Le Beatitudini vengono non di rado presentate
come l'antitesi neotestamentaria al Decalogo, come, per così dire, l'etica più
elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell' Antico Testamento.
Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù.
Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr. per es., Mc 10,19; Lc 16,17);
il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li
approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe
diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul
Decalogo: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son
venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano
passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un iota o un
segno, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,17s).
Su questa frase, che
solo in apparenza è in contraddizione con il messaggio paolino, dovremo tornare
dopo il dialogo tra Gesù e il rabbino. Intanto è sufficiente notare che Gesù
non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza.
Ma allora che cosa sono le Beatitudini?
Anzitutto, esse si inseriscono in una lunga tradizione di messaggi
veterotestamentari, quali troviamo, per esempio, nel Salmo 1 e nel testo
parallelo di Geremia 17,7 s: «Benedetto l'uomo che confida nel Signore...».
Sono parole di promessa, che nello stesso tempo contribuiscono al discernimento
degli spiriti e diventano così parole guida.
La cornice data da Luca al
Discorso della montagna chiarisce la destinazione particolare delle Beatitudini
di Gesù: «Alzati gli occhi verso i suoi discepoli...».
Le singole affermazioni
delle Beatitudini nascono dallo sguardo verso i discepoli; descrivono per così
dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati,
piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Le 6,20ss).
Sono da intendere come qualificazioni
pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli - di coloro che hanno seguito Gesù
e sono diventati la sua famiglia.
Tuttavia la situazione empirica di minaccia
incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa
si illumina a partire dal Padre.
Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù,
le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti
non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di
vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del
mondo. Proprio coloro che secondo criteri mondani vengono considerati poveri e
perduti sono i veri fortunati, i benedetti, e possono rallegrarsi e giubilare
nonostante tutte le loro sofferenze.
Le Beatitudini sono promesse nelle quali
risplende la nuova immagine del mondo e dell'uomo che Gesù inaugura, il
«rovesciamento dei valori».
Sono promesse escatologiche; questa
espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che
annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente
nell' aldilà. Se l'uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se
cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po'
di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire
da Gesù entra gioia nella tribolazione.
I paradossi presentati da Gesù nelle
Beatitudini esprimono la vera situazione del credente nel mondo, quale è stata
ripetutamente descritta da Paolo alla luce della sua esperienza di vita e di
sofferenza da apostolo: «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri;
sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non
messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti;
gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6,8-10).
«Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma
non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi...»(2 Cor 4,8-10).
Quello che nelle Beatitudini del Vangelo di Luca è parola di
conforto e di promessa, in Paolo è l'esperienza vissuta dell'apostolo. Paolo si
sente «messo all'ultimo posto» come un condannato a morte, che è diventato
spettacolo per il mondo, senza patria, insultato, calunniato (cfr. 1 Cor 4,9-13).
E nonostante ciò egli fa l'esperienza di una gioia infinita; proprio come colui
che si è consegnato, che ha dato via se stesso per portare Cristo agli uomini,
egli fa esperienza dell'intima connessione di croce e risurrezione: noi siamo
messi a morte «perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne
mortale» (2 Cor 4,11).
Nei suoi inviati Cristo continua a soffrire, il
suo posto è sempre la croce. Ma tuttavia Egli è irrevocabilmente il Risorto. E
anche se l'inviato di Gesù in questo mondo è ancora immerso nella passione di
Gesù, vi è tuttavia percepibile lo splendore della risurrezione che procura una
gioia, una «beatitudine» più grande della felicità che egli poteva aver provato
prima su vie mondane.
Solo adesso egli sa che cos'è la vera «felicità», la vera
«beatitudine», e, allo stesso tempo, riconosce quanto fosse misero ciò che,
secondo i criteri comuni, deve essere considerato come soddisfazione e
felicità.
Nei paradossi dell' esperienza di vita di san
Paolo, che corrispondono ai paradossi delle Beatitudini, si manifesta la stessa
realtà che Giovanni aveva espresso in modo ancora diverso, qualificando la
croce del Signore come «elevazione», intronizzazione nelle altezze di Dio.
Giovanni riunisce in una sola parola croce e risurrezione, croce ed elevazione,
perché per lui in realtà l'una è inseparabile dall' altra. La croce è l'atto
dell' «esodo», l'atto di quell' amore che si prende sul serio fino all' estremo
e va sino «alla fine» (Gv 13,1), e per questo essa è il luogo della
gloria, il luogo del vero contatto e della vera unione con Dio, che è Amore
(cfr. 1 Gv 4,7.16). In questa visione giovannea è quindi ultimamente
condensato e reso accessibile alla nostra comprensione ciò che significano i
paradossi del Discorso della montagna.
