa dal fianco fecondo e fedele. 
L’ho coronata con le mie proprie mani. Non le fanno onore tutti quelli che vogliono, e chi non ha prima rivestito la bianca tunica di lino non può servirla. 
Il pane dell'amarezza non può romperlo con lei chiunque voglia farlo. 
Ho voluto che sia umile e fiera, non servile. Non rifiuta il bicchiere d'acqua, purché sia offerto in mio nome; ed è in nome mio che lo riceve.
Se il povero traesse il suo diritto soltanto dalla necessità, il vostro egoismo lo avrebbe presto condannato allo stretto necessario, pagato con una riconoscenza e una servitù eterne. Così, oggi tu ti adiri contro questa donna che ha irrorato i miei piedi con un nardo pagato carissimo, come se i miei poveri non dovessero mai profittare dell'industria dei profumieri.
Sei proprio di quella razza di persone che, avendo dato due soldi a un vagabondo, si scandalizzano di non vederlo precipitarsi sull'istante dal fornaio, a riempirsi di pane raffermo che il commerciante, d'altronde, gli venderebbe come pane fresco. 
Al posto suo, andrebbero anche loro dal mercante di vino, giacché il ventre d'un miserabile ha più bisogno d'illusione che di pane. Disgraziati!
L’oro, a cui date tanta importanza, è forse qualcosa di diverso da un'illusione, da un sogno, e spesso soltanto dalla promessa d'un sogno? 
La povertà grava molto sulle bilance del mio Padre Celeste, e tutti i vostri tesori di fumo non ne equilibreranno i piattelli. 
Ci saranno sempre dei poveri, tra voi, per questa ragione: che vi saranno sempre dei ricchi, cioè degli uomini avidi e duri, i quali cercano meno il possesso che la potenza. 
Di questi uomini ve n'è tra i poveri come tra i ricchi; e il miserabile che smaltisce in un rigagnolo la sua ubriachezza forse è gonfio degli stessi sogni del Cesare addormentato sotto le cortine di porpora.
Ricchi o poveri, guardatevi piuttosto nella povertà come in uno specchio; poiché essa è l'immagine della vostra fondamentale delusione; essa conserva quaggiù il posto del Paradiso perduto, è il vuoto dei vostri cuori, delle vostre mani. 
L’ho messa così in alto, l'ho sposata, incoronata, solo perché conosco la vostra malizia.
Se avessi permesso che la consideraste come una nemica, o solo come una straniera, se vi avessi lasciato la speranza di cacciarla un giorno dal mondo, avrei nello stesso momento condannato i deboli. 
Giacché i deboli saranno sempre, per voi, un fardello insopportabile, un peso morto che le vostre orgogliose civilizzazioni si mandano dall'una all'altra, con ira e disgusto. 
Ho posto il mio segno sulla loro fronte, e voi non osate più avvicinarli altro che strisciando, divorate la pecora spersa, non oserete mai più attaccare il gregge. 
Basterebbe che il mio braccio si allontanasse un momento perché la schiavitù, che odio, risuscitasse da sé: poiché la vostra legge tiene i suoi conti in regola, e il debole non può dare altro che la propria pelle.

- Georges Bernanos -
da: "Diario di un curato di campagna", pp. 54-56




«La mia idea di felicità è soprattutto anticonsumistica. 
Hanno voluto convincerci che le cose non durano e ci spingono a cambiare ogni cosa il prima possibile. Sembra che siamo nati solo per consumare e, se non possiamo più farlo, soffriamo la povertà. 
Ma nella vita è più importante il tempo che possiamo dedicare a ciò che ci piace, ai nostri affetti e alla nostra libertà. E non quello in cui siamo costretti a guadagnare sempre di più per consumare sempre di più. 
Non faccio nessuna apologia della povertà, ma soltanto della sobrietà.»


José Pepe Mujica, dall'intervista di Omero Ciai, Mujica e "l'apologia della sobrietà": "Chi accumula denaro è un malato. La ricchezza complica la vita", Repubblica.it, 6 novembre 2016



“Se discutete con un pazzo, è oltremodo probabile che abbiate la peggio: perchè il suo cervello cercherà tutte le strade per non essere trattenuto da argomenti che lo condurrebbero a un retto giudizio. 
Egli non è trattenuto dal senso del ridicolo o dal sentimento della carità o dalle mere certezze dell’esperienza. 
Egli è tanto più logico quanto più ha perduto ogni affetto sano. 
La frase con la quale generalmente si designa la pazzia è sotto questo aspetto sbagliata. 
Il pazzo non è già l’uomo che ha perduto la ragione, ma l’uomo che ha perduto tutto fuor che la ragione. 
La sua mente si muove in un cerchio perfetto ma ristretto. Un cerchio piccolo è infinito, come un cerchio grande; ma, pur essendo ugualmente infinito, non è ugualmente grande. 
Allo stesso modo una spiegazione assurda è completa come una spiegazione giusta, ma non abbraccia un campo altrettanto vasto. 
Una pallottola è tonda come il mondo, ma non è il mondo”.

