martedì 22 novembre 2016

Il Padre nostro - card. Carlo Maria Martini

Nel vangelo secondo Luca, gli apostoli chiedono a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni Battista ha insegnato ai suoi discepoli» 
(Luca 11, 1).
Osserviamo anzitutto che la domanda degli apostoli non nasce all’inizio del loro incontro con Gesù, bensì più tardi, quando si accorgono, quando vedono che Gesù prega, si ritira a pregare.
Analogamente, la nostra domanda sulla preghiera nasce quando vediamo altri pregare intensamente, quando nella preghiera comune ci accorgiamo che intorno a noi c’è una qualità di preghiera che ci affascina e vorremmo fare nostra.

Gesù rispose ai discepoli "Quando pregate dite così":

Padre nostro che sei nei cieli, 
sia santificato il tuo nome; 
venga il tuo regno; 
sia fatta la tua volontà, 
come in cielo così in terra. 
Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 
e rimetti a noi i nostri debiti 
come noi li rimettiamo ai nostri debitori, 
e non ci indurre in tentazione, 
ma liberaci dal male» (Matteo 6, 9-13).

Preghiera semplicissima, che abbiamo imparato a recitare fin da bambini, eppure ricchissima. In essa c’è la scoperta della parola “Padre”, Dio Padre come nuovo orizzonte della vita. E, dalla scoperta della paternità di Dio, ci porta a comprendere che il “Padre nostro” riassume il progetto di Dio su di noi.
Il testo è diviso chiaramente in due parti. 
Le parole sono elementari – nome, Regno, sia santificato, volontà, pane, peccati, tentazioni – e nello stesso tempo non sono completamente spiegabili e vanno quindi vissute come mistero. 
Per esempio, che cosa significa pane quotidiano? 
Il  termine greco, che traduciamo con “quotidiano”, fa discutere da secoli gli esegeti: c’è chi traduce l’aggettivo con “oggi”, chi con “domani”. Forse il senso più ovvio è, appunto, “quotidiano”, ma non ne abbiamo la certezza filologica. Così pure è strana l’espressione: “sia santificato il tuo nome”. 
E, ancora, “non ci indurre in tentazione”, che può essere male interpretata, quasi che sia Dio a indurci in tentazione. 
Di fatto, il “Padre nostro” contiene delle affermazioni allusive a tutta la realtà del regno di Dio; recita delle parole che danno una sintesi dell’ insegnamento di Gesù e, per comprenderle a fondo, dovremmo rileggere buona parte del vangelo. 
A noi, però, preme capire che cosa ha voluto insegnarci Gesù, quali sono i contenuti che Gesù vuole da ogni nostra preghiera. 
Dire “Padre” non significa fare uno sforzo di immaginazione o avere una certa idea di Dio, bensì entrare nel modo di pregare di Gesù che sempre si rivolge a Dio chiamandolo “Padre”. 
Vuol dire che l’invocazione “Padre” è l’atmosfera della preghiera, l’orizzonte nel quale la preghiera si compie. 
Tale orizzonte, che è suo, Gesù ce lo mette nel cuore, ce lo dona, ce lo comunica. Dire “Padre”, ci rende disponibili, fiduciosi, abbandonati, sicuri di essere ascoltati, ci fa superare paure e incertezze. 
Con “venga il tuo Regno” esprimiamo l’augurio, l’ansia per la manifestazione di quella realtà che indichiamo con il nome “Regno” e che può essere espressa in mille altri modi: giustizia, fraternità, trionfo della vita, sconfitta della morte, situazione dove non ci saranno né lacrime né lutti, capacità di conoscerci e di amarci fino in fondo, pienezza del Corpo di Cristo realizzata nella Chiesa, unità vera tra tutti gli uomini e tutti i popoli.
Con questa espressione noi anticipiamo e attendiamo il progetto di Dio nella storia. 
Il tuo Regno, non il regno di Dio che io mi immagino, ma quello che il Padre prepara, mi dona, mi mette nelle mani, mi fa realizzare giorno dopo giorno. 
Il progetto di Dio ha delle caratteristiche di pienezza, assolutezza, purità, chiarezza, luminosità, che possono essere soltanto sue. 
Noi le intuiamo quando cerchiamo di realizzarle, perché il Regno si concretizza nella figura del nostro progetto umano, nella nostra figura di Chiesa, di rapporti fraterni vissuti nella pienezza evangelica, nella nostra figura di costruzione del mondo nuovo. 
Ma è il tuo, o Padre! Noi lo accettiamo da te e tu ce lo riveli sempre più grande, sempre più elevato delle nostre richieste umane.
Nella dinamica tra il regno quale progetto che noi costruiamo quotidianamente, e il Regno che Dio ci dà e che è più grande del nostro progetto, la preghiera ci rende attivi. 
