martedì 31 gennaio 2023

Le mele del Principe - don Bruno Ferrero

Era il 27 aprile 1865. L’Oratorio di don Bosco era in festa. Era venuto in visita il principe Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, figlio del Re. Un giovane recitò il “benvenuto” che cominciava così: Caro e diletto Principe, schiatta di santi eroi, quale pensier benefico ti mena qui fra noi?

Tutti i giovani erano schierati nello spiazzo accanto alla Basilica che stava sorgendo. Il Principe volle passarli in rivista: per due volte egli passò lentamente in mezzo a quelle schiere plaudenti, e si fermò innanzi alla banda musicale, compiacendosi nel vedere fra i suonatori alcuni giovani usciti dall’Oratorio, con la divisa del suo stesso reggimento. Il principe, commosso per le cordiali accoglienze ricevute dagli alunni dell’Oratorio, offrì una bella somma per concorrere all’innalzamento della grande chiesa, dimostrando così la sua devozione alla Madonna. Nello stesso tempo avendo conosciuto come gli alunni di don Bosco si esercitassero con piacere in giuochi di ginnastica, dispose che fosse loro recata in dono parte degli attrezzi della propria palestra.

Don Bosco lo contraccambiò di cuore con un dono singolare. Vicino al luogo della nuova chiesa, in un angolo del cortile, era cresciuto un alberello di mele, carico di fiori in primavera. Don Bosco avvertì i giovani che non toccassero quell’albero e lasciassero maturare quelle mele, perché le voleva mandare al principe Amedeo.

I giovani correvano, saltavano e nessuno toccò quell’albero, sicché le mele vennero a perfetta maturità e di una grossezza mirabile. Un giorno una mela cadde a terra. Un giovane prese una foglia, vi mise sopra il frutto, ed accompagnato da tutti gli altri, lo portò a don Bosco in refettorio. Don Bosco fece allora raccogliere le altre mele e le mandò al Principe. Il giovane Duca ringraziò don Bosco del regalo inviandogli un’altra offerta, perché comperasse altra frutta per i suoi giovani, in compenso delle saporitissime mele che essi gli avevano mandato.

Per tal modo nel corso del 1865 l’edifizio fu condotto fino al tetto e coperto; e ne fu compiuta anche la volta, ad eccezione del tratto che doveva essere occupato dalla periferia della cupola.

Mentre si andavano compiendo tali costruzioni accadde un fatto, che fece meravigliare gli operai.

Un povero rivenditore di frutta era venuto ne’ primi giorni d’estate per vendere i suoi prodotti al mercato. Avendo saputo che la chiesa di Maria Ausiliatrice si stava costruendo con il privato concorso dei fedeli, volle anch’egli prendervi parte. Con generoso sacrificio per un povero uomo chiamò il direttore dei lavori e gli consegnò tutta la sua frutta, perché la dividesse fra i muratori. Volendo poi compiere, secondo la sua espressione, l’opera incominciata, si fece aiutare a mettere sulle spalle una grossa pietra e s’incamminò su pei ponti. Tremava tutto il buon vecchio sotto il grave peso, ma salì fino alla cima. Giunto lassù depose il sasso, e tutto allegro esclamò: «Ora muoio contento, poiché spero di potere, in qualche modo, partecipare a tutto il bene che si farà in questa chiesa!»  