[…]
Ma ora si pone la questione fondamentale: è
giusta la direzione che ci indica il Signore nelle Beatitudini e nei moniti a
esse contrapposti?
È davvero male essere ricchi, sazi, ridere, essere
apprezzati? Per la sua rabbiosa critica del cristianesimo Friedrich Nietzsche
ha fatto leva proprio su questo punto. Non sarebbe la dottrina cristiana che si
dovrebbe criticare: sarebbe la morale del cristianesimo che bisognerebbe
attaccare come «crimine capitale contro la vita». E con «morale del
cristianesimo» egli intende esattamente la direzione che ci indica il Discorso
della montagna.
«Quale è stato fino ad oggi sulla terra il
più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: "Guai a coloro
che ridono!"?». E contro le promesse di Cristo dice: noi non vogliamo
assolutamente il regno dei cieli. «Siamo diventati uomini - vogliamo il regno
della terra».
La visione del Discorso della montagna appare
come una religione del risentimento, come l'invidia dei codardi e degli
incapaci, che non sono all' altezza della vita e allora vogliono vendicarsi
esaltando il loro fallimento e oltraggiando i forti, coloro che hanno successo,
che sono fortunati. All'ampia prospettiva di Gesù viene contrapposta un'angusta
concentrazione sulle realtà di quaggiù: la volontà di sfruttare adesso il mondo
e tutte le offerte della vita, di cercare il cielo quaggiù e in tutto ciò non
farsi inibire da nessun tipo di scrupolo.
Molto di tutto questo è passato nella
coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce
la vita.
Così il Discorso della montagna pone la questione dell' opzione
fondamentale del cristianesimo e, da figli del nostro tempo, avvertiamo la
resistenza interiore contro quest'opzione - anche se non siamo insensibili di
fronte all' elogio dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, degli
uomini sinceri. Dopo le esperienze dei regimi totalitari, dopo il modo brutale
con cui essi hanno calpestato gli uomini, schernito, asservito, picchiato i
deboli, comprendiamo pure di nuovo coloro che hanno fame e sete di giustizia;
riscopriamo l'anima degli afflitti e il loro diritto a essere consolati.
Di
fronte all' abuso del potere economico, di fronte alla crudeltà del capitalismo
che degrada l'uomo a merce, abbiamo cominciato a vedere più chiaramente i
pericoli della ricchezza e comprendiamo in modo nuovo che cosa Gesù intendeva
nel metterci in guardia dalla ricchezza, dal dio Mammona che distrugge l'uomo
prendendo alla gola con la sua mano spietata gran parte del mondo.
Sì, le
Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla
nostra fame e sete di vita.
Esigono «conversione» - un'inversione di marcia
interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa
conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la
nostra esistenza si dispone nel modo giusto.
Il mondo greco, la cui gioia di vivere si
rivela in modo meraviglioso nell' epopea omerica, era tuttavia profondamente
consapevole del fatto che il vero peccato dell'uomo, la sua minaccia più intima
è la hybris: l'autosufficienza presuntuosa, in cui l'uomo eleva se
stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente
padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da
offrire.
Questa consapevolezza che la vera minaccia per l'uomo consiste
nell'autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene
sviluppata nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire
dalla figura di Cristo.
Abbiamo visto che il Discorso della montagna
è una cristologia nascosta. Dietro di essa c'è la figura di Cristo, di
quell'uomo che è Dio, ma che proprio per questo discende, si spoglia, fino alla
morte sulla croce.
I santi, da Paolo a Francesco d'Assisi fino a madre Teresa,
hanno vissuto questa opzione mostrandoci così la giusta immagine dell'uomo e
della sua felicità. In una parola: la vera «morale» del cristianesimo è
l'amore.
E questo, ovviamente, si oppone all' egoismo - è un esodo da se
stessi, ma è proprio in questo modo che l'uomo trova se stesso.
Nei confronti
dell'allettante splendore dell'uomo di Nietzsche, questa via, a prima vista,
sembra misera, addirittura improponibile. Ma è il vero «sentiero di alta
montagna» della vita; solo sulla via dell' amore, i cui percorsi sono descritti
nel Discorso della montagna, si dischiude la ricchezza della vita, la grandezza
della vocazione dell'uomo.
- papa Benedetto XVI -
dal Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger, ed. Rizzoli 2007
Buona giornata a tutti. :-)