Ci fa disponibili, pronti all’ eventuale conflitto che si potrebbe determinare tra il regno come lo vediamo noi e il Regno come Dio ce lo dona nella sua infinita e misteriosa sapienza. E il conflitto che si è realizzato, per esempio, nella preghiera di Gesù al Getsémani: «Padre, non la mia volontà, ma la tua si compia», venga non il mio regno, ma il tuo. Quindi, l’espressione “venga il tuo Regno” ci forma allo spirito battesimale : con essa entriamo nella realtà vissuta del nostro Battesimo.
Ci domandiamo: ma che cosa occorre perché venga il Regno, perché il progetto di Dio si realizzi? che cosa occorre perché tale realizzazione sia efficace e possibile? A ciò risponde la seconda parte della preghiera.
 Se avessimo composto noi il “Padre nostro” avremmo certamente scritto una lunga lista di condizioni esterne e interne. Gesù, invece, ne menziona tre. Perché il Regno si realizzi, abbiamo bisogno di perseverare nell’oggi attraverso il pane quotidiano. 
Abbiamo bisogno di molta misericordia e di perdono reciproco, mediante la capacità di accoglierci e il perdono che Dio dà alle nostre continue cadute e incapacità nella realizzazione del Regno. 
Abbiamo bisogno del sostegno di Dio per non cedere alla tentazione quando viene la prova e il Regno sembra oscurarsi intorno a noi. Nella prima parte del “Padre nostro” eravamo descritti come desiderosi anticipatori del Regno: “Venga, sia santificato, sia fatta la sua volontà”; nella seconda parte siamo descritti come poveri pellegrini del Regno .
Possiamo paragonare questi momenti della preghiera con i sentimenti che abbiamo nel cuore. Abbiamo nel cuore, come parola fondamentale rivolta a Dio, l’appellativo di Padre e lo ripetiamo con fiducia, con abbandono, con tenerezza.
Recitando il “Padre nostro” potremmo sostare a lungo su questa semplicissima parola: Padre, come faceva santa Teresa di Gesù Bambino.
Abbiamo nel cuore, come desiderio fondamentale, la pienezza del progetto di Dio a cui la nostra vita è chiamata a dedicarsi, attraverso il Battesimo e la presenza in tutte le realtà di questo mondo, in ogni forma di servizio ai fratelli, alla Chiesa, alla società.
Abbiamo nel cuore un umile sentire di noi che ci fa domandare nella preghiera cose essenziali e adatte alla nostra debolezza.
Uniamoci a tutti i fratelli e le sorelle che, insieme con noi, soffrono particolarmente debolezza e povertà sulla via del Regno. Penso a coloro che sono vittime di violenza, a coloro che hanno una vita anche familiare faticosa, quasi al limite dell’intollerabile, ai numerosi malati. Al bisogno che tanta gente ha del pane quotidiano della speranza, di quel respiro di forza che permette di vivere la giornata accogliendola.
Ci sono poi coloro che mancano della prospettiva del Regno, che non credono a un progetto di Dio nella loro vita e perciò non hanno un futuro, non sanno dove dirigersi, non hanno niente che li attragga o che li spinga a impegnarsi per un domani migliore.
Impariamo a pregare per tutti, preghiamo con tutti, soprattutto con chi incontriamo ogni giorno e che vorremmo fare entrare nel nostro desiderio e, attraverso l’invocazione del Padre, renderli partecipi di questa stupenda preghiera e del senso della paternità di Dio che Gesù ci dona di vivere.
La preghiera del “Padre nostro”, così come abbiamo cercato di comprenderla, ci ha mostrato come dev’essere ogni nostra preghiera.

– Rivolgerci con Gesù, nella grazia dello Spirito, al Padre, offrendogli ciò che siamo, tutta la nostra vita: è ciò che accade nell’Eucaristia in ogni celebrazione liturgica della Chiesa.
– Avere presente il mirabile disegno di salvezza di Dio, disegno nel quale si inserisce la nostra storia personale e che si è rivelato pienamente nel mistero pasquale di Gesù crocifisso e risorto. In tale disegno, la preghiera ha lo scopo, e lo ripeto, di condurci verso la carità operosa, perché Dio è mistero di Amore, di Carità.
– Credere che Dio esaudirà le nostre preghiere se fatte nel nome di Gesù, conformandoci, immedesimandoci nella sua condizione di Figlio e se hanno come richieste, come contenuti, i desideri del Regno, il desiderio di compiere la volontà del Padre, di lasciarci guidare dallo Spirito Santo.