Da: https://bollettinosalesiano.it/rubriche/le-mele-del-principe/

Il Bollettino Salesiano al tempo di Don Bosco

Il Bollettino Salesiano è una creazione originale di Don Bosco che lo ha fondato nell’agosto del 1877. Lui stesso ha preparato il primo numero. E anche quando lo ha affidato ad altri, lo ha sempre seguito personalmente quanto a impostazione e contenuti. Dopo tanti anni, conserva una stupefacente vitalità. Il merito è tutto del suo inventore, che aveva una visione del futuro strabiliante e acuta. Don Bosco fu un comunicatore nato. Di razza, incontenibile. Nella comunicazione modificava se stesso, diventato più moderno delle sue idee, inventava pedagogie. Mostrava d’aver capito bene la civiltà industriale, di cui per principio era nemico. E come tutti i grandi comunicatori, attraeva e faceva paura. Per studiare il rapporto tra Don Bosco e i mass media bisogna partire da qui: l’ecclesiastico apparentemente moderato, e poi il saltimbanco e il prestigiatore, il prete che organizza i giovani facendoli «schiamazzare a piacimento», che fonda scuole e pubblicazioni, organizza spettacoli. E infine il suo capolavoro di comunicazione: la reinvenzione, a misura della città industriale, dell’Oratorio. Che è un sistema integrato di scuola e lavoro, tempo libero e religione: «Una macchina perfetta in cui ogni canale di comunicazione, dal gioco alla musica, al teatro alla stampa, è gestito in proprio su basi minime, e riutilizzato e discusso quando la comunicazione arriva da fuori» (Umberto Eco). La parola bollettino, secondo il dizionario, significa «pubblicazione ufficiale di comunicazioni a carattere pubblico». Aveva un’origine nobile. Deriva da “bolla” Impronta del sigillo con cui si contrassegnavano le pubbliche scritture e i documenti solenni. Le bolle papali, per intenderci. Ed è usato ancora oggi per fini molto pratici: Bollettino medico, Bollettino di guerra. Si addice ad uno stile pratico, senza fronzoli, manageriale. Per questo piacque a Don Bosco.

- Don Bruno Ferrero -


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domenica 29 gennaio 2023

da: Il gabbiano Jonathan Livingston - Richard Bach

 Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato. A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo.
E fu data la voce allo Stormo. E in men che non si dica tutto lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata. Ma lontano di là soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. Si trovava a una trentina di metri d’altezza: distese le zampette palmate, aderse il becco, si tese in uno sforzo doloroso per imprimere alle ali una torsione tale da consentirgli di volare lento. E infatti rallentò tanto che il vento divenne un fruscìo lieve intorno a lui, tanto che il mare ristava immoto sotto le sue ali.
Strinse gli occhi, si concentrò intensamente, trattenne il fiato, compì ancora uno sforzo per accrescere solo… d’un paio… di centimetri… quella… penosa torsione e…
D’un tratto gli si arruffano le penne, entra in stallo e precipita giù. I gabbiani, lo sapete anche voi, non vacillano, non stallano mai. Stallare, scomporsi in volo, per loro è una vergogna, è un disonore.

Ma il gabbiano Jonathan Livingston – che faccia tosta, eccolo là che ci riprova ancora, tende e torce le ali per aumentarne la superficie, vibra tutto nello sforzo e patapunf stalla di nuovo – no, non era un uccello come tanti.
La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa.

- Richard Bach - 
da: Il gabbiano Jonathan Livingston




Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. 
A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più d’ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo. 
Ma a sue spese scoprì che, a pensarla in quel modo, non è facile poi trovare amici, fra gli altri uccelli.
E anche i suoi genitori erano afflitti a vederlo così: che passava giornate intere tutto solo, dietro i suoi esperimenti, quei suoi voli planati a bassa quota, provando e riprovando.

- Richard Bach - 
da: Il gabbiano Jonathan Livingston



Mettere in pratica l’amore voleva dire rendere partecipe
della verità da lui appresa, conquistata,
qualche altro gabbiano che a quella stessa verità anelasse.