- Gilbert Keith Chesterton - 
da: “Ortodossia”)



Buona giornata a tutti. :-)





martedì 23 gennaio 2018

Incontro con il lebbroso – Tommaso da Celano

17. "Poi, come vero amante della umiltà perfetta, il Santo si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente, come egli stesso dice nel suo Testamento: 'Quando era ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore mi condusse tra loro e con essi usai misericordia'. La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria.
Quand'era ancora nel mondo e viveva vita mondana, egli si occupava dei poveri, li soccorreva generosamente nella loro indigenza e aveva affetto di compassione per tutti gli afflitti. Una volta, che aveva respinto malamente, contro la sua abitudine, poiché era molto cortese, un povero che gli aveva chiesto l'elemosina, pentitosi subito, ritenne vergognosa villania non esaudire le preghiere fatte in nome di un Re così grande. Prese allora la risoluzione di non negar mai ad alcuno, per quanto era in suo potere, qualunque cosa gli fosse domandata in nome di Dio. E fu fedele a questo proposito, fino a donare tutto se stesso, mettendo in pratica anche prima di predicarlo il consiglio evangelico: Dà a chi ti domanda qualcosa e non voltar le spalle a chi ti chiede un prestito (Mt 5,42)."

- Tommaso da Celano -
Fonte: Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d'Assisi, nn. 348-349




„Il mondo circostante era, come si è già notato, un groviglio di dipendenze familiari, feudali, e altre. L'idea complessa di San Francesco era che i Piccoli Frati dovessero essere come pesciolini, liberi di muoversi a proprio piacimento in quella rete. E potevano farlo proprio per il loro essere piccoli e perciò guizzanti. [... ] 
Calcolando, per così dire, su questa astuzia innocente, il mondo era destinato ad essere circuito e conquistato da lui, e impacciato nel reagire alla sua azione. 
Non si poteva di certo lasciar morire di fame un uomo continuamente votato al digiuno, né lo si sarebbe potuto distruggere e ridurre alla miseria, poiché era già un mendicante. 
Vi sarebbe stata una soddisfazione ben scarna anche nel percuoterlo con un bastone, poiché egli si sarebbe lasciato andare a salti e canti di gioia, essendo l'umiliazione la sua unica dignità. 
E nemmeno lo si sarebbe potuto impiccare, perché il cappio sarebbe divenuto la sua aureola".


- Gilbert Keith Chesterton - 
da: " Francesco", VII



4 ottobre, ed il serafico padre migra da questa vita a Dio.

Si fa deporre "nudo a terra" e "sembrava l'immagine del crocifisso".
Passa con facilità da questo mondo al Padre, com'è invece difficile attraversare "sorella nostra morte corporale" se non si è trovati nudi delle cose di questo mondo. "Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali" ed invece felici "quilli ke trovarà ne li toi santissime volontade ke lla morte seconda no li farà male".
A lui non ha fatto male, anzi.




Buona giornata a tutti. :-)




lunedì 25 dicembre 2017

Natale e disarmo - Gilbert Keith Chesterton

Non riesco mai a capire com’è che quando i giornali nominano il Natale e i suoi insegnamenti cominciano subito a parlare del disarmo internazionale. 
È senz’altro un ideale del Natale che cessino le guerre ingiuste, ma anche e altrettanto che cessino i governi ingiusti, i commerci ingiusti, i processi ingiusti o qualunque altro dei modi innumerevoli con cui gli uomini torturano e tradiscono la loro razza. 
La consueta e popolare traduzione del canto degli angeli è “Pace sulla terra, buona volontà tra gli uomini”. 
A parte l’accuratezza, forse vale la pena sottolineare che le due cose sono molto diverse. 
La pace sulla terra potrebbe anche indicare un panico immoto, il giacere prostrati dinnanzi a un tiranno universale. 
Pace sulla terra potrebbe significare che ogni uomo odia il suo vicino ma lo teme un pelino in più di quanto lo odia. “Fanno una desolazione e la
chiamano pace”. 
Così diceva il vecchio satirista romano; ma il silenzio di cui parlava era perlomeno un silenzio di tomba. 
Ma se noi facessimo un silenzio di vivi, un silenzio di milioni di schiavi muti... e lo chiamassimo pace?... 
Mi sono abituato ai milionari che impongono la guerra. 
Ma se cominciano a imporre la pace mi ribello senz’altro.