- card. Carlo Maria Martini - 
Tratto da : Ritrovare se stessi – “Un percorso Quaresimale”


Le divisioni tra i cristiani, mentre feriscono la Chiesa, feriscono Cristo, e noi divisi provochiamo una ferita a Cristo: la Chiesa infatti è il corpo di cui Cristo è capo. 
Sappiamo bene quanto stesse a cuore a Gesù che i suoi discepoli rimanessero uniti nel suo amore. Basta pensare alle sue parole riportate nel capitolo diciassettesimo del Vangelo di Giovanni, la preghiera rivolta al Padre nell'imminenza della passione: «Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» 
(Gv 17,11).

- Papa Francesco -
Udienza Generale, 8 ottobre 2014




Padre nostro invisibile che sei nei cieli
sia santificato in noi il tuo Nome
perché tu ci hai santificato
attraverso il tuo Spirito Santo.
Venga su di noi il tuo regno,
regno promesso agli amanti del tuo Amore.
La tua forza e le tue benevolenze
riposino sui tuoi servi
qui nel mistero e là nella tua misericordia.
Dalla tua tavola inesauribile
dona il cibo alla nostra indigenza
e accordaci la remissione delle colpe
perché tu conosci la nostra debolezza.
Noi ti preghiamo:
salva coloro che hai plasmato
e liberali dal maligno che cerca chi divorare.
A te appartengono il regno
e la potenza e la gloria, o Signore:
non privare della tua bontà i tuoi santi.

dal Breviario Caldeo



Buona giornata a tutti. :-)



lunedì 21 novembre 2016

Maniera - Erri De Luca

Accosto la fronte alla tua, si toccano,
dico: “È una frontiera”.
Fronte a fronte: frontiera,
mio scherzo desolato, ci sorridi.
Col naso ci riprovo, tocco il naso,
per una tenerezza da canile:
“E questa è una nasiera”, dico
per risentire casomai
un secondo sorriso, che non c’è.
Poi tu metti la mano sulla mia
e io resto indietro di un respiro.
“E questa è una maniera”, mi dici.
“Di lasciarsi?”, ti chiedo. “Sì, così”.

- Erri De Luca - 
da: "L'ospite incallito" Einaudi Editore




C’è il verbo snaturare, ci dev’essere pure innaturare,
con cui sostituisco il verbo innamorare
perché succede questo: che risento il corpo,
mi commuove una musica, 

passa corrente sotto i polpastrelli,
un odore mi pizzica una lacrima, sudo, arrossisco,
in fondo all’osso sacro scodinzola 

una coda che s’è persa.
Mi sono innaturato: è più leale.
M’innaturo di te quando t’abbraccio.

- Erri De Luca -



Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. 
Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto su un gradino mentre gli altri ballano (p. 25-26)

- Erri De Luca -
Da: “Tu, mio”, editore Feltrinelli


Buona giornata a tutti. :-)






domenica 20 novembre 2016

Il matrimonio - Kahlil Gibran

Allora nuovamente parlò Almitra, e domandò:

Che cos'è il Matrimonio, o Maestro?
Ed egli rispose dicendo:
Voi siete nati insieme
e insieme starete per sempre.
Insieme, quando le bianche ali della morte
disperderanno i vostri giorni.
Insieme nella silenziosa memoria di Dio.
Vi sia spazio nella vostra unità,
e tra voi danzino i venti dei cieli.
Amatevi l'un con l'altra,
ma non fatene una prigione d'amore:
Piuttosto vi sia tra le rive delle vostre anime
un moto di mare.
Riempitevi a vicenda le coppe,
ma non bevete da una coppa sola.
Datevi cibo a vicenda,
ma non mangiate dello stesso pane.
Cantate e danzate insieme e siate giocondi,
ma ognuno di voi sia solo,
come sole sono le corde del liuto,
sebbene vibrino di una musica uguale.
Datevi il cuore,
ma l'uno non sia rifugio all'altro.
Poiché soltanto la mano della Vita
può contenere i vostri cuori.
Ergetevi insieme, ma non troppo vicini:
poiché il tempio ha colonne distanti,
e la quercia e il cipresso
non crescono l'una all'ombra dell'altro.