- Richard Bach - 
da: Il gabbiano Jonathan Livingston


Solo un paio di considerazioni su questo bel libro. Jonathan non è un ribelle: è solo un giovane gabbiano che compie ciò che "sente" di dover fare, seguendo il suo istinto, la sua mente, il suo cuore, anche se spesso questo comporta a dover fare scelte sofferte ed anche coraggiose. 
Lo stesso Bach, autore del libro, dedica la sua opera al "vero gabbiano Jonathan, che vive nel profondo di tutti noi". 
Dovremmo tutti avere il coraggio di certe azioni, senza il timore di non riuscire nel nostro intento o di rimanerne delusi. 
Solo con il coraggio riusciremo a vedere tutte quelle cose che ci faranno sentire finalmente vivi, e saremo capaci di far volare lontano quel gabbiano che è dentro nel nostro cuore.


Buona giornata a tutti. :-)


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venerdì 27 gennaio 2023

Da: “Paura dell'infinito” - Dietrich Bonhoeffer

 La paura è in un certo qual modo il nostro principale nemico. Essa si annida nel cuore dell’uomo e lo mina interiormente finché egli crolla improvvisamente, senza opporre resistenza e privo di forza.

Corrode e rosicchia di nascosto tutti i fili che ci uniscono al Signore e al prossimo. 
Quando l’essere umano in pericolo tenta di aggrapparsi alle corde, queste si spezzano, ed egli, indifeso e disperato, si lascia cadere tra le risate dell’inferno. Allora la paura lo guarda sogghignando e gli dice: ora siamo soli, tu e io, e ora ti mostro il mio vero volto.
Chi ha conosciuto e si è abbandonato a questo sentimento in un’orribile solitudine — la paura di fronte a una grave decisione, la paura di un destino avverso, la preoccupazione per il lavoro, la paura di un vizio a cui non si può più opporre resistenza e che rende schiavi, la paura della vergogna, la paura di un’altra persona, la paura di morire — sa che è soltanto una maschera del
male, una forma in cui il mondo ostile a Dio cerca di ghermirlo. 
Non c’è nulla nella nostra vita che ci renda evidente la realtà di queste forze ostili al Creatore come questa solitudine, questa fragilità, questa nebbia che si diffonde su ogni cosa, questa mancanza di vie di uscita e questa folle agitazione che ci assale quando vogliamo uscire da questa terribile disperazione. 
Avete mai visto qualcuno assalito dalla paura? Il suo viso è orribile quando è bambino e continua a essere spaventoso anche da adulto: quella fissità dello sguardo, quel tremore animalesco, quella difesa supplichevole. 
La paura fa perdere all’uomo la sua umanità. Non sembra più una creatura di Dio, ma del diavolo; diventa un essere devastato, sottomesso.
Abbiamo paura della quiete. Siamo così abituati all’agitazione e al rumore, che il silenzio ci appare minaccioso e lo rifuggiamo. 
Passiamo da un’attività all’altra per non dover stare soli, per non essere costretti a guardarci allo specchio. Ci annoiamo, a tu per tu con noi stessi. Spesso le ore che siamo costretti a trascorrere in solitudine ci sembrano le più tristi e le meno fruttuose. 
Ma non abbiamo soltanto il timore di noi e di scoprirci; temiamo molto di più l’Onnipotente. Vorremmo evitare che disturbi la nostra tranquillità e ci smascheri, creando un rapporto esclusivo a due per poi disporre di noi secondo la sua volontà. 
Questo incontro misterioso ci preoccupa e cerchiamo di sottrarci a questa esperienza. Ci teniamo alla larga dal pensiero di Dio, per evitare che Egli arrivi inaspettatamente e ci rimanga troppo vicino. Sarebbe terribile doverlo guardare negli occhi e doversi giustificare. Dal nostro volto potrebbe scomparire per sempre il sorriso. Potrebbe, per una volta, accadere qualcosa di molto serio a cui non siamo più abituati.
Questa paura è una caratteristica della nostra epoca. Viviamo con l’ansia di essere improvvisamente avvolti e manovrati dall’infinito. 
Allora preferiamo vivere in società, andare al cinema o a teatro per poi essere portati al cimitero, piuttosto che rimanere un minuto di fronte al Signore.
Nell’Apocalisse di san Giovanni leggiamo: «Temete Dio e dategli gloria, perché è giunta l’ora del suo giudizio» (14, 7). «Temete Dio», invece delle cose che vi fanno paura. 
Non temete il futuro, non temete gli altri uomini. 
Non temete la violenza e la forza, anche se possono privarvi dei vostri beni e della vostra vita. 
Non temete i potenti di questo mondo. 