- Gilbert Keith Chesterton - 
da: Natale e disarmo, in La Divina poltrona e altre comodità, Leardini


Della nascita in terra del Figlio di Dio, al tempo suo, non si è accorto nessuno. Né Roma con il suo diritto e la sua forza politica né Atene con le disquisizioni dei suoi filosofi né Gerusalemme con tutta la sua schiera di biblisti sono state in grado di percepire e apprezzare l’ingresso nella vicenda umana dell’eterno Creatore dell’universo. 
Come si vede, Dio si diverte a giocare le potenze del mondo, le autorità culturali e le celebrità: vanifica le loro orgogliose competenze, sa eludere la loro attenzione; per rivelarsi ai piccoli e all’umanità intera non si avvale delle loro preziose mediazioni. 

- Card. Giacomo Biffi -
(Natale 1990)


...."Un giorno santo è spuntato per noi". 
Un giorno di grande speranza: oggi è nato il Salvatore dell'Umanità!...
Non fu certo "grande" alla maniera di questo mondo...
Eppure, nel nascondimento e nel silenzio di quella notte santa, si è accesa per ogni uomo una luce splendida e intramontabile; è venuta nel mondo la grande speranza portatrice di felicità: "il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo visto la sua gloria" (Gv 1,14)...
Questo è il Natale! 

Evento storico e mistero d'amore, che da oltre duemila anni interpella gli uomini e le donne di ogni epoca e di ogni luogo. 
E' il giorno santo in cui rifulge la "grande luce" di Cristo portatrice di pace! Certo, per riconoscerla, per accoglierla ci vuole fede, ci vuole umiltà...
Nel silenzio della notte di Betlemme Gesù nacque e fu accolto da mani premurose. Ed ora, in questo nostro Natale, in cui continua a risuonare il lieto annuncio della sua nascita redentrice, chi è pronto ad aprirgli la porta del cuore? 

Uomini e donne di questa nostra epoca, anche a noi Cristo viene a portare la luce, anche a noi viene a donare la pace! 
Ma chi veglia, nella notte del dubbio e dell'incertezza, con il cuore desto e orante? 
Chi attende l'aurora del giorno nuovo tenendo accesa la fiammella della fede? Chi ha tempo per ascoltare la sua parola e lasciarsi avvolgere dal fascino del suo amore? 
Sì! E' per tutti il suo messaggio di pace, è a tutti che viene ad offrire se stesso come certa speranza di salvezza...

- papa Benedetto XVI - 
dal "Messaggio Urbi et Orbi" per il Santo Natale 25 dicembre 2007

"Lasciate che la magia del Natale pervada le vostre anime, accendendo l’amore nei vostri cuori. Buon Natale!"




L'augurio è per un sereno Natale a voi tutti, amici ed amiche,
che da tanti anni seguite le mie.... fantasie, le mie letture, le mie ricerche.

Il Signore che tutto vede e tutto ama ci benedica e ci custodisca.

- Stefania -

sabato 23 dicembre 2017

Buon Natale dal Cardinale Carlo Maria Martini

Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. 
Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. 
Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v’è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. 
Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po’ meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita. 
Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. 
Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. 
Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l’affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così. 
La prima lettera espone bene questo stato di cose. 
Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi  economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. 
E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora. Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l’ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. 
Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. 
Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. 
È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero. 

Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi
da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. 
Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso
come i Magi. Tutti sono chiamati a partecipare all’esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). 

Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti con costosi regali. 
Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle. 
Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. 

Il bambino Gesù è l’immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). 
Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre. 
Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. 

Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l’agnello immolato.
Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto. 
La liturgia ambrosiana si esprime così:
«L’Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una
gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di
dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe.
 
Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall’atmosfera profondamente umana che in esso si respira.
 
Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» . Buon Natale a tutti!

