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lunedì 22 ottobre 2018

«Lasciatemi andare alla casa del Padre» - San Giovanni Paolo II, 22 ottobre 2018 memoria liturgica

«Lasciatemi andare alla casa del Padre». 
Cosa daremmo per averle potute sentire di persona queste parole sussurrate da Giovanni Paolo II con quel poco di respiro che gli restava, le ultime uscite dalla sua bocca stando al documento apparso ieri sugli Acta Apostolicae Sedis, la gazzetta ufficiale vaticana. 
Erano quasi le 15.30 di sabato 2 aprile, sei ore prima della morte. 
La voce era «debolissima», la parola «biascicata», come dicono ora le pagine che ripercorrono le settimane precedenti la morte di Papa Wojtyla con la precisione del documento destinato a far testo e insieme con una toccante devozione che sborda dalle righe della ricostruzione storica. Il Papa era ormai «morente», ma «in lingua polacca» chiedeva appunto di non trattenerlo più. Una richiesta che collideva con l'affetto di chi l'accudiva, ma così ferma da non ammettere obiezione. 
Quella era la sua ora, alla quale si andava preparando da lungo tempo: una volta giunta, la stava vivendo sino in fondo, senza ombra di paura e anzi con la dedizione consapevole che si mette quando si è nel pieno delle proprie forze. La coscienza gli si faceva sempre più flebile (poco prima delle 19 di quel tristissimo sabato viene annotato «il progressivo esaurimento delle funzioni vitali»), ma Karol Wojtyla con quell'ultima frase sembra voler pronunciare anche lui il suo «consummatum est», tutto è compiuto, conformandosi sino all'ultimo istante al Cristo che l'aveva chiamato a portare la sua stessa croce, a mostrare al mondo le sue piaghe. 
È la cronistoria ufficiale a ricorrere all'immagine della Via Crucis mentre mette in fila gli eventi dal 31 gennaio alla morte: e la sofferta benedizione dalla finestra dello studio privato mercoledì 30 marzo diventa «l'ultima statio pubblica» di una via «penosa», il commiato dal mondo. 
Il resto filtrerà dalla sala stampa vaticana nei tre giorni dell'agonia, in un succedersi di bollettini via via sempre più drammatici, angosciosi. Noi qui a scrutare quella finestra, sperando in una nuova prodigiosa ripresa dell'uomo che aveva condotto la storia a seguire un corso inaspettato, capace di sprigionare un'energia interiore che ce lo fa quasi credere immortale. Lui che, intanto, presente il Padre ad aspettarlo nella sua casa per un abbraccio che ora scorge davvero vicino, forse mai come in quelle ore desiderato, atteso con l'ansia di chi l'ha interiormente preparato in ogni dettaglio. 
Lasciatemi andare, dice infatti, come a voler fermare dolcemente l'affaccendarsi dei medici che ne monitorano i parametri vitali e li vedono spegnersi, almeno secondo gli standard clinici, proprio mentre un'altra vita non rilevabile ai monitor prende possesso della sua anima. Gli Acta intrecciano precisione medica e delicatezza umana, l'impronta della scienza e quella della santità, regalandoci un testo contrappuntato dalla commovente fedeltà del Papa a una vita spesa nella preghiera, sino all'estremo. 
La «visibile partecipazione» con la quale segue gli atti liturgici, le letture, il ripetersi di consuetudini spirituali alle quali mai è venuto meno è documentata fino al sopraggiungere del coma finale. Avremmo voluto esserci in quell'ultima ora, e in realtà tutti eravamo lì, in quella stanza, con la preghiera. 
Queste poche pagine semplicemente ora completano quel che già si sapeva e ci consentono di vedere la scena, nitidamente: «Secondo una tradizione polacca, un piccolo cero acceso illuminava la penombra della camera, ove il Papa andava spegnendosi». 
Lasciamolo andare, allora: è lui a chiedercelo, e al Papa non si può dir di no. 
Quella luce nella nostra penombra - lo sappiamo - è destinata a non consumarsi più.

L'ultimo passo, senza paura
Diario ufficiale dell'addio di Giovanni Paolo II
Francesco Ognibene -"Avvenire" 19 settembre 2005



Nell'esprimere affettuosa solidarietà a coloro che soffrono, li invito a contemplare con fede il mistero di Cristo, crocifisso e risorto, per arrivare a scoprire nelle proprie vicende dolorose l'amorevole disegno di Dio.  

- san Giovanni Paolo II, papa -




Beata Vergine Maria, 
la tua nascita ci riempie tutti di grande gioia.
In te rifulge l’aurora della redenzione;
perché tu hai partorito per noi Cristo, sole di giustizia.
Come Madre del Salvatore del mondo e come Madre della Chiesa
tu ci aiuti ad incontrare nella nostra vita il Cristo.
Tu, Vergine sempre pura e senza macchia,
ci guidi sulla via sicura
e ci fai uscire dalle tenebre del peccato e della morte
verso la divina luce del tuo Figlio,
che nello Spirito Santo ci ha riconciliati con il Padre celeste
e, attraverso il servizio della Chiesa,
continua a riconciliarci con lui.
Santa Madre di Dio, questo santuario a Dux
porta il tuo nome: “Maria della consolazione”.
Qui sei venerata come “Nostra Signora del Liechtenstein”.
Dinanzi alla tua amata immagine
pregano i fedeli di tante generazioni.
Qui si è inginocchiato, in tempi difficili e perigliosi, il principe del Paese,
e ha affidato a te, consolatrice degli afflitti e Regina della pace,
a sua famiglia e tutto il popolo del Liechtenstein.
Oggi sono io, capo supremo della Chiesa di Cristo,
che mi inginocchio in questo santo luogo
e consacro al tuo cuore immacolato
la casa reale, il Paese e il popolo del Liechtenstein.
Pieno di fiducia affido a te le sue famiglie e comunità,
i responsabili della Chiesa, dello Stato e della società,
i bambini e i giovani, i malati e gli anziani,
i morti, che nelle tombe attendono la risurrezione.
Affido alla tua potente intercessione tutto il popolo di Dio
e professo che tu sei la “Mater fortior” per noi tutti.
Sì, la Madre più potente!
Tu, Madre di Dio, sei più forte di tutte le potenze nemiche di Dio,
che minacciano il nostro mondo e il nostro stesso Paese.
Tu sei più forte delle tentazioni e degli assalti,
che vogliono strappare l’uomo da Dio e dai suoi Comandamenti.
Tu sei più forte di ogni ambizione egoistica e personalistica,
che oscura all’uomo la visione di Dio e del suo prossimo.
Tu sei più forte, perché tu hai creduto,
hai sperato e hai pienamente amato.
Tu sei più forte, perché hai adempiuto totalmente la volontà di Dio
e hai seguito il cammino di tuo Figlio obbediente e fedele fino alla croce.
Tu sei più forte, perché partecipi con il corpo e con l’anima
alla vittoria pasquale del Signore.
In verità, tu sei più forte,
 perché l’Onnipotente ha fatto grandi cose in te.
Il Paese e il principe e il popolo sono consacrati a te.
Stendi il tuo manto, o Madre, sopra tutti noi.
Ferventemente ti prego, insieme a tutti i fedeli:
“Vergine, Madre del mio Dio,
fa’ che io sia tutto tuo!
Tuo nella vita, tuo nella morte,
tuo nella sofferenza, nella paura e nella miseria;
tuo sulla croce e nel doloroso sconforto;
tuo nel tempo e nell’eternità.
Vergine, Madre del mio Dio,
fa’ che io sia tutto tuo!”. Amen.

- Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II -
nella chiesa di Santa Maria Consolatrice
Vaduz (Liechtenstein)
Domenica, 8 settembre 1985
 


Buona giornata a tutti. :)



venerdì 17 marzo 2017

17 marzo San Patrizio e il sogno angelico

La vita di questo apostolo dell’Irlanda, nato nella Britannia romana (l’attuale Inghilterra) nel 385  è stata avventurosa.
Pochi santi hanno la popolarità e la fama quasi universale di san Patrizio. Con la sua forza di carattere e la sua grande spiritualità (e naturalmente con miracoli), non solo convertì il popolo dell’Irlanda, ma contribuì a diffondere la fede in molte altre terre. 
Era il quinto secolo quando questo ragazzo di sedici anni, a suo dire sventato e senza religione, venne rapito in Britania da una ricca famiglia. 
Fu portato in Irlanda e venduto come schiavo a un capo corsaro, che servì come pastore per sei anni a Mayo. Durante questo periodo apprese la lingua celtica locale, fu colpito dalla grazia e si convertì.
A proposito di questo tempo di vita dura, Patrizio diceva: “Ero solito pregare di continuo, lungo tutto il giorno.
La mia fede crebbe e il mio spirito ne venne vivificato. Dicevo più di cento preghiere di giorno e altrettante di notte”. 
Durante un sogno  una voce angelica diede a Patrizio indicazioni chiare e precise su come fuggire e raggiungere l’Irlanda meridionale. 
Fuggito in Gallia (sospinto da una voce arcana), dove fu discepolo di san Germano di Auxerre, visitò pure in Italia le comunità monastiche nelle isole del Tirreno (Palmaria, Gorgonia, Capraia, Gallinara); e i suoi maestri consigliarono di ritornare in Irlanda (inviato dalla voce di un misterioso personaggio irlandese), dove egli si recò (432), dopo essere stato consacrato vescovo da san Gennaro. 
Poiché aveva ricevuto in Gallia una  formazione biblica, questa divenne una caratteristica irlandese., l’apostolo convertì alcuni re indigeni e seppe armonizzare le nuove comunità con le condizioni sociali del luogo e del tempo.
L’Irlanda fu l’unico paese dell’Europa occidentale in cui l’evangelizzazione si attuò senza martiri. 
Pochi anni prima della morte, rimise nelle mani di altri vescovi il governo della Chiesa di Irlanda, ritirandosi in silenzio in Ulidiaper prepararsi alla morte, che lo colse il 17 marzo 461. 
Fu sepolto a Down –Patrick: è stato sempre venerato in tutta l’Irlanda dal secolo VIII, e dal secolo X anche in Inghilterra; mentre è entrato nel calendario Romano solo nel 1632.

Immagine: Mosaico di San Patrizio, dalla Cattedrale di s. Anna a Leeds. 
Foto di don Lawrence Lew, O.P.

Benedizione del Viaggiatore Irlandese

May the road rise to meet you,
may the wind be always at your back,
may the sun shine warm upon your face,
and the rains fall soft upon your fields and,
until we meet again,
may God hold you in the palm of His hand.

“Sia la strada al tuo fianco,
il vento sempre alle tue spalle,
che il sole splenda caldo sul tuo viso,
e la pioggia cada dolce nei campi attorno e,
finché non ci incontreremo di nuovo,
possa Dio proteggerti nel palmo della sua mano.”




Preghiera di San Patrizio contro incantesimi e malefici
  
Mi alzo, in questo giorno che sorge,
Per una grande forza, per l’invocazione della Trinità,
Per la fede nella Trinità,
Per l’affermazione dell’unità
Del Creatore del Creato.
Mi alzo in questo giorno che sorge
Per la forza della nascita di Cristo nel Suo Battesimo,
Per la forza della crocifissione e della sepoltura,
Per la forza della resurrezione e dell’ascensione,
Per la forza della discesa al Giudizio Finale.
Mi alzo, in questo giorno che sorge,
Per la forza dell’amore dei Cherubini,
In obbedienza agli Angeli,
Al servizio degli Arcangeli,
Per la speranza della resurrezione e della ricompensa,
Per la preghiera dei Patriarchi,
Per le previsioni dei Profeti,
Per la predicazione degli Apostoli,
Per la fede dei Confessori,
Per l’innocenza delle Vergini sante,
Per le azioni dei Beati.
Mi alzo in questo giorno che sorge,
Per la forza del cielo:
Luce del sole,
Chiarore della luna,
Splendore del fuoco,
Velocità del lampo,
Impetuosità del vento,
Profondità dei mari,
Solidità della terra,
Solidità della roccia.
Mi alzo in questo giorno che sorge,
Per la forza di Dio che mi spinge,
Per la forza di Dio che mi protegge,
Per la saggezza di Dio che mi guida,
Per lo sguardo di Dio che vigila sul mio cammino,
Per l’orecchio di Dio che mi ascolta,
Per la parola di Dio che mi parla,
Per la mano di Dio che mi custodisce,
Per il cammino di Dio davanti a me,
per lo scudo di Dio che mi protegge,
Per l’ostia di Dio che mi salva,
Dalle trappole del demonio,
Dalle tentazioni del vizio,
Da tutti coloro che vogliono il mio male,
Lontano e vicino a me,
Agendo da soli o in gruppo.
Invoco oggi queste forze a proteggermi dal male,
Contro qualsiasi forza crudele che minacci il mio corpo e la mia anima,
Contro l’incanto dei falsi profeti,
Contro le legge oscure del paganesimo,
Contro le false leggi degli eretici,
Contro l’arte dell’idolatria,
Contro gli incantesimi di streghe e maghi,
Contro saperi che corrompono il corpo e l’anima.
Cristo mi custodisca oggi,
Contro il veleno, contro il fuoco,
Contro l’affogamento, contro le ferite,
perché io possa ricevere e godere la ricompensa.
Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me,
Cristo in me, Cristo sotto di me, Cristo sopra di me,
Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra,
Cristo quando mi stendo,
Cristo quando mi siedo,
Cristo quando mi alzo,
Cristo nel cuore di tutti coloro che pensano a me,
Cristo sulla bocca di tutti coloro che parlano di me,
Cristo in tutti gli occhi che mi guardano,
Cristo in tutti gli orecchi che mi ascoltano.
Mi alzo, in questo giorno che sorge,
Per una grande forza, per l’invocazione della Trinità,
Per la fede nella Trinità,
Per l’affermazione dell’unità
Del Creatore del Creato.