Non temete nemmeno voi stessi. 
Non temete i peccati. 
Morirete a causa di tutti questi timori. 
Liberatevi da queste paure, ma temete Dio e soltanto Lui, che ha autorità su tutti i poteri terreni. Davanti a Lui deve provare timore tutta la Terra.
Può darci la vita o privarcene. Tutto il resto non ha importanza, solo il Signore conta. 
Che cosa ci chiederà il Padre nell’ultimo giorno? Soltanto una cosa: «Avete creduto al Vangelo e gli avete ubbidito?». Non domanderà se eravamo tedeschi o ebrei, se eravamo nazisti oppure no, e nemmeno se facevamo parte della Chiesa confessante, se eravamo persone influenti e di successo, se possiamo vantarci di grandi opere, se eravamo rispettati oppure malvagi, insignificanti, inutili e sconosciuti. Il nostro unico giudice sarà il Vangelo. 
Perché io sono proprio io? Che cosa sono davvero? Chi sono?
Perché esisto? Da dove arrivo? Qual è il mio fine? Cosa ne sarà di me? 
Sono queste le domande che l’umanità si pone da sempre. L’uomo si sente aggredito da una forza superiore, da tutto un mondo, dal suo stesso io; allora comincia a indagare, a cercare, ad arrovellarsi e procede di scoperta in scoperta, sentendosi sempre più inquieto. Di fronte a se stesso viene colto da una grande paura. Per la prima volta è toccato dalla miseria dell’essere umano e il cuore si contrae nella consapevolezza della sua mancanza di libertà. A questo punto reclama una cosa soltanto: la liberazione dal demone delirio e dal suo dominio, la redenzione. 
Come posso salvare il mio io? Come posso diventare libero? Come posso dare una forma a ciò che non ne ha e organizzare ciò che è privo di coerenza?
Come posso dominare il caos?
In ogni tempio greco antico erano riportate queste parole: «Conosci te stesso!». Solo in questo modo diventerai padrone del tuo io. È un’esperienza che può fare ognuno di noi: nessuno riesce realmente a conoscersi nel corso della sua vita. Siamo e rimaniamo ignoti a noi stessi, soltanto Dio è in grado di vedere davvero dentro di noi.
Se ci lambicchiamo il cervello ci procuriamo soltanto grandi tormenti: sappiamo bene che questo atteggiamento conduce alla disperazione e non al sollievo. 
Quindi è necessario percorrere un’altra via: non quella della conoscenza di sé, ma il dominio e la formazione di sé attraverso la volontà.
Perché il problema della debolezza è così importante? 
Hai mai visto nel mondo un mistero più grande dei poveri, dei vecchi, dei malati. 
Hai mai pensato a come appare la vita a uno storpio, a un infermo senza speranza, a una persona sfruttata, a un nero in un ambiente di bianchi, a un intoccabile? Se lo hai fatto, riesci a sentire che in quei casi l’esistenza ha un significato diverso da quello che le attribuisci tu? Comprendi che anche tu, comunque, appartieni alla categoria degli sfortunati, perché anche tu sei un essere umano come loro, perché sei forte e non debole, perché in tutti i tuoi pensieri avvertirai la loro fragilità? Non ci siamo resi conto che non potremo mai essere felici finché questo universo della debolezza, da cui forse finora siamo stati risparmiati ci rimane estraneo e sconosciuto, distante, finché lo teniamo lontano dalla nostra portata, in modo consapevole o inconsapevole?
Che cosa significa debolezza nel nostro mondo? Sappiamo che fin dai primi tempi fu rimproverato al cristianesimo di rivolgere il suo messaggio ai deboli: era considerato la religione degli schiavi, di quelli che soffrono di complessi di inferiorità; si diceva che dovesse il suo successo alla massa di
disperati dei quali ha esaltato la condizione di miseria. È stato proprio l’atteggiamento nei confronti del problema del male nel mondo che ha attirato simpatie oppure odio per questa confessione. Ha sempre prodotto l’opposizione forte e sdegnata di una filosofia aristocratica che esaltava la forza e il potere, in contrapposizione con i nuovi valori di rifiuto della violenza ed esaltazione dell’umiltà.
Anche nella nostra epoca siamo testimoni di questa lotta. Il cristianesimo resiste o fallisce con la sua protesta rivoluzionaria contro l’arbitrio e la superbia del potente, con la sua difesa del povero.
Credo che i cristiani facciano troppo poco, e non troppo, per rendere chiaro questo concetto. 
Si sono adattati troppo facilmente al culto del più forte. Dovrebbero dare molto più scandalo, scioccare molto più di quanto facciano ora.