- Cardinale Carlo Maria Martini - 
da: “Corriere della Sera” del 23 dicembre 2010





Abbiamo bisogno di tempi, di silenzio, di calma, di preghiera, perché soltanto così possiamo affrontare le responsabilità che ci vengono date. Per questo vi ricorderete cosa ho detto in molte occasioni: lavorare meno e lavorare meglio e riposarsi un po' di più.  


- card. Carlo Maria Martini - 




Il Natale è assolutamente inadatto al mondo moderno.
Presuppone la possibilità che le famiglie siano unite,
o si riuniscano, e persino che gli uomini e le donne
che si sono scelti si parlino.
Il Natale continua a ergersi dritto, integro e spiazzante.
Il Natale giudica il mondo moderno, perciò vogliono che se ne vada.
  
- Gilbert Keith Chesterton -


Buona giornata a tutti. :-)












venerdì 15 dicembre 2017

Il Natale è un regalo di Dio - Chesterton Gilbert Keith

.... A tal proposito, prendiamo un esempio fra i molti che vedono questo principio in atto: il caso dei regali di Natale. Poco tempo fa, ho letto un’affermazione della signora Eddy sull’argomento: diceva che lei non «faceva regali» nel senso grossolano, sensuale e terreno dell’espressione, ma che si sedeva immobile a pensare alla Verità e alla Purezza in modo che tutti i suoi amici sarebbero diventati, per questo, migliori. 
Adesso, io non dico che questo metodo sia necessariamente superstizioso o inefficace, e non c’è dubbio che, dal punto di vista economico, abbia un suo fascino. 
Dico solo che non è cristiano alla stessa prosaica e concreta maniera di quanto suonare una musica al contrario non sia musicale o usare un’abbreviazione come ain’t non sia grammaticalmente corretto. 

Non so se ci sia un testo della Scrittura o un Concilio che condanni la teoria della signora Eddy sui regali di Natale, ma la condanna sicuramente il cristianesimo, così come la vita militare condanna chi si dà alla fuga.
Le due attitudini – della signora Eddy e del cristianesimo, rispettivamente – non sono solo antagoniste a causa di differenti teologie, o di differenti scuole di pensiero: prima ancora che s’inizi a ragionare, è lo stato d’animo che è differente. 
La più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni; che venga, cioè, messa in un corpo. 
Un regalo di Dio che può essere visto e toccato: se l’epigramma del credo cristiano ha un punto essenziale è questo. Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale. 
Una nota a favore dei regali materiali di Natale è stata buttata giù persino prima della Sua nascita, con i primi spostamenti dei saggi dell’Oriente e della stella: i Tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. 
Se avessero portato con sé solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana.
Questi tre doni sono stati oggetto di chissà quante omelie, ma vi è un loro aspetto cui raramente è stata riconosciuta la giusta e meritata attenzione. 
È alquanto bizzarro che i nostri scettici europei, mentre prendono in prestito dai filosofi orientali così tanto del loro determinismo e della loro disperazione, si prendano anche costantemente gioco dell’unico elemento orientale che il cristianesimo ha entusiasticamente incorporato, l’unico autenticamente semplice e affascinante. Intendo, cioè, l’amore degli orientali per i colori vivaci e l’eccitazione infantile che hanno di fronte al lusso. 
Uno dopo l’altro, gli scettici hanno invariabilmente giudicato la Gerusalemme nuova di san Giovanni un ammasso di gioielli vistosi e di cattivo gusto. 
Uno dopo l’altro, hanno denunciato i riti della Chiesa come esibizioni pacchiane di viola sensuale e d’oro sgargiante. 
In realtà, nelle sue scelte, la Chiesa si dimostrò molto più saggia sia dell’Europa che dell’Asia. 
Si accorse, infatti, che l’appetito orientale per il rosso, l’argento, il verde e l’oro era di per sé innocente e appassionato, sebbene dissipato dalle civiltà inferiori per il loro indulgere alla mollezza e alla tirannia. 
Al contrario, vide insito nella stoica sobrietà di Roma – sebbene apparentata all’equità e allo spirito pubblico della civiltà più elevata che esistesse allora – un latente pericolo di rigidità e di orgoglio. 
La Chiesa prese tutto l’oro multi-sfaccettato e i colori brulicanti che avevano adornato così tante poesie erotiche e tante crudeli storie d’amore in Oriente, e con quella congerie variopinta di fiaccole illuminò le gigantesche dimensioni dell’umiltà e le più grandi cromie dell’innocenza. 
Prese i colori dalla schiena del serpente, lasciando perdere, però, il serpente.
Il popolo europeo ha, nel suo insieme, seguito in questo la guida dell’istinto e dell’arte cristiani. 
Niente tira più su di morale per la nostra tradizione popolare del guardare l’Oriente come a un insieme di forme pittoresche e di colori, piuttosto che a un sistema filosofico rivale. Sebbene sia, di fatto, un tempio di vetuste cosmologie, noi lo trattiamo come un grande bazar, cioè come un enorme negozio di giocattoli. 
Alla gente comune, pensando al Vicino Oriente, vengono più spesso in mente le Notti arabe, piuttosto che il Profeta arabo. 
Costantinopoli fu conquistata da una cultura saracena che, a quel tempo, era immensamente inferiore alla nostra. Ciononostante, noi ci preoccupiamo non della cultura dei Turchi, ma dei loro tappeti. 
Per anni, un certo ironico agnosticismo ha pervaso l’Impero Celeste. Ma noi Europei non ci informiamo sugli enigmi della Cina, ma solo sui loro puzzle. Consideriamo l’Oriente come una sorta di colossali grandi magazzini, e facciamo bene. 