Buona giornata a tutti. :-)










giovedì 9 febbraio 2017

9 febbraio Beata Anna Katharina Emmerick Mistica, religiosa


Anna Catharina Emmerick nacque l’8 settembre 1774 a Flamske bei Coestfeld (Westfalia, Germania) comunità di contadini; i suoi genitori Bernardo Emmerick e Anna Hillers, erano di umile condizione ma buoni cattolici.
Da bambina faceva la pastorella e in questo periodo avvertì la vocazione a farsi religiosa, ma incontrando l’opposizione del padre; durante la sua giovinezza Dio la colmò di grandi doni, come fenomeni di estasi e visioni.
Ma questo non le giovò, in quanto fu rifiutata da varie comunità; nel 1802 a 28 anni, grazie all’interessamento dell’amica Clara Soentgen, una giovane della borghesia, ottenne alla fine di entrare nel monastero delle Canonichesse Regolari di S. Agostino di Agnetenberg presso Dülmen.
La vita nel monastero fu per lei molto dura, perché non della stessa condizione sociale delle altre e questo le veniva fatto pesare, come pure le si rimproverava di essere stata accolta dietro insistenti pressioni. 
A ciò si aggiunse che soffrì di varie infermità, per le conseguenze di un incidente patito nel 1805, fu costretta a stare quasi continuamente nella sua stanza, dal 1806 al 1812.
Quando era una contadina riusciva a tenere nascosti i fenomeni mistici che si manifestavano in lei, ma nel monastero, un ambiente più ristretto, ciò non le riusciva, pertanto alcune suore o per zelo o per ignoranza la fecero oggetto di insinuazioni maligne e sospetti di ogni genere.
Nel 1811 il convento fu soppresso dalle leggi francesi di Napoleone Bonaparte e le suore disperse; Anna Caterina Emmerick nel 1812 si mise allora al servizio di un sacerdote, emigrato a Dülmen proveniente dalla diocesi francese di Amiens, don Giovanni Martino Lambert.
Ed in casa del sacerdote verso la fine di quell’anno, i fenomeni sempre presenti prima, si moltiplicarono e negli ultimi giorni di dicembre 1812 ricevette le stigmate; per due mesi riuscì a tenerle nascoste, ma il 28 febbraio 1813 non poté lasciare più il letto, che diventò il suo strumento di espiazione per i peccati degli uomini, unendo le sue sofferenze a quelle della Passione di Gesù.

Fu sottoposta ad un’indagine sulle stigmate, sulle sofferenze della Passione e sui fenomeni mistici che si manifestavano in lei, indagine che confermò la sua assoluta innocenza e il carattere soprannaturale dei fenomeni.
Devotissima dell'eucaristia, traeva la sua forza da essa; si verificò in lei, come in altre mistiche, il fenomeno del digiuno eucaristico: poca acqua e l'ostia consacrata furono sufficienti a tenerla in vita per molti anni.
Ebbe visioni riguardanti la vita di Gesù e di Maria, ma soprattutto della Passione di Cristo.
È diventato difficile sapere quali visioni furono effettivamente sue, perché un suo contemporaneo, il poeta e scrittore Clemente Brentano (1778-1842) le pubblicò facendo delle aggiunte e abbellimenti al suo racconto, creando così una grande confusione, che pesò fortemente sul futuro processo di beatificazione. 
Anna Caterina Emmerick morì a Dülmen il 9 febbraio 1824, diventando una delle Serve di Dio più conosciute in Europa. 
Per l’appartenenza da suora all’Ordine delle Canonichesse Regolari, i monaci Canonici Regolari di sant’Agostino promossero la sua causa di beatificazione, che subì varie battute di arresto, interventi di vescovi e dello stesso papa Leone XIII, coinvolgimenti nelle vicende politiche della Germania, ecc., finché il 4 maggio 1981 ci fu il decreto sull’introduzione della causa. 
Finalmente questa venerabile suora, mistica, veggente, stigmatizzata del secolo XVIII, è giunta alla fine di un lungo processo di canonizzazione, durato più di 135 anni, san Giovanni Paolo II, papa l’ha scritta nell’albo dei Beati il 3 ottobre 2004. 
Sia Anna Caterina che il poeta Brentano non erano mai stati in Terra Santa, eppure Anna Caterina ha descritto con sorprendente precisione della casa di Efeso dove vissero San Giovanni e la Madonna.
Alcuni archeologi austriaci, fra cui Il ricercatore francese Julien Dubiet presero sul serio le visioni della monaca agostiniana e, tracciando una mappa topografica basata sulle sue indicazioni, riportarono alla luce, in Turchia a 9 km da Efeso, alcuni resti (mura perimetrali e focolare) di una casa che identificarono come l'antica abitazione nella quale la  Vergine Maria e San Giovanni Evangelista vissero dopo la morte di Gesù.
L’edificio, nonostante le trasformazioni subite nel tempo, a nove chilometri a sud di Efeso, su un fianco dell'antico monte Solmisso di fronte al mare, esattamente come aveva indicato la beata Emmerich. La validità delle visioni di Caterina e del relativo ritrovamento, venne confermata anche dalle ricerche archeologiche condotte nel 1898 da alcuni esperti austriaci.
 Gli archeologi ebbero modo di appurare che l’edificio - almeno nelle sue fondamenta - risaliva al I secolo d.C.
Meryem Ana è visitato ogni anno da migliaia di pellegrini. 
La chiesa cattolica non si è mai ufficialmente pronunciata ma il sito è stato meta dei pellegrinaggi dei papi Paolo VI (26 luglio 1967), Giovanni Paolo II (30 novembre 1979) e Benedetto XVI (29 novembre 2006).


