L’alfabeto di oggi
I primi cristiani sono dei giudei in mezzo a una cultura diversa.
Con Paolo,
libero di farsi «tutto a tutti» (leggi la Lettera ai Galati, l’inno più bello
alla libertà), il cristianesimo si apre ai pagani. Così, in pochi secoli di
persecuzioni subìte (non fatte!), guadagna all’amore del Padre il mondo pagano.
La cultura postmoderna è diversa dalla nostra più di quanto lo fosse il
paganesimo.
Noi cristiani stiamo scomparendo perché ne ignoriamo l’alfabeto;
purtroppo ci sforziamo di insegnarle il nostro invece di imparare il suo.
Non
vediamo la bellezza di ciò che Dio va compiendo sotto i nostri occhi: oggi è
possibile il compimento della libertà dell’uomo, frutto maturo della tradizione
ebraico-cristiana. E la osteggiamo ostinatamente!
I Padri della Chiesa, come Paolo, hanno tradotto il messaggio evangelico nelle
nuove culture. Così fecero anche i cristiani caldei del Medio Oriente, i copti
d’Etiopia, quelli di san Tommaso in India. E lo stesso, secoli dopo, faranno i
gesuiti Roberto De Nobili, ancora in India, e Matteo Ricci in Cina.
Chi ama e
conosce la tradizione, non è mai «tradizionalista». Fa piuttosto come i Padri
che stanno a fondamento della tradizione: espongono le cose antiche in parole
nuove, perché tutti capiscano.
I tradizionalisti, al contrario, spiegano le
cose nuove in parole desuete, perché nessuno capisca.
Sapere è potere!
È grande
la responsabilità della conoscenza: può aprire o chiudere la porta della verità
a chi ancora non la sa (cfr Mt 23,13).
Radice d’inculturazione è la fede in Dio e non nelle proprie idee su Dio.
È
stoltezza credere alle proprie idee: sono da capire, non da credere!
È sapienza
capirle e modificarle, in dialogo con la realtà e con le prospettive altrui. In
questo padre Carlo Maria Martini è stato maestro, ascoltato da persone non credenti e
criticato dai credenti nelle proprie idee.
Non a caso Isaia, citato da Paolo,
dice: «Il bel nome di Dio è bestemmiato per causa vostra» (Rm 2,24).
L’ateismo è frutto della falsa immagine di Dio che presentiamo con parole e
fatti.
Dio non è un pacchetto di idee in formato tascabile, da consegnare mediante
catechismi.
Dio non si chiude in formule, ma si narra attraverso ciò che ha
fatto e fa in noi e fuori di noi.
Dio è un mistero, costantemente all’opera per
realizzare il suo progetto di «raccapezzare» ogni cosa in Cristo ed essere
tutto in tutti.
Padre Carlo Maria aveva l’umiltà di ascoltare ogni voce,
sapendo che Dio parla, oltre che nella Parola, in ogni realtà e nel cuore di
ogni uomo.
Fu grande maestro perché rimase sempre «discepolo», desideroso di
imparare da tutti.
Da qui il suo rispetto per ogni diversità, impronta del Dio
sempre diverso. Questo è l’humus del discernimento, che fa vedere Dio in tutte
le cose e tutte le cose in Dio, anche il mondo post-moderno.
Educare alla responsabilità
Frutto di questa fede è lo stile del suo servizio alla diocesi di Milano.
Il
«pastore bello», dice Gesù nel «recinto» del tempio, non fa come i ladri e i
briganti. Costoro tengono le pecore al chiuso, per essere munte, tosate e
infine date al «sacro macello».
Gesù invece le «scaccia fuori» da ogni recinto
(Gv 10,16), per farne non «un solo ovile», bensì un solo gregge libero.
E
lui, l’Agnello, che espone, dispone e depone le vita per le sue pecore, è il
«pastore bello» che le porta a pascoli di vita.
Il ministero pastorale di padre
Carlo Maria non era un comandare, con norme e divieti, ma un educare a
conoscenza, libertà e responsabilità.
Per questo alla «pastorale dei grandi
eventi» preferiva la formazione quotidiana, fondata sulla Parola e mirata alla
pratica.
La «pastorale dei grandi eventi» è antica.
È sorta su iniziativa di Pietro dopo
la prima giornata messianica. Ma Gesù, alla sua proposta - «Tutti ti cercano» -
risponde: «Andiamocene altrove» (Mc 1,35ss).