È la cosa che dell’Oriente è più cordiale e più umano, ed è ciò che qualcuno chiama «violenza dei suoi colori» e «cattivo gusto delle sue gemme».
Solo dagli stessi scettici moderni, che ci propongono la tetra visione del mondo dell’Oriente miscelata ai più tetri costumi dell’Occidente, potremo sapere quanto cattive siano le altre cose orientali; la ruota del destino mentale, per esempio, o le lande desolate dei dubbi della mente. 
Schopenhauer ci mostra il veleno del serpente senza la sua lucentezza; tutt’al contrario, la Chiesa dei primi secoli ce ne aveva invece mostrato la lucentezza senza il veleno. Cioè la lucentezza che la Cristianità era riuscita a estrarre dal groviglio delle cose orientali. 
L’oro si è diffuso veloce come il fuoco nella foresta fino a lambire ogni manoscritto e ogni statuto, e ha cinto stretta la testa di ogni re e di ogni santo. Ma tutto ciò ebbe origine da quel mucchietto d’oro che Melchiorre portò con sé quando attraversò il deserto per giungere a Betlemme.
Gli altri due doni sono ancor più contrassegnati dal grande segno del cristianesimo: l’apprezzamento dell’esperienza sensoriale e di ciò che è materiale. 
C’è persino qualcosa di sfacciatamente carnale nell’appello che l’incenso e la mirra fanno al senso dell’olfatto. 

Il naso non è tagliato fuori dal resto del divino corpo umano. La dignità di un organo che appare comico, per la mentalità moderna, quanto la proboscide di un elefante è invece riconosciuta con molta disinvoltura nell’immaginario orientale.
Comunque, tanto per dare un colpo al cerchio dopo averlo dato alla botte, se questa forma di asiatica luxuria è ammessa nel mistero cristiano, è solo per subordinarla a una semplicità e a una sobrietà superiore. 
L’oro è portato in una stalla; i re devono andare in cerca di un falegname. 
I Magi sono in cammino, non per trovare la saggezza, ma piuttosto una forte e santa ignoranza. 
Quegli uomini saggi provenivano dall’Oriente, ma si diressero verso Occidente per incontrare Dio.
Oltre a questa qualità tangibile e incarnata che rende i regali di Natale così squisitamente cristiani, c’è un altro elemento che ha un effetto spirituale analogo: intendo ciò che potremmo chiamare il loro particolarismo, la loro peculiare singolarità. 

Ancora una volta, a questo proposito, le nuove teorie – di cui la Scienza Cristiana è la più estesa e lucida – approdano a conclusioni sorprendentemente diverse, anzi opposte: la moderna teologia proverà a convincerci che il Bambino di Betlemme è solo un’astrazione che rappresenta la totalità dei bambini, e la Madre di Nazareth solo un simbolo metafisico della maternità.
La verità è un’altra: la narrazione della Natività ha un valore pienamente universale proprio perché riguarda una sola madre e un solo figlio, singoli e concreti. 
Infatti, se Betlemme non fosse particolare, non sarebbe popolare. Immaginiamo una canzone d’amore per una donna altezzosa, talmente penetrante e letale che nessun uomo – dal più umile che spinge l’aratro al principe in sella – possa fare a meno di cantarla da mane a sera; ognuno, senza eccezioni, smetterebbe immediatamente se dicessi loro che la canzone non era stata composta per una donna in particolare, ma solo, genericamente, per le donne in astratto.
Il Natale, persino nei riti più comici e casalinghi delle calze di Natale e delle scatole dei regali, è pervaso da questa particolare idea di patto d’intimità fra Dio e l’uomo – un cappello divino che si adatta perfettamente alla testa dell’uomo. Il cosmo è concepito come un ufficio postale centrale e celeste. 
Il sistema postale è, di fatto, rapido e vasto; ciononostante i pacchi vengono consegnati tutti, integri e sigillati. 
I regali di Natale sono simbolo di una protesta permanente fatta per conto del «dare» come distinto da quel mero «condividere» che i moderni sistemi di valore presentano come equivalente o superiore al primo. 