- Kahlil Gibran - 
da: "Il Profeta"


Un segreto d'amore

Mentre sfogliava i suoi «dossier» matrimoniali, il diavolo notò con dispetto che c'era ancora una coppia, sulla terra, che filava d'amore e d'accordo. 
Decise di fare un'ispezione. 
Si trattava in realtà di una coppia comune: eppure sprigionava tanto amore che attorno ad essa pareva ci fosse un'eterna primavera. Il diavolo volle conoscere il segreto di quell'amore.
- Nessun segreto - gli spiegarono i due. - Viviamo il nostro amore come una gara: quando uno dei due sbaglia, è l'altro che se ne assume la colpa; quando uno dei due fa bene, è l'altro che ne ha le lodi; quando uno dei due soffre, è l'altro che ne ha consolazione; quando uno dei due gioisce, è l'altro che ne ricava piacere. Insomma, facciamo sempre a chi arriva per primo.
Al diavolo tutto ciò parve scemo. E se ne andò senza far loro del male. 
Ed è così che possono ancora esistere delle coppie felici sulla terra

- Dino Semplici -



Il matrimonio non è solo una crociera, ma anche una croce. 
A volte, quando tutto sembra naufragare, solo se ti aggrappi alla croce puoi galleggiare. Solo se impari a gestire le difficoltà e non a fuggirne puoi arrivare alla riva.
A lungo andare si verifica un paradosso: le coppie più felici sono quelle che hanno colto i frutti dei periodi infelici. 
La felicità, soprattutto in due, è un investimento a lungo termine. 
È una gioia coltivata, più grande di quella intuita al primo incontro.
Saggezza è riconoscere con Rilke che «tutto è gestazione; solo più tardi, nascita». 
In termini simili scrive Rabindranath Tagore: «Dormii e sognai che la vita era gioia. Mi destai e vidi che la vita era dovere. Lavorai, e il dovere era gioia»

- Robert Cheaib -
da "Il gioco dell' amore" pp. 82-83, Tau Editrice


Buona giornata a tutti. :-)





sabato 19 novembre 2016

La mia sera - Giovanni Pascoli

“Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi...
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.”

- Giovanni Pascoli -


Paris at night

Tre fiammiferi accesi uno per uno nella notte
Il primo per vederti tutto il viso
Il secondo per vederti gli occhi
L'ultimo per vedere la tua bocca
E tutto il buio per ricordarmi queste cose
Mentre ti stringo fra le braccia.

- Jacques Prévert - 


"Ricorda è solo nel buio della notte che puoi vedere le stelle e quelle stelle ti ricondurranno a casa. Quindi non avere paura di commettere degli errori perché il più delle volte le ricompense più grandi ti arrivano dall'aver fatto le cose che ci mettono più paura. Forse otterrai tutto quello che desideri, forse otterrai addirittura di più di quanto avevi immaginato, chissà dove ti porterà la vita, la strada è lunga e alla fine il viaggio è quello che più conta."

dal film "One tree hill"




Buona giornata a tutti. :-)






venerdì 18 novembre 2016

Se tu non parli - Rabindranath Tagore

Se tu non parli
riempirò il mio cuore del tuo silenzio
e lo sopporterò.
Resterò qui fermo ad aspettare come la notte
nella sua veglia stellata
con il capo chino a terra
paziente.
Ma arriverà il mattino
le ombre della notte svaniranno
e la tua voce
in rivoli dorati inonderà il cielo.
Allora le tue parole
nel canto
prenderanno ali
da tutti i miei nidi di uccelli
e le tue melodie
spunteranno come fiori
su tutti gli alberi della mia foresta.

- Rabindranath Tagore -



Ti prego:
non togliermi i pericoli,
ma aiutami ad affrontarli.
Non calmar le mie pene,
ma aiutami a superarle.
Non darmi alleati nella lotta della vita,
eccetto la forza che mi proviene da te.
Non donarmi salvezza nella paura,
ma pazienza per conquistare la mia libertà.
Concedimi di non essere un vigliacco 
usurpando la tua grazia nel successo,
ma non mi manchi la stretta della tua mano 
nel mio fallimento.
Quando mi fermo stanco sulla lunga strada
e la sete mi opprime sotto il solleone;
quando mi punge la nostalgia di sera
e lo spettro della notte copre la mia vita,
bramo la tua voce, o Dio,
sospiro la tua mano sulle spalle.
Fatico a camminare per il peso del cuore
carico dei doni che non ti ho donati.