Nella foto io e mio marito in visita a Mary Ana. La casa è su una collina e, ai tempi di Maria il mare era visibile ad occhio nudo, ora è distante una trentina di chilometri.

Mi piace immaginare Maria, al tramonto, seduta proprio lì, dove siamo seduti noi, guardare il tramonto sul mare.


"Anche se rimanesse un solo cattolico, la Chiesa vincerebbe di nuovo, perché non si fonda sui consigli e sull'intelligenza umani."

- Beata Caterina Emmerick -
Flamske (Germania), 8 settembre 1774 – Dülmen, 9 febbraio 1824



Buona giornata a tutti. :-)


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giovedì 18 agosto 2016

Vladimir Majakovskij - biografia


Il 7 luglio 1893 nasceva a Bagdati, in Georgia, Vladimir Vladimirovič Majakovskij, grande poeta e drammaturgo russo.
In suo onore la città natale di Bagdati fu chiamata, dal 1940 a 1990, con il suo nome: Majakovskij.
Suo padre era un nobile decaduto che si prestava a lavori umili. Negli anni dell’infanzia del poeta faceva il guardiaboschi.
Rimasto orfano di padre a soli sette anni, trascorse periodi difficili. A tredici anni si trasferì a Mosca con la madre e le sorelle.
Studiò al ginnasio fino al 1908, quando si dedicò all'attività rivoluzionaria. Aderì al Partito Operaio Socialdemocratico Russo e venne per tre volte arrestato e poi rilasciato dalla polizia zarista.
Frequentò il carcere per brevi periodi di tempo, prima di iscriversi - nel 1911 - all'Accademia di Pittura, Scultura e Architettura di Mosca: qui ebbe l'opportunità di incontrare David Burljuk, che gli offrì 50 copechi al giorno per scrivere, dopo aver letto con entusiasmo alcuni suoi versi.
Nel maggio del 1913, quindi, Vladimir Majakovskij ebbe l'opportunità di pubblicare in trecento copie litografate "Ja!" ("Io!", in italiano), la sua prima raccolta di poesie: pochi mesi dopo una rappresentazione teatrale omonima, in cui venne lanciata da Vladimir la celebre equazione che equipara il futurismo alla rivoluzione russa, fu messa in scena in un teatro di San Pietroburgo.
Aderì quindi al cubofuturismo russo, firmando nel 1912 insieme ad altri artisti (Burljuk, Kamenskij, Kručёnych, Chlebnikov) il relativo manifesto.
Il Futurismo (o Cubofuturismo) russo ebbe due periodi di sviluppo: tra il 1910 e il 1915, sotto l’influenza soprattutto di Chlebnikov; tra il 1918 e il 1930, sotto quella di Majakovskij.
Velimir Chlebnikov, promosse nel 1909 la pubblicazione del primo almanacco futurista, dando il via al movimento.
L’irruzione della modernità si sposò, nell’opera di Chlebnikov, al recupero delle grandi civiltà del passato, soprattutto asiatiche, condotto per mezzo di un impiego personalissimo del linguaggio.
Majakovskij, come detto, firmò il manifesto «Schiaffo al gusto corrente», mettendosi presto in risalto.
Seguirono anni di laborioso apprendistato letterario, vissuti con l’entusiasmo delle serate futuriste, delle redazioni di giornali d’avanguardia, dell’attesa di uno scoppio rivoluzionario.
L’esperienza della guerra inorridiva il poeta. Dopo vari lavori teatrali e poetici (tra cui “La nuvola in calzoni”, 1915), pubblicò “Il flauto di vertebre” nel 1916. Allo scoppio della rivoluzione bolscevica si impegnò in prima linea per «consegnare tutta la letteratura a tutto il popolo»: la creazione di un’arte nuova, autenticamente liberata dalle convenzioni borghesi e disponibile alla nuova società proletaria, fu al centro della sua ricerca, tanto teorica e creativa quanto organizzativa. Accanto ai numerosi impegni ufficiali s’incaricò di realizzare le «finestre» (manifesti di propaganda), componendone oltre tremila tra il 1919 e il 1923. Nel 1920 uscì anonimo il poema “150.000.000”, dedicato alla rivoluzione socialista.
Majakovskij mise così la sua arte, così ricca di pathos, al servizio della rivoluzione bolscevica, sostenendo la necessità d'una propaganda che attraverso la poesia divenisse espressione immediata della rivoluzione in atto, in quanto capovolgimento dei valori sentimentali ed ideologici del passato.
Il futurismo russo fu diverso da quello italiano, sotto alcuni importanti aspetti. Quando nel 1914 Marinetti si recò a Mosca l'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Quest’ultimo tentò invano di chiamare i futuristi russi a unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsic, Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.
In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da Majakovski, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo, mentre il futurismo italiano, soprattutto quello della seconda stagione, ebbe un effettivo legame con il regime fascista.
La voracità intellettuale di Majakovski fu leggendaria, la sua presenza fisica imponente ne fece una sorta di divo spettacolare.
Il successo debordante e del tutto imprevisto.
L'adesione di Majakovskij alla Rivoluzione d'Ottobre lo rese ancor più popolare e amato. La celebrazione dell'industrializzazione sovietica, poi, non fece altro che proiettarne la figura ai ranghi elevati dell'intellighentsija rivoluzionaria.
Nel maggio del 1925 partì alla volta dell'America, che raggiungerà nel luglio dello stesso anno per trattenervisi circa tre mesi annotando versi e impressioni su un taccuino. Tornato in URSS pubblicò 22 poesie del cosiddetto “Ciclo americano” su alcune riviste e giornali nel periodo compreso tra il dicembre del 1925 e il gennaio 1926 e gli scritti in prosa nel 1926 con il titolo di La mia scoperta dell'America.
Da questi scritti l'atteggiamento di Majakovskij nei confronti degli Stati Uniti appare contraddittorio, passa infatti a momenti di entusiasmo e attrazione ad altri di rabbia per le condizioni di semischiavitù degli operai delle fabbriche.
Nel 1926 Majakovskij si cimentò in molti cinescenari: "Ragazzi", "L'elefante e il fiammifero", "Il cuore del cinema, ovvero il cuore dello schermo", "Come state?", "L'amore di Sckafoloubov, ovvero due epoche, ovvero un cicisbeo da museo" e "Dekabriuchov e Oktiabriuchov".
Successivamente pubblicò il dramma "Mistero buffo", in cui delineò gli aspetti comici della rivoluzione: sempre sulla stessa scia si inserirono le commedie "Il bagno" e "La cimice" e i poemi "Bene!" e "Lenin", in cui manifestò e rappresenta in modo critico i problemi della quotidianità del mondo borghese.
L'ultima opera di Majakovskij, uno dei punti più alti della sua poesia, fu il prologo di un poema incompiuto, ”A piena voce”, del 1930, che potrebbe quasi dirsi il suo testamento spirituale.
Sovente Majakovskij è stato considerato per antonomasia il poeta della Rivoluzione: tra le tantissime voci poetiche che la Russia seppe regalare alla cultura mondiale nei primi decenni del Novecento, quella di Majakovskij è stata spesso vista come la più rispondente ai dettami della Rivoluzione bolscevica.
Majakovskij decise di interrompere violentemente la sua esistenza, con un colpo di pistola al cuore, il 14 aprile del 1930, a 37 anni.
Mai del tutto chiariti i motivi del gesto.
Forse le crescenti critiche dell’apparato statale, ormai burocratizzato.
Forse qualche vicenda passionale. Probabilmente la somma di tante insoddisfazioni.
Serena Vitale, nel suo libro “Il defunto odiava i pettegolezzi” (Adelphi Fabula), compie una minuziosa indagine documentaria, ricostruzione e racconto del suicidio di Majakovskij. “Il cadavere di Majakovskij, riportano i verbali, indossa una camicia di colore giallastro con una cravatta nera (a farfalla)… Sulla parte sinistra del torace c’è un foro di forma irregolare… La circonferenza del foro presenta segni di bruciatura. Da anni ha dismesso il giallo esuberante cantato nella Blusa del bellimbusto: “Io mi cucirò neri calzoni / del velluto della mia voce. / E una gialla blusa di tre tese di tramonto”. Nei ricordi della sorella Ljudmila, i ragazzi Majakovskij avevano amato il giallo fin dall’infanzia perché simboleggiava l’originaria Georgia assolata”.