Il Natale rappresenta questo eccezionale e sacro paradosso: dal punto di vista spirituale, se Tommy e Molly si dessero a vicenda una moneta da sei penny, compirebbero una transazione di valore superiore rispetto alla condivisione di uno scellino.
Il Natale è qualcosa di meglio che una cosa per tutti: è una cosa per ognuno. 
E a chi trovi queste frasi inutili o stravaganti, o pensi che non vi sia fra di esse alcuna differenza se non la ricercatezza delle parole, l’unico riscontro possibile è quello che ho già indicato, cioè sottoporre la questione alla prova – dal valore stabile e duraturo – del popolino. 
Prendiamo cento ragazze a caso in una scuola e verifichiamo se non fanno alcuna distinzione fra il ricevere un fiore ciascuna o, al contrario, un giardino per tutte. 
Se pertanto queste nuove scuole di spiritualità intendono dimostrare di possedere lo spirito e il segreto delle feste cristiane, devono almeno provarlo non con affermazioni astratte, ma con un ceffone di quelli speciali e inequivocabili, che lascino un segno pungente e duraturo, per esempio dimostrando di essere in grado di scrivere un canto di Natale o, addirittura, di saper cucinare una torta di Natale.

- Chesterton Gilbert Keith - 
da "Teologia dei regali di Natale (1910) dalla raccolta "Lo spirito di Natale, D'Ettoris Editori



«Canto di Natale»


Nel grembo di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una luce
(stanco e disfatto è il mondo, ma qui tutto
proprio tutto va bene).
Sul seno di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una stella
(sono astiosi e astuti tutti i re
ma qui sinceri i cuori).
Sul cuore di Maria giaceva il Bimbo
ed era la sua chioma come il fuoco
(stanco è il mondo, ma del mondo
è questo il desiderio).
Stava Cristo ai ginocchi di Maria
la sua chioma pareva una corona.
E tutti i fiori a lui guardavan su
tutte le stelle giù.

- Gilbert  Keith Chesterton -
(Londra 1874 – Beaconsfield 1936)



martedì 10 ottobre 2017

Gilbert Keith Chesterton "La nonna del drago"