- Dietrich Bonhoeffer - 

in “L'Osservatore Romano” del 9 aprile 2015
Scritti inediti di Dietrich Bonhoeffer, ucciso nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945, sono appena apparsi nel volume dal titolo "La fragilità del male" (Milano, Piemme, 2015, pagine 176, Stralcio dal primo capitolo)


"I figli di Dio non devono avere quaggiù altra patria che l’universo intero. Con la totalità delle creature ragionevoli che ha contenuto e contiene e conterrà, il nostro amore deve avere la stessa estensione attraverso tutto lo spazio.
Ogni qual volta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Crisna, Budda, Il Tao ecc. il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo spirito Santo e lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizi
one religiosa, ma dandogli luce e nei migliori dei casi la pienezza della luce all’interno di tale tradizione.
Poiché in occidente la parola Dio, nel suo significato corrente, disegna una persona, quegli uomini nei quali l’attenzione, la fede e l’amore si applicano quasi esclusivamente al perfetto impersonale di Dio, possono credere e dirsi atei, sebbene l’amore soprannaturale abiti nella loro anima.
Costoro sono sicuramente salvati e si riconosce dal loro atteggiamento verso le cose di quaggiù, quelli che possiedono allo stato puro l’amore per il prossimo e l’accettazione dell’ordine del mondo compresa la sventura, costoro sono tutti sicuramente salvati, anche se vivono e muoiono in apparenza atei". 

- Simone Weil -


"Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi.
Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.
In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi." 

- Giacomo Leopardi - 


Cercavo te nelle stelle
quando le interrogavo bambino.
Ho chiesto te alle montagne,
ma non mi diedero che poche volte
solitudine e breve pace.
Perché mancavi, nelle lunghe sere
meditai la bestemmia insensata
che il mondo era uno sbaglio di Dio,
io uno sbaglio nel mondo.
E quando, davanti alla morte,
ho gridato di no da ogni fibra,
che non avevo ancora finito,
che troppo ancora dovevo fare,
era perché mi stavi davanti,
tu con me accanto, come oggi avviene,
un uomo una donna sotto il sole.
Sono tornato perché c’eri tu.

(Primo Levi)


Titolo della poesia "11 febbraio 1946". 
Fa parte della raccolta "Ad ora incerta"


Buona giornata a tutti. :-)


giovedì 26 gennaio 2023

Adotta la famiglia umana! - dom Hélder Câmara

 Qualunque sia la tua condizione di vita,
pensa a te e ai tuoi cari,
ma non lasciarti imprigionare
nell'angustia cerchia
della tua piccola famiglia.
Una volta per tutte
adotta la famiglia umana!
Bada a non sentirti estraneo
in nessuna parte del mondo.
Sii un uomo in mezzo agli altri.
Nessun problema, di qualsiasi popolo,
ti sia indifferente.
Vibra con le gioie e le speranze
di ogni gruppo umano.
Fa' tue le sofferenze e le umiliazioni
dei tuoi fratelli nell'umanità.
Vivi a scala mondiale
o, meglio ancora, a scala universale.
Cancella dal tuo vocabolario le parole:
nemico, inimicizia, odio, risentimento, rancore...
Nei tuoi pensieri, nei tuoi desideri
e nelle tue azioni sforzati di essere
ma di essere veramente, magnanimo! 