Mi rassicuri la tua mano nella notte,
la voglio riempire di carezze,
tenerla stretta: i palpiti del tuo cuore
segnino i ritmi del mio pellegrinaggio.

- Rabindranath Tagore - 



Non è stato un martello a rendere le rocce così perfette,
ma l’acqua, con la sua dolcezza, la sua danza, il suo suono.



- Rabindranath Tagore -





Buona giornata a tutti :-)

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giovedì 17 novembre 2016

Stola e grembiule e altri scritti - don Tonino Bello -

Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. 
Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.

Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. 

Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo.
Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.

Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento! 


Un grembiule ritagliato dalla stola

La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. 
La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. 
Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile.
C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni, essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della stola e del grembiule. 
I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le vesti”, “si cinse un asciugatoio”.
  
Si alzò da tavola

Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento della digestione. 
Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa. 
Ci sollecita all’azione. 
Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo ricevuto.
Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice, che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si isterilisce.
Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un sacramento incompiuto. 
La spinta all’azione è così radicata nella sua natura, che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte”.
Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono dall’eucarestia. 
Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto, degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero, che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.
Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera, insomma.

Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà

Depose le vesti 

Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.
Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.
Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.
Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.
Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.

Non possiamo amoreggiare col potere. 

Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente. 
Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare. 
Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano. 
Che la nostra parola fa vincere un concorso. 
Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.

In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.

Si cinse un asciugatoio 

Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli, ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe pose scattate in momenti di abbandono.

La Chiesa del grembiule non totalizza indici altissimi di consenso. 
Nell’ ”hit parade” delle preferenze, il ritratto meglio riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la Chiesa al rango di fantesca.

- don Tonino Bello -














In attesa del tuo sposo

Dona alla tua Chiesa tenerezza e coraggio.
Spirito di Dio, fà della tua chiesa un roveto che arde di amore per gli ultimi. Alimentane il fuoco con il tuo olio, perché l'olio brucia anche.
Dà alla tua chiesa tenerezza e coraggio.
Lacrime e sorrisi.
Rendila spiaggia dolcissima per chi è solo e triste e povero.
Disperdi la cenere dei suoi peccati.
Fà un rogo delle sue cupidige.
E quando, delusa dei suoi amanti, tornerà stanca e pentita a te, coperta di fango e di polvere dopo tanto camminare, credile se ti chiede perdono.
Non la rimproverare.
Ma ungi teneramente le membra di questa sposa di Cristo con le fragranze del tuo profumo e con l'olio di letizia.
E poi introducila, divenuta bellissima senza macchie senza rughe, all'incontro con lui perché possa guardarlo negli occhi senza arrossire,
e possa dirgli finalmente: sposa mio.

- don Tonino Bello - 
dall' omelia, 19 aprile 1984

Battesimo di Cristo, Mantegna - 1506
Chiesa di Sant'Andrea,  Cappella di Giovanni Battista
Mantova - Italy

Caro Gesù

Ho faticato non poco a trovarti.
Ero persuaso che tu stessi laggiù,
dove il Giordano rallenta la sua corsa tra i canneti e i ciottoli,
scintillando sotto il velo tremante dell'acqua,
rendendo più agevole il guado.
C'è tanta folla in questi giorni che si accalca lì,
sulla ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni,
il profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume.
Immerso fino ai fianchi dove il letto sprofonda
e la corrente crea mulinelli di schiuma,
invita tutti a entrare nell'acqua,
per rivivere i brividi di un esodo antico
e mantenere vive le promesse, gonfie di salvezza.
In un primo momento,
conoscendo la tua ansia di convivere con la gente,
e sapendo che la tua delizia è stare con i figli dell'uomo,
pensavo di trovarti in quell'alveare di umanità brulicante sugli argini.
Qualcuno, però, che pure ti ha visto uscire dal Giordano,
grondante di acqua e di Spirito,
e mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori,
di leviti e farisei, di soldati e prostitute,
mi ha detto che da qualche giorno eri scomparso dalla zona.
Ora, finalmente, ti ho trovato.
Ed eccomi qui, accanto a te,
non so bene se condotto anch'io dallo Spirito,
in questo misterioso deserto di Giuda,
tana di fiere e landa di ululati solitari.

- Don Tonino Bello -

























Buona giornata a tutti. :-)