Ha scritto Cecilia Bello Minciacchi su “Il Manifesto” del 7.6.2015:

“Era diventato politicamente ingombrante, Majakovskij, il poeta della rivoluzione, e vulnerabile. Alla vigilia della morte era pieno di furore e di rabbia, e di amore, eppure non lo abbandonava l’autocoscienza:
«Conosco la forza delle parole lo scampanare a stormo / un niente sembra / petalo schiacciato dai tacchi delle danze / ma in anima e labbra e scheletro l’uomo»”.

Nella sua lettera di commiato scrisse:

“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi.
Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol'dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un'esistenza decorosa, ti ringrazio. Come si dice, l'incidente è chiuso. La barca dell'amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”.




mercoledì 27 aprile 2016

Il Passato - Emily Dickinson

E' una curiosa creatura il passato
Ed a guardarlo in viso
Si può approdare all'estasi
O alla disperazione.

Se qualcuno l'incontra disarmato,
Presto, gli grido, fuggi!

Quelle sue munizioni arrugginite
Possono ancora uccidere!

- Emily Dickinson - 



Dipinto: Elihu Vedder (1836-1923), The Hearth of the Rose



Mi son nascosta nel mio fiore,
così che, quando appassirà dentro il tuo vaso,
per me tu senta, senza sospettarlo,
quasi una solitudine.

 - Emily Dickinson -



Ophelia - Jules Joseph Lefebvre

Amarti anno dopo anno - 
può sembrare meno 
di sacrificio, e conclusione - 
eppure, caro, 
il sempre potrebbe essere breve, vorrei mostrarti - 
perciò l'ho congiunto, ora, con un fiore. 

- Emily Dickinson -  





Emily Elizabeth Dickinson nasce 10 dicembre 1830 ad Amherst (Massachusetts), in una stimata famiglia, frequenta la scuola sino alle scuole superiori, cosa anomala per l’epoca. 
A soli 23anni decide di ritirarsi in una vita solitaria ed appartata non giustificata da problemi fisici. 
Rimane quindi irrisolto il mistero Emily Dickinson, affidato all'insondabilità della sua coscienza più profonda. Manifesta un carattere contraddittorio e complesso, venato da una fierezza irriducibile. 
Studia in casa come autodidatta, scrive lettere alle quali spesso allega le sue poesie. Compie brevi viaggi, incontra ed entra in amicizia con scrittori, filosofi. 
La casa dei Dickinson è praticamente il centro della vita culturale del piccolo paese, dunque uno stimolo continuo all'intelligenza della poetessa, che in questo periodo incomincia a raccogliere segretamente i propri versi in fascicoletti. 
In pochi anni viene colpita da una serie di disgrazie familiari, muore il padre, l’anno dopo la madre, alcuni amici con i quali era in contatto epistolare. 
I suoi scritti non sono mai stati pubblicati. 
Solo dopo la sua morte avvenuta il 15 maggio 1886 la sorella Vinnie scopre i versi nascosti e fa pubblicare 1775 poesie. 
Una rivelazione editoriale che, grazie all'enorme potenza sensitiva, mentale e metafisica della poesia di Emily Dickinson, ha dato il via ad un vero e proprio fenomeno di culto.
per saperne di più: http://it.wikipedia.org/wiki/Emily_Dickinson





