Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente,
e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un
piccolo sacrilegio.
Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della
sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa
bella mostra di sé, con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i
suoi ricami.
Non c’è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore
del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un
lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e
chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia.
Ordinariamente, non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore per
un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal
vangelo.
Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù
nella notte del giovedì santo, non parla né di casule né di amitti, né di stole
né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai
fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie
con l’aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di camice
d’oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d’argento!
Un grembiule ritagliato dalla stola
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il
“grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e
il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo
sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un
unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo.
La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica.
Il grembiule
senza la stola sarebbe fatalmente sterile.
C’è, nel vangelo di Giovanni, una triade di verbi scarni,
essenziali, pregnantissimi, che basterebbero da soli a sostenere il peso di
tutta la teologia del servizio, e che illustrano la complementarietà della
stola e del grembiule.
I tre verbi sono: “si alzò da tavola”, “depose le
vesti”, “si cinse un asciugatoio”.
Si alzò da tavola
Significa due cose. Prima di tutto che l’eucarestia non
sopporta la sedentarietà. Non tollera la siesta. Non permette l’assopimento
della digestione.
Ci obbliga a un certo punto ad abbandonare la mensa.
Ci sollecita
all’azione.
Ci spinge a lasciare le nostre cadenze troppo residenziali per
farci investire in gestualità dinamiche e missionarie il fuoco che abbiamo
ricevuto.
Questo è il guaio: le nostre eucaristie si snervano
spesso in dilettazioni morose, languiscono nei tepori del cenacolo, si sciupano
nel narcisismo contemplativo e si concludono con tanta sonnolenza lusingatrice,
che le membra si intorpidiscono, gli occhi tendono a chiudersi, e l’impegno si
isterilisce.
Se non ci si alza da tavola, l’eucarestia rimane un
sacramento incompiuto.
La spinta all’azione è così radicata nella sua natura,
che obbliga a lasciare la mensa anche quando viene accolta con l’anima
sacrilega, come quella di Giuda: “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era
notte”.
Ma “si alzò da tavola” significa un’altra cosa molto
importante. Significa che gli altri due verbi “depose le vesti” e “si cinse i
fianchi con l’asciugatoio” hanno valenza di salvezza soltanto se partono
dall’eucarestia.
Se prima non si è stati “a tavola”, anche il servizio più
generoso reso ai fratelli rischia l’ambiguità, nasce all’insegna del sospetto,
degenera nella facile demagogia, e si sfilaccia nel filantropismo faccendiero,
che ha poco o nulla da spartire con la carità di Gesù Cristo.
Per i presbiteri ogni impegno vitale, ogni battaglia per
la giustizia, ogni lotta a favore dei poveri, ogni sforzo di liberazione, ogni
sollecitudine per il trionfo della verità devono partire dalla “tavola”, dalla
consuetudine con Cristo, dalla familiarità con lui, dall’aver bevuto al calice
suo con tutte le valenze del suo martirio. Da una intensa vita di preghiera,
insomma.
Solo così il nostro svuotamento si riempirà di frutti, le nostre spoliazioni si
rivestiranno di vittorie, e l’acqua tiepida che verseremo sui piedi dei nostri
fratelli li abiliterà a percorrere fino in fondo le strade della libertà
Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con
questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri
comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica
eucaristica.
Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le
vesti”.
Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse
personale, per assumere la nudità della comunione.
Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della
mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della
semplicità, della leggerezza.
Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia,
della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della
debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a
“dives” quanto a “potens”.
Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare
il potere dei segni.
Non possiamo amoreggiare col potere.
Non possiamo coltivare intese sottobanco,
offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente.
Gli
allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono
terrorizzare.
Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che
le nostre raccomandazioni contano.
Che la nostra parola fa vincere un concorso.
Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso
per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici
dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di
anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di
Cristo.
In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire
“clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli
analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli
altri.
Si cinse un asciugatoio
Ed eccoci all’immagine che mi piace intitolare “la Chiesa del
grembiule”. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante. Una
fotografia leggermente scollacciata di Chiesa. Di quelle che non si espongono
nelle vetrine per non far mormorare la gente e per evitare commenti pettegoli,
ma che tutt’al più si confinano in un album di famiglia, a disposizione di
pochi intimi, magari delle signore che prendono il tè, con le quali soltanto è
permesso sorridere su certe leggerezze di abbigliamento o su certe pose scattate in momenti di abbandono.
La Chiesa del grembiule non totalizza indici
altissimi di consenso.
Nell’ ”hit parade” delle preferenze, il ritratto meglio
riuscito di Chiesa sembra essere quello che la rappresenta con il legionario
tra le mani, o con la casula addosso. Ma con quel cencio ai fianchi, con quel
catino nella destra e con quella brocca nella sinistra, con quel piglio
vagamente ancillare, viene fuori proprio un’immagine che declassa la
Chiesa al rango di fantesca.
- don Tonino Bello -
In attesa del tuo sposo
Dona alla tua Chiesa tenerezza e coraggio.
Spirito di Dio, fà della tua chiesa un roveto che arde di amore per gli ultimi. Alimentane il fuoco con il tuo olio, perché l'olio brucia anche.
Dà alla tua chiesa tenerezza e coraggio.
Lacrime e sorrisi.
Rendila spiaggia dolcissima per chi è solo e triste e povero.
Disperdi la cenere dei suoi peccati.
Fà un rogo delle sue cupidige.
E quando, delusa dei suoi amanti, tornerà stanca e pentita a te, coperta di fango e di polvere dopo tanto camminare, credile se ti chiede perdono.
Non la rimproverare.
Ma ungi teneramente le membra di questa sposa di Cristo con le fragranze del tuo profumo e con l'olio di letizia.
E poi introducila, divenuta bellissima senza macchie senza rughe, all'incontro con lui perché possa guardarlo negli occhi senza arrossire,
e possa dirgli finalmente: sposa mio.
- don Tonino Bello -
dall' omelia, 19 aprile 1984
Battesimo di Cristo, Mantegna - 1506
Chiesa di Sant'Andrea, Cappella di
Giovanni Battista
Mantova - Italy
Caro Gesù
Ho faticato non poco a trovarti.
Ero persuaso che tu stessi laggiù,
dove il Giordano rallenta la sua corsa tra i canneti e i ciottoli,
scintillando sotto il velo tremante dell'acqua,
rendendo più agevole il guado.
C'è tanta folla in questi giorni che si accalca lì,
sulla ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni,
il profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume.
Immerso fino ai fianchi dove il letto sprofonda
e la corrente crea mulinelli di schiuma,
invita tutti a entrare nell'acqua,
per rivivere i brividi di un esodo antico
e mantenere vive le promesse, gonfie di salvezza.
In un primo momento,
conoscendo la tua ansia di convivere con la gente,
e sapendo che la tua delizia è stare con i figli dell'uomo,
pensavo di trovarti in quell'alveare di umanità brulicante sugli argini.
Qualcuno, però, che pure ti ha visto uscire dal Giordano,
grondante di acqua e di Spirito,
e mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori,
di leviti e farisei, di soldati e prostitute,
mi ha detto che da qualche giorno eri scomparso dalla zona.
Ora, finalmente, ti ho trovato.
Ed eccomi qui, accanto a te,
non so bene se condotto anch'io dallo Spirito,
in questo misterioso deserto di Giuda,
tana di fiere e landa di ululati solitari.
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