- dom Hélder Câmara  -


Le persone ti pesano?
Non metterle sulle tue spalle.
Portale nel cuore.

- dom Hélder Câmara  -


Perché siano superate le strutture ingiuste   

Manda, Signore, il tuo Spirito,
perché Lui solo può rinnovare
la faccia della terra!
Lui solo potrà cancellare
gli egoismi,
condizione indispensabile
perché siano superate
le strutture ingiuste
che tengono milioni di esseri
in schiavitù!
Lui solo potrà aiutarci
a costruire
un mondo più umano
e più cristiano! 

- dom Hélder Câmara -


Buona giornata a tutti. :-)


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martedì 24 gennaio 2023

La buca nel marciapiede

 Mi alzo una mattina, esco di casa, c'è una buca nel marciapiede, non la vedo, ci casco dentro.
- Giorno dopo, esco di casa, mi dimentico che c'è una buca nel marciapiede, e ci ricasco dentro.
- Terzo giorno, esco di casa cercando di ricordarmi che c'è una buca nel marciapiede, e invece non me lo ricordo, e ci casco dentro.
- Quarto giorno, esco di casa cercando di ricordarmi della buca nel marciapiede, me ne ricordo, e ciononostante non vedo la buca e ci casco dentro.
- Quinto giorno, esco di casa, mi ricordo che devo tener presente la buca nel marciapiede e cammino guardando per terra, e la vedo, ma anche se la vedo, ci casco dentro.
- Sesto giorno, esco di casa, mi ricordo della buca nel marciapiede, la cerco con lo sguardo, la vedo, cerco di saltarla, ma ci casco dentro.
- Settimo giorno, esco di casa, vedo la buca, prendo la rincorsa, salto, sfioro con la punta dei piedi il bordo dall'altra parte, ma non mi basta e ci casco dentro.
- Ottavo giorno, esco di casa, vedo la buca, prendo la rincorsa, salto, atterro dall'altra parte! Mi sento così orgoglioso di esserci riuscito, che mi metto a saltellare per la gioia... e mentre saltello, casco di nuovo nella buca.
- Nono giorno, esco di casa, vedo la buca, prendo la rincorsa, la salto, e proseguo per la mia strada.
- Decimo giorno, soltanto oggi, mi rendo conto che è più comodo e sicuro camminare sul marciapiede di fronte.

La strada della vita è disseminata di buche: abitudini, vizi piccoli e grandi, mancanze fastidiose eppure sempre uguali. 
In famiglia si litiga sempre per le stesse cose, si confessano sempre gli stessi peccati, si commettono sempre gli stessi errori. 
Convertirsi significa prendere l'altro marciapiede.