Buona giornata a tutti. :-)



domenica 17 gennaio 2016

Sant'Antonio Abate, vita, storia e leggende

Antonio nacque verso il 250 da una agiata famiglia di agricoltori nel villaggio di Coma, attuale Qumans in Egitto e verso i 18-20 anni rimase orfano dei genitori, con un ricco patrimonio da amministrare e con una sorella minore da educare. 
Non erano ancora trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando un giorno, mentre si recava, com'era sua abitudine, alla celebrazione eucaristica, andava riflettendo sulla ragione che aveva indotto gli apostoli a seguire il Salvatore, dopo aver abbandonato ogni cosa.
Richiamava alla mente quegli uomini, di cui si parla negli Atti degli Apostoli che, venduti i loro beni, ne portarono il ricavato ai piedi degli apostoli, perché venissero distribuiti ai poveri. Pensava inoltre quali e quanti erano i beni che essi speravano di conseguire in cielo.
Meditando su queste cose entrò in chiesa, proprio mentre si leggeva il vangelo e sentì che il Signore aveva detto a quel ricco: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi e avrai un tesoro nei cieli» (Mt 19, 21). 
Allora Antonio, come se il racconto della vita dei santi gli fosse stato presentato dalla Provvidenza e quelle parole fossero state lette proprio per lui, uscì subito dalla chiesa, diede in dono agli abitanti del paese le proprietà che aveva ereditato dalla sua famiglia possedeva infatti trecento campi molto fertili e ameni perché non fossero motivo di affanno per sé e per la sorella. 
Vendette anche tutti i beni mobili e distribuì ai poveri la forte somma di denaro ricavata, riservandone solo una piccola parte per la sorella. Partecipando un'altra volta all'assemblea liturgica, sentì le parole che il Signore dice nel vangelo: «Non vi angustiate per il domani» (Mt 6, 34). 
Non potendo resistere più a lungo, uscì di nuovo e donò anche ciò che gli era ancora rimasto. 
Affidò la sorella alle vergini consacrate a Dio e poi egli stesso si dedicò nei pressi della sua casa alla vita ascetica, e cominciò a condurre con fortezza una vita aspra, senza nulla concedere a se stesso.
Egli lavorava con le proprie mani: infatti aveva sentito proclamare: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3, 10). 

Con una parte del denaro guadagnato comperava il pane per sé, mentre il resto lo donava ai poveri. 
Trascorreva molto tempo in preghiera, poiché aveva imparato che bisognava ritirarsi e pregare continuamente (cfr. 1 Ts 5, 17). 
Era così attento alla lettura, che non gli sfuggiva nulla di quanto era scritto, ma conservava nell'animo ogni cosa al punto che la memoria finì per sostituire i libri. 
Tutti gli abitanti del paese e gli uomini giusti, della cui bontà si valeva, scorgendo un tale uomo lo chiamavano amico di Dio e alcuni lo amavano come un figlio, altri come un fratello (...)
Antonio fu probabilmente fu il primo a instaurare una vita eremitica e ascetica nel deserto della Tebaide, e  ne fu senz’altro l’esempio più stimolante e noto, ed è considerato il caposcuola del Monachesimo.
Conoscitore profondo dell’esperienza spirituale di Antonio, fu s. Atanasio (295-373) vescovo di Alessandria, suo amico e discepolo, il quale ne scrisse una bella e veritiera biografia.
Alla ricerca di uno stile di vita penitente e senza distrazione, chiese a Dio di essere illuminato e così vide poco lontano un anacoreta come lui, che seduto lavorava intrecciando una corda, poi smetteva si alzava e pregava, poi di nuovo a lavorare e di nuovo a pregare; era un angelo di Dio che gli indicava la strada del lavoro e della preghiera, che sarà due secoli dopo, la regola benedettina “Ora et labora” del Monachesimo Occidentale.
Antonio, dunque, non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in quel momento la vita di ascesi, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le parole di Paolo: Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi. 
Ricordava anche le parole del profeta Elia che dice: È vivente il Signore alla cui presenza io oggi sto. Osservava infatti che, dicendo « oggi », il profeta non misurava il tempo trascorso, ma, come se ogni volta incominciasse, cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna apparire a Dio: con cuore puro, pronto a obbedire alla sua volontà e a nessun altro. 
Diceva tra sé e sé: L’asceta deve imparare sempre a ordinare la propria vita guardando a quella del grande Elia come in uno specchio (...)
Un giorno uscì e tutti i monaci gli vennero incontro e lo pregarono di tenere loro un discorso. Ed egli rivolse loro queste parole in lingua egiziana.

