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giovedì 31 agosto 2023

Io, Welby e la morte – Card. Carlo Maria Martini

Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di età. Pur essendo vissuto in un periodo storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi hanno aiutato a viverli con sufficiente serenità e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio. Mi rendo conto però, con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti è stata concessa la stessa prontezza e completezza nelle cure. 
Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di "accanimento terapeutico", mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cioè a una sorta di "negligenza terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". 

Si tratta in particolare di quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. 
È un aspetto specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanità" e che segnala una discriminazione nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso modo.
Poiché, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione e cortesia, si tratta perciò probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. 
Sarebbe quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, che spingono la sanità a privilegiare gli interventi medici più remunerativi e non quelli più necessari per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione degli esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra attenzione sulla crescente difficoltà che accompagna le decisioni da prendere al termine di una malattia grave. 
Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento, ha avuto una particolare risonanza. 
Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre più frequenti e la Chiesa stessa dovrà darvi più attenta considerazione anche pastorale.

La crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili. 

Senz'altro il progresso medico è assai positivo. 
Ma nello stesso tempo le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona.
È di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi

La prima si riferisce a un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella «rinuncia ... all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). 

Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.2.278) assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale.

Il punto delicato è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. 
In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate.

Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione   del principio di autonomia che tende erroneamente a considerarla come assoluta. 
Anzi è responsabilità di tutti accompagnare chi soffre, soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe più corretto parlare   non di «sospensione dei trattamenti» (e ancor meno di «staccare la spina»), ma di limitazione dei trattamenti. 
Risulterebbe così più chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche. 
Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente — , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia. 
Un'impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di realizzare un sufficiente consenso in una società pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche perché riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve però lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia personale esperienza. 

È soltanto guardando più in alto e più oltre che è possibile valutare l'insieme della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bensì sotto il mistero della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.

- Cardinale Carlo Maria Martini                                                                                                 
 21 gennaio 2007 


E’ sacrosanto e pienamente cattolico e legittimo il rifiuto del vecchio cardinale morente di non sottoporsi a interventi da lui ritenuti, nella sua condizione, inutili e invasivi. 

“Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita poiché vi è grande differenza etica tra ‘procurare la morte e ‘permettere la morte’: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa”: è scritto nel documento della Pontificia accademia per la vita sul “Rispetto della dignità del morente” (2000) ed è la migliore descrizione della scelta del cardinale Martini.



"Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle uscite di sicurezza. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio."

- Card. Carlo Maria Martini -

Buona giornata a tutti :-)


 

lunedì 1 giugno 2020

Virus ed eutanasia?

Se anche per un'unica volta accettiamo il principio del diritto a uccidere i nostri fratelli improduttivi - benché limitato in partenza solo ai poveri e indifesi malati di mente - allora in linea di principio l'omicidio diventa ammissibile per tutti gli esseri improduttivi, i malati incurabili, coloro che sono stati resi invalidi dal lavoro o in guerra, e noi stessi, quando diventiamo vecchi, deboli e quindi improduttivi.
Basterà allora un qualsiasi editto segreto che ordini di estendere il metodo messo a punto per i malati di mente ad altre persone improduttive, a coloro che soffrono di malattie polmonari incurabili, ai vecchi deboli o invalidi, ai soldati gravemente mutilati. 
A quel punto la vita di nessuno di noi sarà più sicura. 
Una qualsiasi commissione ci può includere nella lista degli improduttivi, a suo giudizio diventati inutili. Nessuna polizia, nessun tribunale indagherà sul nostro assassinio, né punirà l’assassino come merita.
Sventura al genere umano, sventura alla nostra nazione tedesca se non solo viene infranto il santo comandamento di Dio: "Non uccidere, che Dio proclamò sul monte Sinai tra tuoni e lampi, che Dio nostro creatore impresse nella coscienza del genere umano fin dall'inizio del tempo, ma si tollera e ammette che tale violazione sia lasciata impunita.

- Card. A. Clemens von Galen vescovo di Münster -
 Il 3 agosto 1941 denunciò l'eutanasia dei malati di mente tedeschi. 



Mai come oggi si delinea a più livelli, nettamente e concretamente, un disegno che prima della pandemia operava silenziosamente nella società: la biopolitica. 
Oggi quel silenzio è diventato un grido di sconforto e di indignazione. 
Solo ora, per esempio, la società si accorge – è l’Oms a ricordarlo – che il virus in Europa ha colpito mortalmente, per il 50 per cento, gli anziani che vivevano nelle case di riposo. Forse un po’ di trascuratezza c’è stata, affermano coloro che voltano lo sguardo dall’altra parte. 
In realtà tanti morti nelle case di riposo assume il senso tragico di un lapsus della biopolitica. Volevano proteggere gli anziani ma in realtà è accaduto il contrario: il “proteggere” è diventata una “strage” sistematica, per alcuni addirittura un “massacro”. 
Parola terribile, quest’ultima, perché evoca un’altra parola altrettanto orribile che è “eutanasia”. 
Non possiamo crederci. Eppure quale migliore esempio per evocare il funzionamento nefasto di un programma biopolitico che pretende di imporre i propri criteri di valore e di utilità alla vita umana?
Credere di gestire la vita altrui in nome del profitto, di quel bene materiale che è ritenuto alimentare l’esistenza e la sussistenza umana, diventa un’ideologia perché appiana le differenze, promuove criteri di valore arbitrari, attua sommessamente una “leggera” discriminazione che rischia di scivolare verso vere e proprie forme di segregazione. Il tutto – conosciamo il ritornello – evidentemente per il Bene Comune. 