Peccare - Padre Michel Quoist

Sono caduto, Signore.
Ancora.
Non ne posso più, mai ce la farò.
Ho vergogna di me, non oso più guardarTi.
Pure, ho lottato, Signore, perché Ti sapevo vicino a me, chino su di me, attento.
Ma la tentazione si è scatenata come una tempesta, ed ho voltato il capo, e mi sono allontanato, mentre Tu restavi, silenzioso e dolorante, come un fidanzato tradito che vede il suo amore allontanarsi nelle braccia del rivale.
Quand'è cessato il vento, caduto di colpo come di colpo s'era scatenato, quando s'è spento il fulmine dopo aver fieramente illuminato la penombra, in un momento, mi son ritrovato solo, vergognoso, disgustato, con il mio peccato nelle mani.
Quel peccato che mi nausea, inutile oggetto che vorrei gettar via; quel peccato che ho voluto e che non voglio più, quel peccato che infine ho raggiunto allontanandoTi freddamente, Signore, quel peccato che ho colto, poi consumato, avido.
Ora lo posseggo, anzi mi possiede, come la tela del ragno tiene prigioniero il moscerino.
E' mio, mi sta attaccato, è entrato in me, non posso disfarmene.
Mi pare che si veda, ho vergogna di stare in piedi, vorrei strisciare per sfuggire gli sguardi, ho vergogna di comparire davanti al mio amico, ho vergogna di comparire davanti a Te, o Signore, perché Tu mi amavi ed io Ti ho dimenticato.
Ti ho dimenticato perché ho pensato a me.
Signore, non guardarmi così.
Perché sono nudo, sono sporco, sono a terra, lacero, non ho più forze, non oso più promettere nulla, non posso che restare là, curvo, innanzi a Te.

Via, piccolo, rialza il capo. Non è soprattutto il tuo orgoglio ferito?
Se mi amassi, avresti dispiacere, ma avresti fiducia.
Credi che l'amor di Dio abbia limiti? Credi che un solo momento Io abbia cessato di amarti?
Ma fai ancora affidamento su di te, piccolo, non devi fare affidamento che su di Me.
Chiedimi perdono e poi rialzati vivamente, perché, vedi, la cosa più grave non è cadere, ma restare a terra.

- Padre Michel Quoist - 

Cripta del peccato originale - Matera (Italy)

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domenica 22 gennaio 2023

Il silenzio - Cardinale Carlo Maria Martini

 “Se in principio c'era la Parola e dalla Parola di Dio, venuta tra noi, è cominciata ad avverarsi la nostra redenzione, è chiaro che, da parte nostra, all'inizio della storia personale di salvezza ci deve essere il silenzio: il silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare. 
Certo, alla Parola che si manifesta dovranno poi corrispondere le nostre parole di gratitudine, di adorazione, di supplica; ma prima c'è il silenzio”. 

- Cardinale Carlo Maria Martini -
(Dimensione contemplativa della vita, 1980, n°10)


Dal silenzio di ascolto Gesù, uditore obbediente per eccellenza della Parola, ha indicato la via da percorrere verso la pienezza : “Nell'Eucaristia si rende presente e operante nella Chiesa il Cristo del mistero pasquale. 
E' il Figlio in ascolto obbediente alla parola del Padre. E' il Figlio che nell'atto di spendere la propria vita per amore, trova nella drammatica e dolcissima preghiera rivolta al suo "Abba" (cfr. Mc 14, 36; Lc 23, 46) il coraggio, la misura, la norma del proprio comportamento verso gli uomini.” (Ibidem n°15)



"Signore, donami la forza di tacere per umiltà, di tacere per prudenza, di tacere per fedeltà, di tacere per amore."

- Wilhelm Muhs - 


Gli occhi sul mare 

E ora che il tempo
si è fatto breve
e il cuore si consuma
a trattenere la tua immagine
che sembra svanire lontano,
punto rincorso
all’orizzonte estremo,
ora che gli occhi
sono sul mare
come di chi saluta
pur se la vela è scomparsa,
come le pupille dei discepoli
perdute, sul monte,
in un cielo orfano
del volto,
ora so che anche per l’addio
di un pastore di chiese
può ferire e urgere
agli occhi la commozione
e dilatarsi
fino allo spasimare
delle vene dei polsi.
Sei scritto
come sigillo sul cuore
e sul braccio.
Hai amato queste strade
hai pianto
su questa città.
Ci lasci
-ed è testamento-
la lampada della Parola
e il pane del volto.