« Le Scritture sono sufficienti alla nostra istruzione, ma è bello esortarci vicendevolmente nella fede e incoraggiarci con le nostre parole. 
Voi, dunque, come figli, portate al padre quello che sapete e ditemelo; io più anziano di voi, vi affiderò quello che so e che ho imparato dall’esperienza. Per prima cosa sia questo lo sforzo comune a tutti: non cedere all’indolenza dopo che abbiamo iniziato, non scoraggiarci nelle fatiche e non dire: “Da molto tempo pratichiamo l’ascesi”; piuttosto, accresciamo il nostro zelo come se incominciassimo ogni giorno. 
L’intera vita dell’uomo è brevissima a paragone dei secoli futuri, tutto il nostro tempo è niente di fronte alla vita eterna. Ogni cosa nel mondo viene venduta secondo il suo prezzo e scambiata con altre cose che sono di pari valore, ma la promessa della vita eterna si compra a un bassissimo prezzo. Sta scritto: I giorni della nostra vita sono settanta anni, ottanta se vi sono le forze e la maggior parte è pena e fatica. 
Quand’anche avessimo perseverato nell’ascesi tutti gli ottanta o i cento anni, non regneremo per cento anni, ma, invece di cento anni, regneremo nei secoli dei secoli e,  dopo aver lottato sulla terra, non è sulla terra che otterremo l’eredità, ma riceveremo la promessa nei cieli e, deposto il corpo corruttibile, ne riceveremo uno incorruttibile".
Dopo qualche anno di questa edificante esperienza, in piena gioventù cominciarono per lui durissime prove, pensieri osceni lo tormentavano, dubbi l’assalivano sulla opportunità di una vita così solitaria, non seguita dalla massa degli uomini né dagli ecclesiastici, l’istinto della carne e l’attaccamento ai beni materiali che erano sopiti in quegli anni, ritornavano prepotenti e incontrollabili.
Chiese aiuto ad altri asceti, che gli dissero di non spaventarsi, ma di andare avanti con fiducia, perché Dio era con lui e gli consigliarono di sbarazzarsi di tutti i legami e cose, per ritirarsi in un luogo più solitario.
Così ricoperto appena da un rude panno, si rifugiò in un’antica tomba scavata nella roccia di una collina, intorno al villaggio di Coma, un amico gli portava ogni tanto un po’ di pane, per il resto si doveva arrangiare con frutti di bosco e le erbe dei campi.
In questo luogo, alle prime tentazioni subentrarono terrificanti visioni e frastuoni, in più attraversò un periodo di terribile oscurità spirituale, ma tutto superò perseverando nella fede in Dio, compiendo giorno per giorno la sua volontà, come gli avevano insegnato i suoi maestri.
Quando alla fine Cristo gli si rivelò illuminandolo, egli chiese: “Dov’eri? Perché non sei apparso fin da principio per far cessare le mie sofferenze?”
Si sentì rispondere: “Antonio, io ero qui con te e assistevo alla tua lotta…”.
Scoperto dai suoi concittadini, che come tutti i cristiani di quei tempi, affluivano presso gli anacoreti per riceverne consiglio, aiuto, consolazione, ma nello stesso tempo turbavano la loro solitudine e raccoglimento, allora Antonio si spostò più lontano verso il Mar Rosso.
Sulle montagne del Pispir c’era una fortezza abbandonata, infestata dai serpenti, ma con una fonte sorgiva e qui nel 285 Antonio si trasferì, rimanendovi per 20 anni.
Due volte all’anno gli calavano dall’alto del pane; seguì in questa nuova solitudine l’esempio di Gesù, che guidato dallo Spirito si ritirò nel deserto “per essere tentato dal demonio”; era comune convinzione che solo la solitudine, permettesse alla creatura umana di purificarsi da tutte le cattive tendenze, personificate nella figura biblica del demonio e diventare così uomo nuovo.
Certamente solo persone psichicamente sane potevano affrontare un’ascesi così austera come quella degli anacoreti; non tutti ci riuscivano e alcuni finivano per andare fuori di testa, scambiando le proprie fantasie per illuminazioni divine o tentazioni diaboliche.
Non era il caso di Antonio; attaccato dal demonio che lo svegliava con le tentazioni nel cuore della notte, dandogli consigli apparentemente di maggiore perfezione, spingendolo verso l’esaurimento fisico e psichico e per disgustarlo della vita solitaria; invece resistendo e acquistando con l’aiuto di Dio, il “discernimento degli spiriti”, Antonio poté riconoscere le apparizioni false, compreso quelle che simulavano le presenze angeliche.
E venne il tempo in cui molte persone che volevano dedicarsi alla vita eremitica, giunsero al fortino abbattendolo e Antonio uscì come ispirato dal soffio divino; cominciò a consolare gli afflitti ottenendo dal Signore guarigioni, liberando gli ossessi e istruendo i nuovi discepoli.
Si formarono due gruppi di monaci che diedero origine a due monasteri, uno ad oriente del Nilo e l’altro sulla riva sinistra del fiume, ogni monaco aveva la sua grotta solitaria, ubbidendo però ad un fratello più esperto nella vita spirituale; a tutti Antonio dava i suoi consigli nel cammino verso la perfezione dello spirito uniti a Dio.
Nel 307 venne a visitarlo il monaco eremita s. Ilarione (292-372), che fondò a Gaza in Palestina il primo monastero, scambiandosi le loro esperienze sulla vita eremitica; nel 311 Antonio non esitò a lasciare il suo eremo e si recò ad Alessandria, dove imperversava la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore romano Massimino Daia († 313), per sostenere e confortare i fratelli nella fede e desideroso lui stesso del martirio.
Forse perché incuteva rispetto e timore reverenziale anche ai Romani, fu risparmiato; le sue uscite dall’eremo si moltiplicarono per servire la comunità cristiana, sostenne con la sua influente presenza l’amico vescovo di Alessandria, s. Atanasio che combatteva l’eresia ariana, scrisse in sua difesa anche una lettera a Costantino imperatore, che non fu tenuta di gran conto, ma fu importante fra il popolo cristiano.
Tornata la pace nell’impero e per sfuggire ai troppi curiosi che si recavano nel fortilizio del Mar Rosso, decise di ritirarsi in un luogo più isolato e andò nel deserto della Tebaide, dove prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione.
Visse nella Tebaide fino al termine della sua lunghissima vita, poté seppellire il corpo dell’eremita s. Paolo di Tebe con l’aiuto di un leone, per questo è considerato patrono dei seppellitori.
Negli ultimi anni accolse presso di sé due monaci che l’accudirono nell’estrema vecchiaia; morì a 106 anni, il 17 gennaio del 356 e fu seppellito in un luogo segreto.
La sua presenza aveva attirato anche qui tante persone desiderose di vita spirituale e tanti scelsero di essere monaci; così fra i monti della Tebaide (Alto Egitto) sorsero monasteri e il deserto si popolò di monaci; primi di quella moltitudine di uomini consacrati che in Oriente e in Occidente, intrapresero quel cammino da lui iniziato, ampliandolo e adattandolo alle esigenze dei tempi.
Fonte: S. Atanasio, "Vita di Antonio", 2. 7. 16.



Sant'Antonio Abate, il diavolo, il maialino e il fuoco


"Sant'Antonio, sant'Antonio lu nemico de lu dimonio...", recita la filastrocca di un vecchio canto popolare dedicato al santo celebrato  il 17 gennaio: Sant'Antonio Abate.
Le leggendarie e diaboliche "tentazioni di Sant'Antonio" quando si era ritirato nel deserto della Tebaide come eremita, sono state raffigurate dagli artisti di ogni epoca.
Sono molte leggende sulla sua vita raccontate nella "Leggenda Aurea" di Jacopo da Varazze.



E a proposito di leggende: sapete perché viene raffigurato di solito con un maialino ai piedi, un bastone a forma di Tau, una campanella e una fiammella in mano?



Sant'Antonio e il fuoco agli uomini

In Sardegna, si racconta questa leggenda.
Una volta nel mondo non c'era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant'Antonio, che stava nel deserto, per implorarlo perchè facesse qualcosa per loro. Sant'Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all'inferno, decise di andare a prenderlo.