L’altro giorno ho incontrato un tale che non credeva alle favole. 
Non intendo dire che non credesse negli eventi narrati in esse – che non credesse cioè che una zucca possa trasformarsi in una carrozza. 
Egli, certamente, coltivava questa bizzarra incredulità, ma ancor più, come tutte le persone simili da me incontrate, non riusciva nel modo più assoluto a darmene una motivazione intelligente. 
Provò con le leggi di natura, ma presto le lasciò perdere. Poi disse che le zucche, nell’esperienza ordinaria, sono inalterabili, e che tutti noi crediamo nella qualità infinitamente prolungata del loro essere zucche. 
Ma io gli feci notare che adottiamo questo atteggiamento non verso i prodigi impossibili, ma semplicemente verso tutti gli avvenimenti insoliti. Se fossimo certi dei miracoli non crederemmo in essi. 
Noi tutti lasciamo fuori dai nostri calcoli le cose che accadono molto raramente, siano esse miracolose o no. 
Io non mi aspetto che un bicchiere d’acqua si trasformi in vino, ma neppure mi aspetto che un bicchiere d’acqua sia avvelenato con l’acido prussico. 
Nelle relazioni d’affari ordinarie non mi baso sulla supposizione che l’editore sia un essere magico, ma neppure suppongo che possa essere una spia russa, o l’erede perduto del Sacro Romano Impero. 
Ciò che assumiamo nelle nostre azioni non è che l’ordine naturale sia inalterabile, ma semplicemente che è molto più sicuro scommettere su eventi non comuni che su quelli comuni. 
Questo non va a toccare la credibilità di ogni racconto che attesti una spia russa o una zucca tramutata in carrozza. 
Se anche io avessi visto con i miei occhi una zucca tramutata in un’autovettura Panhard, non per questo riterrei più probabile che la stessa cosa possa accadere ancora. Non investirei in larga scala sulle zucche per fare affari nel commercio di automobili. 
Cenerentola ebbe dalla fata un abito per il ballo, ma non credo che per questo motivo da lì in avanti si preoccupò di meno dei propri vestiti.
In ogni caso, per quanto pazza sia, l’opinione che le fiabe non siano realmente accadute è tuttavia comune. 
L’uomo di cui sto parlando si rifiutava di prestar fede alle fiabe in un senso addirittura più sorprendente e perverso: sosteneva che le fiabe non dovessero essere raccontate ai bambini. 
Questo, alla pari dell’appoggiare la schiavitù o l’invasione di un paese, è uno di quegli errori intellettuali che si avvicinano di molto al peccato mortale. Esistono dei rifiuti che, pur praticati con ciò che si chiama buona fede, nel loro stesso esercizio trascinano così tanto del proprio orrore che un uomo, nel commetterli, non arriva solo ad indurire il cuore, ma, lievemente, a corromperlo. 
Uno di questi fu il rifiutare il latte alle giovani madri mentre i loro mariti erano sul campo di battaglia contro di noi. Un altro è il privare delle favole i bambini.
Quell’uomo era venuto a trovarmi per via di qualche sciocca associazione di cui io sono un membro entusiasta; era un giovane dal colorito brillante ma miope come un curato che si è smarrito e non riesce neppure a ritrovare la strada per la Chiesa d’Inghilterra. 
Aveva una curiosa cravatta verde e un collo lunghissimo; mi capita sempre di incontrare idealisti con colli simili. Forse è per la loro eterna aspirazione ad innalzare lentamente la testa sempre più verso le stelle. 
O forse è legato al fatto che così tanti di loro sono vegetariani: può darsi che stiano lentamente sviluppando un collo da giraffa per mangiare tutte le cime degli alberi dei Kensington Gardens. 
Queste cose mi superano in ogni senso. Di questa razza, in ogni caso, era il giovane che non credeva alle fiabe, e per una curiosa coincidenza entrò nella mia stanza quando avevo appena terminato di dare un’occhiata ad un mucchio di narrativa contemporanea, e mi ero rifugiato come naturale conseguenza nelle favole di Grimm.
Quei romanzi moderni stavano comunque impilati davanti ai miei occhi, e potete immaginarne da soli i titoli. C’era una “Susan della periferia: un racconto di psicologia”, e anche una “Susan psicologica: un racconto di periferia”; e poi “Trixy: un temperamento” e “L’odio umano: un monocromo” e altre cose così simpatiche. Le avevo lette con reale interesse, ma, cosa abbastanza curiosa, alla fine tutte mi stancarono, e quando vidi le fiabe di Grimm poggiate per caso sulla scrivania me ne uscii in un urlo di gioia indecente. 
Eccoci, finalmente, qui si poteva trovare un po’ di senso comune. 
Aprii il libro, e mi caddero gli occhi su queste parole splendide e appaganti: “La nonna del drago”. Finalmente qualcosa di ragionevole, finalmente qualcosa di vero: “La nonna del drago”! Proprio quando mi preparavo a gustare il primo boccone di ordinaria umanità, guardai davanti all’improvviso e vidi alla porta questo mostro in cravatta verde.
Ascoltai quanto aveva da dire sulla società, abbastanza gentilmente, spero; ma quando incidentalmente fece menzione della sua mancanza di fede nelle fiabe, persi completamente il controllo. 
«O uomo, - dissi, - chi sei tu da non dover credere alle fiabe? È molto più facile credere a Barbablu che a te. Una barba blu è una sfortuna, ma certe cravatte verdi sono peccati. È di gran lunga più facile credere in un milione di favole che credere in un singolo uomo a cui non piacciono. 
Io bacerei Grimm al posto della Bibbia e giurerei su tutte le sue storie come fossero i trentanove articoli piuttosto che affermare seriamente e dal profondo del cuore che possa esistere un uomo come te, e che tu non sia invece una tentazione del diavolo o un’allucinazione proveniente dal nulla. 
Guarda queste parole semplici, familiari, pratiche. “La nonna del drago”: va tutto bene, si raggiunge la razionalità quasi al suo estremo. Se ci fosse un drago, avrebbe una nonna. Ma tu – tu non l’hai avuta una nonna! Se ne avessi conosciuta una, lei ti avrebbe insegnato ad amare le fiabe. 
Non hai avuto un padre, non hai avuto una madre, nessuna causa naturale ti può spiegare. Tu non puoi esistere. Io credo a molte cose che non ho visto, ma di una cosa come te si deve affermare: “Beato colui che pur avendo visto non ha creduto”».
Ebbi l’impressione che egli non mi stesse seguendo con sufficiente finezza, quindi moderai il mio tono. «Non vedi, - gli dissi, - che le fiabe nella loro essenza sono solide e leali, ma che questa infinita finzione sulla vita moderna è nella sua natura sostanzialmente inverosimile? La tradizione di un popolo implica che l’anima sia sana, ma che l’universo sia imprevedibile e pieno di meraviglie. Il realismo finisce invece per dire che il mondo è noioso e si ripete sempre, mentre l’anima è malata e urla di dolore. Il problema posto dalla fiaba è: cosa farà un uomo sano in un mondo fantastico? Il problema del romanzo moderno è: cosa farà un pazzo in un mondo stanco? Nelle fiabe il cosmo impazzisce, ma l’eroe no. Nei romanzi moderni invece l’eroe è già pazzo prima che il libro cominci, e soffre per il rigore rigido e crudele di un cosmo sano. Nell’eccellente “La nonna del drago” e in tutte le altre storie di Grimm, si suppone che il giovane in partenza per un lungo viaggio racchiuda in sé tutte le sostanziali verità: sarà coraggioso, pieno di fede, ragionevole, rispetterà i propri genitori, manterrà la parola data, salverà un certo tipo di persone, ne sconfiggerà un altro, ‘parcere subjectis et debellare’, ecc. A partire da questo centro di sanità lo scrittore si diverte ad immaginare cosa accadrebbe se il mondo intero impazzisse tutto intorno, se il sole diventasse verde e la luna blu, se i cavalli avessero sei zampe e i giganti due teste. Ma la tua moderna letteratura assume la pazzia come proprio centro di gravità, perdendo così interesse per la pazzia stessa. Un lunatico non si sorprende di se stesso, perché affronta le cose seriamente, ed è proprio questo a renderlo lunatico. Un uomo convinto di essere un pezzo di vetro è apatico nei propri confronti come un pezzo di vetro. Un uomo che pensa di essere un pollo si vede comune come un pollo. È solo la sanità che riesce a vedere nella pazzia persino una poesia selvaggia.
Pertanto, queste vecchie fiabe piene di saggezza hanno reso l’eroe ordinario e la storia straordinaria. Ma tu rendi l’eroe straordinario e la storia ordinaria – così ordinaria – oh, così tanto ordinaria!»
Vidi che mi guardava ancora fisso. 
Mi saltò qualche nervo davanti a quello sguardo ipnotico. Balzando in piedi gridai: «In nome di Dio e della Democrazia e della nonna del Drago – in nome cioè di tutte le cose buone – ti ordino di andartene e di non infestare più questa casa». 
Fosse o no il risultato dell’esorcismo, non c’è dubbio che se ne andò via per sempre.

