Il prezioso tesoro del Regno di Dio è affidato alle nostre fragili mani, come vasi di creta.
E questo suscita ancora stupore, come lo stupore dell’incredulità dei concittadini che non riconoscono nel figlio di Giuseppe l’atteso e lo stupore del Maestro davanti alla durezza dei loro e dei nostri cuori.
Che burlone Dio che affida l’annuncio del Regno a persone balbuzienti, come Mosè!
Come Amos, ognuno di noi è strappato alla sua quotidianità per diventare profeta, per contrapporsi al profeta di corte, Amasia, pagato per applaudire alle opere del re Geroboamo.
Come i discepoli, Gesù invia tutti a noi a preparargli la strada, ad annunciare il vangelo.
Siamo mandati a preparare la venuta del Signore, non a sostituirlo, a testimoniare la sua presenza attraverso la nostra esperienza.
La Chiesa è sempre e solo preparazione all’ incontro con Dio, è a totale servizio del Regno, lo accoglie e, per quanto riesce, lo realizza.
Non siamo inviati a vendere un prodotto, ma ad annunciare e a suscitare una salvezza: la nostra.
Vedendo che viviamo da salvati, uomini e donne in cerca di risposte e di speranza si interrogano e richiedono ragione della speranza che è in noi.
Marco pone delle condizioni all’annuncio, una sintesi per ricordare ai discepoli con quale stile sono chiamati ad annunciare il Regno.
I discepoli sono mandati ad annunciare il Regno a due a due.
Non esistono navigatori solitari tra i credenti, tutta la credibilità dell’annuncio si gioca sulla sfida del poter costruire comunità.
Al geniale guru solitario Gesù preferisce il faticoso percorso della condivisione fra anime: è l’amore che abbiamo fra di noi che annuncia, non la dialettica spettacolare.
Parlare della comunità in termini astratti è bello e poetico; vivere nella propria comunità, concreta con quel membro del gruppo, con quel viceparroco, con quel cantore, è un altro affare.
Le piccinerie che emergono dagli ambienti vaticani ancora ci ricordano che è la comunione a rendere testimonianza della verità delle nostra parole. No, non mi scandalizzo delle manovre vaticane, finché non riesco a superare quelle della mia parrocchia.
Gesù ci tiene alla scommessa della convivenza, fatta per amore al Vangelo, pone quel a due a due come condizione prioritaria all’annuncio.
Al di sopra delle simpatie e dei caratteri, Gesù ci invita ad andare all’ essenziale, a non fermarci alle sensazioni di pelle, a credere che la testimonianza della comunione, nonostante noi, può davvero spalancare i cuori.
La Chiesa non è il club dei bravi ragazzi, non ci siamo scelti, Gesù ci ha scelto per avere potere sugli spiriti immondi.
La Parola che professiamo e viviamo caccia la monnezza dai cuori, la parte tenebrosa che ci abita.
Fare comunione pone un limite alle ombre che abitano in ciascuno di noi: senza eliminarle, la luce che porta il vangelo ci illumina e, così facendo, ci rende luminosi gli uni per gli altri.
(Paolo Curtaz)