Col suo porchetto e col suo bastone di férula, Sant' Antonio si presentò, dunque, alla porta dell'inferno e bussò: - Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare. I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo e dissero: - No, no! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te proprio no.
E così il porchetto entrò.
Ma appena dentro, l'animale si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più. Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.- Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere.
Sant'Antonio entrò nell' inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto. - Visto che ci sono, - disse Sant'Antonio, - mi siedo un momento per scaldarmi. E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli. Infatti, ogni tanto, davanti a lui ne passava uno di corsa. E Sant'Antonio, col suo bastone di fèrula, giù una legnata sulla schiena! Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono: - Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone. Glielo strapparono di mano e ne fìccarono la punta tra le fiamme.
Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all'aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel... diavolo di porchetto. 

- Se volete che lo faccia star buono, - disse Sant'Antonio, - dovete ridarmi il mio bastone. Glielo restituirono ed il porchetto stette subito buono.
Ma il bastone era di fèrula ed il legno di fèrula ha il midollo spugnoso. 

Se una scintilla entra nel midollo questo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda. Così i diavoli non si accorsero che Sant'Antonio aveva il fuoco nel bastone.
Quando il Santo se ne uscì, i diavoli tirarono un sospiro di sollievo. Appena fu fuori, Sant'Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione. 

E cantò: - Fuoco, fuoco, per ogni loco; fuoco per tutto il mondo fuoco giocondo!
Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla Terra e Sant'Antonio tornò nel suo deserto a pregare. 

E la campanella?

Qui' c'e' una spiegazione storica.
Quando nel IX secolo le reliquie di sant'Antonio furono traslate da Costantino­poli alla Motte-Saint-Didier, in Francia, venne costituito nel centro che già ospitava i benedettini di Mont Majeur una comunità ospedaliera laica per curare i malati di ergotismo, un male causato dall' avvele­namento di un fungo presente nella segala usata per la pani­ficazione.
Il morbo era co­no­sciuto fin dall'antichità come ignis sacer per il bruciore che provo­cava.
Bruciori che, così come quelli provocati dal virus dello Herpes Zoster, si riuscivano a lenire con il grasso della cotenna del maiale.
Quella prima comunità di "volontari" si trasformò prima in una Confraternita e poi nell'Ordine Ospedaliero dei canonici regolari di sant'Agostino di sant'Antonio Abate, detto comunemente degli Antoniani.
L'Ordine venne approvato nel 1095 da Papa Urbano II al Concilio di Clermont e nel 1218 fu confermato con bolla papale di Onorio III.
Uno dei più antichi privilegi che i papi accordarono agli Antoniani fu di poter allevare maiali per uso proprio: il loro grasso, infatti era usato come medicamento nella cura dell'ergotismo e dello herpes zoster che vennero chiamate perciò popolarmente "male di sant'Anto­nio" "fuoco di sant' Antonio".
Il singolare allevamento avveniva a spese della comunità, che alimentava i maialini; i quali potevano circolare liberamente fra vie e cortili portando una campanella di riconoscimento.
E perciò in alcuni paesi dell'Italia vi è ancora l'usanza di allevare "il porcellino di Sant'Antonio" che uno speciale comitato cittadino acquista durante le fiere di agosto o per Santa Lucia.
Poi all'eremita egiziano si attribuì proprio il patronato sui maiali e per estensione su tutti gli altri animali domestici.
E perciò il giorno della sua festa sui sagrati di molte chiese si benedicono gli animali domestici di cui sant'Antonio è il patrono: cani, gattini, cavalli, asini, ma anche usignoli, cardellini, tartarughe sono condotti dai loro padroni in un'atmosfera di comunione da paradiso
.



nella foto: grotta di S.Antonio Abate -Egitto



Per millenni e ancora oggi, si usa nei paesi accendere il giorno 17 gennaio, i cosiddetti “focarazzi” o “ceppi” o “falò di s. Antonio”, che avevano una funzione purificatrice e fecondatrice, come tutti i fuochi che segnavano il passaggio dall’inverno alla imminente primavera. Le ceneri poi raccolte nei bracieri casalinghi di una volta, servivano a riscaldare la casa e con apposita campana fatta con listelli di legni per asciugare i panni umidi.




















1. Pisanello, Madonna tra i Santi Antonio Abate e Giorgio, 1445 circa,    National Gallery di Londra;
2. Piero di Cosimo, Visitazione con San Nicola e Sant'Antonio Abate, 1490 circa,    NationalGallery of Art, Washington;
3. Sassetta, Sant'Antonio Abate e San Paolo Eremita, 1440 circa, National Gallery of Art, Washington;
4. Diego Velázquez, Sant'Antonio Abate e San Paolo Eremita, 1635 circa, Museo del Prado, Madrid;
5. Hieronymus Bosch, Tentazioni di S. Antonio, 1505 circa, Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona;
6. David Teniers il Giovane, Tentazioni di Sant'Antonio, Museo del Prado, Madrid;
7. Paul Cézanne, Tentazioni di Sant'Antonio, 1875 circa, E. G. Bührle Collection (Svizzera). 




È invocato contro tutte le malattie della pelle e contro gli incendi. Veneratissimo lungo i secoli, il suo nome è fra i più diffusi del cattolicesimo, anche se poi nella devozione onomastica è stato soppiantato dal XIII sec. dal grande omonimo santo taumaturgo di Padova.

Nell’Italia Meridionale per distinguerlo è chiamato “Sant’Antuono”.






....L'infermità più grave dell'anima, la sventura più disastrosa É il non conoscere Dio che ha creato tutto per l'uomo e gli ha dato la mente e la parola, con le quali, ascendendo verso l'alto, può entrare in comunione con Lui e vivere nella chiara contemplazione del suo Volto.

- Sant' Antonio Abate -





La pace è a prezzo della moderazione dei desideri. La ricerca di aver sotto di sè schiavi, braccianti, o di possedere armenti, per esempio, ci rende vincolati alle preoccupazioni che queste cose producono e con facilità siamo portati a lamentarci con Dio. Il nostro desiderare continuo ci riempie di agitazione, ci fa muovere nell'oscurità di una vita peccaminosa e ci impedisce la conoscenza di noi stessi.


- Sant'Antonio abate - 




...La morte, per chi sa comprenderla, è immortalità...ma per gli ignoranti, 
che non comprendono, essa è solo la morte. 
Non e questa morte che dobbiamo temere, ma la perdita dell'anima che è la non conoscenza di Dio. 
Questo è cosa tremenda per l'anima ! 


- Sant’ Antonio Abate . 













per sorridere un po ....buona giornata a tutti :-)

www.leggoerifletto.it