Vorrei essere molto semplice come la luna di
stasera, per esempio, o una distesa verde. Di sicuro mi prendo ancora
troppo sul serio.
Ho di nuovo gironzolato attorno all'IJsclub
neanche fossi sbronza e rivolto sciocche osservazioni all'eterna luna. Mica
è nata ieri, quella luna.
Quella baracca talvolta al chiaro di luna,
fatta d'argento e d'eternità: come un giocattolino sfuggito alla mano distratta
di Dio.
Non è passato neppure un mese, era il 27
agosto a mezzanotte, da quando Joop mi aveva scritto: “Eccomi di nuovo seduto
con le gambe che penzolano fuori dalla finestra, ad ascoltare l'immenso
silenzio. Il campo di lupini, ora senza i suoi colori esultanti, è immerso
nella luce violenta e confortante della luna. Tutto è di una solennità e di una
pace che mi rendono muto e serio. Salto giù dalla finestra, faccio pochi passi
sulla sabbia soffice e guardo la luna”. E poi finisce quella lettera notturna,
scritta con la sua calligrafia compatta e fitta su una brutta carta: “Capisco
che si possa dire: qui si può solo fare un gesto: inginocchiarsi. No, non l'ho
fatto, non lo trovo necessario, mi sono inginocchiato stando seduto sulla
finestra e poi sono andato a dormire”.
Etty Hillesum e i temi del «Cantico delle creature»
STELLE
Ieri sera alle undici c'erano tre stelle
nella cornice nera della mia finestra. Adesso c'è un sottile quarto di luna.
Questa è l'ennesima mattina grigia in cui mi sono ritrovata alla mia pacifica
scrivania, accanto al faretto di alluminio acceso. Dovrebbe essere vietato
cominciare la giornata con il giornale e la radio. Questa mezz'ora è mia, tutta
mia. Ci sono momenti in cui avverto molto intensamente questa sensazione: il
momento è mio, tutto mio e il giorno può portare qualsiasi cosa, ma
quest'attimo è ormai mia inalienabile proprietà. E poi penso solo a piccolezze;
per esempio, alla burrascosa serata musicale da Leonie Wolff. A un tratto ho
visto in un angolo, contro lo sfondo rosso scuro della tenda, quei fiori
bianchi sul pavimento che se ne stavano lì a vivere quieti la propria vita. O
all'unico inerme gesto infantile di Mien Kuyper quando si è fermata ad
aspettare nel corridoio, quella sera a casa di Ungár, perché non sapeva se
andarsene o rimanere. Quella donna è una martire del talento di Mischa. Certo,
si potrebbe pure dire che è solo una vedova isterica dai capelli biondo
paglierino con un'idea fissa. Ma quel gesto commovente fa anch'esso parte
dell'immagine della persona.
Ieri sera a letto mi sentivo di nuovo come un
piccolo vaso stracolmo di pensieri e sentimenti. Uno di questi giorni le cose
cominceranno a fermentare in quel vaso. Che cosa non ho detto a quelle tre
stelle! E da quale posto del mondo e attraverso quale finestra parlerò di nuovo
a quelle stelle, pensando alla sera di ieri?
Stamattina un paio di stelle erano appese al
cielo come lucidi frutti ai rami, scuri e spogli, dell'albero fuori dalla mia
finestra.
Solo la notte prima le stelle pendevano
ancora come luminosi frutti dai suoi rami scuri, e la notte seguente si
arrampicavano, incerte, lungo lo spoglio tronco devastato. Già, quelle stelle:
per alcune notti, forse un paio, sole e perdute, graffiavano ancora la
superficie deserta, ampia del cielo.
Sì, quel Lunedì, quel Lunedì di Pasqua. Liesl
e Werner, alle due di notte, come due monelli di strada parigini seduti sul
bordo dei loro improvvisati letti da zingari nella sala. E io sul letto di
Renate: ho tolto il cartone di oscuramento dalla finestra e improvvisamente
sono apparse alcune stelle all'altro capo del letto. Non erano le stesse stelle
che vedo davanti alla mia finestra, ma ho avuto comunque un contatto con loro e
d'un tratto mi ha invasa la sensazione rassicurante che, in qualunque posto del
mondo io mi trovi, mi sarà possibile osservare le stelle e lasciarmi cadere su
un letto, o sul pavimento o chissà dove, e sentirmi a casa, dovunque.
Ero ferma sul piccolo ponte e ho guardato
oltre il canale: mi sono sciolta nel paesaggio e ho offerto tutta la mia
tenerezza a quella notte, al cielo con le sue stelle e all'acqua e al
ponticello. È stato il momento migliore della mia giornata. Sentivo che
quella era l'unica maniera per dare voce e corpo alle tante sensazioni di
tenerezza che, nel profondo, si provano per un altro: affidarle alla natura,
lasciarle scorrere sotto un cielo, notturno e libero, di primavera e sapere che
non c'è altra via d'uscita. E così sarebbe dovuta terminare la mia giornata,
sarei dovuta andare a dormire nel mio lettino da studentessa dietro la
luccicante finestra senza tende, e gli alberi sarebbero stati ancora al loro
posto.
Venerdì sera, mentre tornavo da casa sua in
bicicletta, attraverso la notte primaverile, ho sparso il grande amore e
l'immensa tenerezza che provo per lui nella notte, ne ho riversata un po' nelle
stelle e ne ho lasciata un po' nei cespugli lungo il canale. E poi:
bisogna saper reggere i propri sentimenti forti e sopportarli e farli avanzare.
Non si deve sempre desiderare di liberarsene, bisogna saperne portare il peso e
non lasciarsene distruggere, anzi, trarne energie e non solo per quell'unico
uomo ma anche per molte altre creature di Dio, che pure hanno diritto alla
nostra attenzione e al nostro amore.
Mi mancano tutti gli strumenti per completare
il mio lavoro di cesello sulle parole, quel lavoro che molto spesso mi impegna
la mente, ma nel quale rimango bloccata proprio perché mi mancano le parole.
Non posso nominare nulla della terra con il suo nome: nessuna città, nessun
fiore, nessun santo, nessun principe, nessuna stella, niente. Ho bisogno del
cosmo intero come similitudine per dare un contesto a ciò che sta nascendo dal
profondo della mia anima, con tanta potenza e colore. Devo imparare ancora
molto: i nomi che le persone attraverso le epoche hanno dato alle loro città,
ai loro fiori, alle loro stelle, per poi poterli aggiungere, come altrettanti
colori, alla mia povera tavolozza di parole.
Noi in fondo abbiamo solo da esistere, ma
con semplicità, con insistenza, come esiste la terra, docile alle stagioni,
chiara, scura, nello spazio, non chiedendo di posare se non nella rete degli
influssi e di forze in cui le stelle si sentono sicure”.
Quante volte ho pregato, neppure un anno fa:
Signore, ti prego, rendimi un po' più semplice. E se quest'anno mi ha portato
qualcosa, è stata proprio questa maggiore semplicità interiore. E credo che in
futuro riuscirò anche a esprimere le cose difficili di questa vita con parole
molto semplici. In futuro.
Dunque, con quell'unica camicia nello zaino
me ne vado incontro a un “avvenire sconosciuto”. Così si dice. Ma sotto i miei
piedi girovaghi non c'è forse dappertutto la stessa terra? E lo stesso
cielo - ora con la luna, ora col sole, per non parlare di tutte le stelle - non
si stende forse sopra i miei occhi rapiti? Perché si dovrebbe parlare di un
“avvenire sconosciuto”?
Etty Hillesum e i temi del «Cantico delle creature»