- Gilbert Keith Chesterton -
da:" La nonna del drago"




"Da parte mia vorrei che gli uomini avessero opinioni forti e ben radicate, ma per quanto riguarda la colazione, la facciano qualche volta in giardino, qualche volta a letto, qualche volta sul tetto e qualche volta sull'albero".

- Gilbert Keith Chesterton -
da:" La nonna del drago"




"Tutto sta in una disposizione della mente, e in questo momento io sono in una disposizione molto comoda. Siederò tranquillo e lascerò che prodigi e avventure si posino su di me come mosche. 
Ce ne sono molti, ve l'assicuro. 
Il mondo non morirà mai per assenza di meraviglie, ma solo per assenza di meraviglia".

- Gilbert Keith Chesterton -
da:" La nonna del drago"




"Ho i miei dubbi su tutto questo grande valore dell'andare in montagna, di arrivare alla cima di tutto e guardare tutto dall'alto. 
Satana divenne la guida alpina più illustre, quando portò Gesù sulla cima di un monte altissimo e gli mostrò tutti i  regni della terra. 
Ma la gioia di Satana nello stare su un picco non è gioia per la grandezza, ma una gioia nel vedere la piccolezza, per il fatto che tutti gli uomini sembrano insetti ai suoi piedi."

- Gilbert Keith Chesterton -
da:" La nonna del drago"