- don Angelo Casati - 
al mio vescovo
Carlo Maria Martini

(Luglio 2002)


Vivi il giorno d'oggi 
Dio te lo dà è tuo, vivilo in lui. 
Il giorno di domani è di Dio, non ti appartiene. 
Non portare sul domani la preoccupazione di oggi. 
Il domani è di Dio: affidaglielo. 
Il momento presente è una fragile passerella: 
se lo carichi dei rimpianti di ieri, 
dell'inquietudine di domani, 
la passerella cede e tu perdi piede. 
Il passato? Dio lo perdona. 
L'avvenire? Dio lo dona. 
Vivi il giorno d'oggi in comunione con lui.




Buona giornata a tutti. :-)
www.leggoerifletto.it

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venerdì 20 gennaio 2023

L’arte di non rispondere alle provocazioni - Paulo Coelho

Vicino a Tokyo viveva un grande samurai, ormai anziano, che si dedicava a insegnare il buddismo zen ai giovani. Malgrado la sua età, correva la leggenda che fosse ancora capace di sconfiggere qualunque avversario.

Un pomeriggio, si presentò un guerriero, conosciuto per la sua totale mancanza di scrupoli. Era famoso perché usava la tecnica della provocazione: aspettava che l’avversario facesse la prima mossa e, dotato com’era di una eccezionale intelligenza che gli permetteva di prevedere gli errori che avrebbe commesso l’avversario, contrattaccava con velocità fulminante.

Il giovane e impaziente guerriero non aveva mai perduto uno scontro.

Conoscendo la reputazione del samurai, egli era lì per sconfiggerlo e accrescere in questo modo la propria fama.

Tutti gli allievi si dichiararono contrari all’idea, ma il vecchio accettò la sfida. Si recarono tutti nella piazza della città e il giovane cominciò a insultare il vecchio maestro.

Lanciò alcuni sassi nella sua direzione, gli sputò in faccia, gli urlò tutti gli insulti che conosceva, offendendo addirittura i suoi antenati.

Per ore fece di tutto per provocarlo, ma il vecchio si mantenne impassibile.

Sul finire del pomeriggio, quando ormai si sentiva esausto e umiliato, l’impetuoso guerriero si ritirò. Delusi dal fatto che il maestro avesse accettato tanti insulti e tante provocazioni, gli allievi gli domandarono: “Come avete potuto sopportare tante indegnità? Perché non avete usato la vostra spada, pur sapendo che avreste potuto perdere la lotta, invece di mostrarvi codardo di fronte a tutti noi?”.

“Se qualcuno vi si avvicina con un dono e voi non lo accettate, a chi appartiene il dono?”, domandò il samurai.

“A chi ha tentato di regalarlo”, rispose uno dei discepoli.

“Lo stesso vale per l’invidia, la rabbia e gli insulti”, disse il maestro: “Quando non sono accettati, continuano ad appartenere a chi li portava con sé”.

- Paulo Coelho -


Vivere non è peccato

Il rabbino Elimelekh aveva compiuto una bella predicazione, e ora stava per fare ritorno nella sua terra natale. 
Per rendergli omaggio e dimostrargli la gratitudine, i fedeli decisero di seguire la carrozza di Elimelekh fino all'uscita dalla città.
A un certo momento, il rabbino fermò la carrozza, chiese al cocchiere di proseguire senza di lui e si affiancò al popolo.
"Un bell'esempio di umiltà," disse uno degli uomini accanto a lui.
"Non c'è nessuna umiltà nel mio gesto, ma un po' di intelligenza," rispose Elimelekh. 

"Voi, qua fuori, state facendo esercizio, cantando, bevendo vino, fraternizzando gli uni con gli altri, incontrando nuovi amici, e tutto a causa di un vecchio rabbino che è venuto a parlarvi dell'arte di vivere. 
Lasciamo, allora, che le teorie proseguano su quella carrozza, perché io voglio partecipare all'azione."

- Paulo Coelho -


Buona giornata a tutti. :-)


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