Questa pastorale, oggi in
auge, è simile al censimento che fece Davide per contare di quanti «militanti»
poteva disporre. Erano 800mila nel nord e 500mila nel sud. Tutti conoscono il
risultato di tale azione (leggi 2Sam 24,1ss). Non a caso il declino del
cristianesimo inizia con l’abbandono dell’umile formazione di base (penso al
lavoro dell’Azione cattolica!) per una spettacolarizzazione di cristianità che
mostra i muscoli.
La «Chiesa-evento» partorisce vento, come dice Isaia: «Abbiamo sentito i dolori
quasi dovessimo partorire: era solo vento; non abbiamo partorito salvezza al
paese, non sono nati abitanti nel mondo» (Is 26,18).
Mentre una pastorale
fondata su Parola, discernimento e testimonianza farà rinascere la Chiesa: «Di
nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri» (Is 26,19).
Lo stile di Martini è significativo per la Chiesa universale.
Superando la tendenza
a condannare il mondo, padre Carlo Maria è stato per noi ciò che Paolo è stato
nella prima Chiesa.
Vicino a un Pietro, ci vuole sempre un Paolo: la profezia
impedisce che la Chiesa punti sull’autoconservazione, annullando il disegno in
vista del quale Dio l’ha creata.
Il profeta non pensa a cosa serve
all’istituzione, ma a cosa serve l’istituzione. Paolo sa rimproverare a viso
aperto Pietro, quando non cammina secondo la verità del Vangelo (Gal 2,11-14).
Nei momenti critici si reagisce con la paura o con il coraggio.
Nel primo caso
si distrugge la Chiesa dal di dentro, nel secondo la si apre al mondo al quale
è inviata.
Il mondo non è nemico - contendente della nostra mondanità -, ma
luogo di figli di Dio, che attendono testimonianza di amore fraterno.
Solo così
tutti riconosceranno il Signore, venuto per salvare, non per giudicare, ciò che
era perduto.
Bisogna guardare il mondo con l’occhio di Dio, che tanto lo ha
amato da dare per lui il Figlio.
Una chiesa dimissionaria?
Martini soffriva per la poca fede e il poco coraggio di una Chiesa
«dimissionaria» dalla propria missione. Deve «aggiornarsi» per non dare
contro-testimonianza. Bisogna che riconosca, ad esempio, i diritti dell’uomo,
da rispettare anche al suo interno, sia per gli uomini sia, soprattutto, per le
donne. Per questo è da smontare la nostra struttura piramidale, così assurda
per il cristiano: «Non così tra voi», dice Gesù ai suoi (Mc 10,43).
È necessario passare dall’uniformità all’eterogeneità in comunione: siamo di
pari dignità, tutti figli di Dio e fratelli nella nostra diversità.
Il
sacerdozio ministeriale è a servizio di quello comune, non viceversa.
I vescovi
poi dovrebbero avere lo Spirito di Gesù e non mimare i potenti del mondo in
gesti, abbigliamenti e parole. Sarebbe meglio farli eleggere dai sacerdoti:
sarebbe forse più facile che venisse scelto non uno che vuol far carriera (vera
piaga di ogni istituzione), ma chi è più zelante, intelligente e servizievole.
Ogni conferenza episcopale potrebbe scegliere chi la rappresenti presso la
Chiesa universale. In questo modo cesserebbe lo «scisma» tra capo e corpo della
Chiesa; e si farebbe terra bruciata a persone che nella Curia sarebbe meglio
che non ci fossero. Infine, perché non smettere di considerare proprio
«appannaggio» la legge naturale, proprietà di tutti, per dedicarci a
testimoniare il Vangelo, che va in cerca di ciò che per la legge è perduto?
Chiudo con un ricordo personale. Per molti anni ho avuto il privilegio di
frequentare, ogni quindici giorni, padre Carlo Maria. Argomento del nostro
stare insieme era leggere, in modo continuativo, alcuni testi della Bibbia,
soprattutto le lettere di Paolo. Mi colpiva il suo rapporto con la Parola.
Innanzitutto l’ascoltava, lasciandosi interpellare dalle sue provocazioni, e
poi la provocava con domande attuali per ascoltare cosa avrebbe risposto. Era
un vero dialogo, non da testo a testa, ma da persona a persona, come due che
reciprocamente si apprezzano e amano. Vedevo in lui lo «scriba diventato
discepolo del regno»: dal suo tesoro estraeva cose nuove e cose antiche.
Attraverso la Parola trovava la novità delle cose antiche, colte nel loro
frutto, e l’antichità delle cose nuove, colte nella loro radice.
- Silvano Fausti SJFCSF –
Popoli.info
confratello di Martini, biblista, Fausti è
stato per lungo tempo confessore del cardinale.
Buona giornata a tutti. :-)