- Giancarlo Ricci - 
da: Tempi.it 20 maggio 2020


….. «In Italia, la capacità di terapia intensiva è gestita in modo molto diverso. Ammettono pazienti che non includeremmo perché sono troppo vecchi. Gli anziani hanno una posizione molto diversa nella cultura italiana».
(Frits Rosendaal, capo dell'epidemiologia clinica presso il Leida University Medical Center, e membro della Royal Dutch Academy of Sciences and Art )….
…. Ecco a cosa ha portato l’apertura al “diritto” di morire: l’obbligo di morire. Hanno detto che l’eutanasia è un diritto, che è volontaria, che tutti devono essere liberi di scegliere come e quando morire e a cosa siamo arrivati? All’obbligo di morire. ….
….Quei pazienti esclusi perché «troppo vecchi» sono i veri discriminati di oggi. 
Strano che nel loro caso i “paladini dell’inclusione” tacciano. 
Per gli anziani, dunque, le cure sono vietate. Bel “diritto di scelta” viene concesso loro. Eppure, all’inizio tutti parlavano di eutanasia come garanzia di libertà, anche se pian piano venivano fuori gli innumerevoli casi in cui essa è stata praticata anche su chi voleva vivere.
Ed ecco che puntualmente l’eutanasia resta fedele alle sue origini naziste nel considerare il malato, l’anziano, il disabile, l’improduttivo non più una persona di cui prendersi cura, ma un peso sociale, nient’altro che un costo dispendioso. Questo fu all’origine del massacro di tanti nei campi di concentramento e continua oggi a perpetrarsi con le leggi su eutanasia, suicidio assistito e aborto.

- Luca Scalise - 
Da: Provitaefamiglie.it 5 aprile 2020



Ho visto un Uomo
vestito di bianco
e stanco
sotto la pioggia battente
e il vento freddo
salire lento
verso l’altare
carico di dolore
di sofferenza
ma anche di speranza.
Ho visto un Uomo
anziano
zoppicante
fare le tante scale
con sulle sue spalle
tutto il dolore del mondo.
Ho visto un Uomo
concentrato
nel suo silenzio
fremente
nella sua preghiera
chiedere il perdono
di tutti i peccati
degli uomini
e la loro Salvezza.
Ho visto un Uomo,
uomo fra gli uomini,
innalzarsi
su tutti
e pregare
per tutti.
Ho visto un Uomo
dire
“nessuno si salva da solo”
perché
non siamo soli
se crediamo
in Dio
e nella sua Salvezza.

Ho visto un Uomo
che,
con tutti gli altri uomini del mondo,
si salverà
perché ha creduto
e crederà
per sempre.


- Giulia Madonna -


Buona giornata a tutti. :-)




sabato 6 aprile 2019

L'esistenza alla deriva - cardinale Joseph Ratzinger (papa Benedetto XVI)

L'Esistenza alla deriva 

E proprio questa è la caratteristica saliente della grande deriva attuale in materia di rispetto della vita; non si tratta più di una problematica di morale semplicemente individuale, ma di una problematica di morale sociale, a partire dal momento in cui gli Stati e perfino delle organizzazioni internazionali, si fanno garanti dell'aborto o dell'eutanasia, votano delle leggi che le autorizzano e pongono i mezzi a loro disposizione al servizio di coloro che li eseguono.

Il diritto del più forte 

IV. Ma perché questa vittoria di una legislazione o di una prassi antiumana proprio nel momento in cui l'idea dei diritti umani sembrava arrivata a un riconoscimento universale ed incondizionato? Perché anche persone di alta formazione morale pensano che la normativa sulla vita umana potrebbe e dovrebbe entrare nei compromessi necessari della vita politica?
1. Ad un primo livello della nostra riflessione, mi sembra di poter segnalare due motivi, dietro i quali se ne nascondono probabilmente altri. Uno si riflette nella posizione che afferma come necessaria la separazione tra convinzioni etiche personali e ambito politico, nel quale sono formulate le leggi: qui l'unico valore da rispettare sarebbe la totale libertà di scelta di ciascun individuo, in dipendenza dalle proprie opinioni private.
La vita sociale, nell'impossibilità di fondarsi su qualsiasi riferimento oggettivo comune, dovrebbe concepirsi come esito di un compromesso di interessi al fine di garantire il massimo di libertà possibile a ciascuno. Ma in realtà, laddove il criterio decisivo del riconoscimento dei diritti diventa quello della maggioranza, laddove il diritto all'espressione della propria libertà può prevalere sul diritto di una minoranza che non ha voce, lì è la forza che è divenuta il criterio del diritto.
Ciò risulta tanto più evidente e drammaticamente grave quando in nome della libertà di chi ha potere e voce, si nega il fondamentale diritto alla vita di chi non ha possibilità di farsi ascoltare. 
In realtà ogni comunità politica, per sussistere, deve riconoscere almeno un minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, ma precedenti ogni regolamentazione politica del diritto. 
Si capisce allora come uno Stato, che si arroghi la prerogativa di definire quali esseri umani siano o non siano soggetti di diritti, che di conseguenza riconosca ad alcuni il potere di violare il fondamentale diritto alla vita di altri, contraddice l'ideale democratico, al quale pure continua a richiamarsi e mina le stesse basi su cui si regge. 
Si vede così che l'idea di una tolleranza assoluta della libertà di scelta di alcuni distrugge il fondamento stesso di una convivenza giusta tra uomini.
Ci si può chiedere però quando inizia ad esistere la persona, soggetto di diritti fondamentali che vanno assolutamente rispettati. Se non si tratta di una concessione sociale, ma piuttosto di un riconoscimento, anche i criteri per questa determinazione devono essere oggettivi. 
Come ha ricordato la Donum Vitae (1, 1), le recenti acquisizioni della biologia umana riconoscono che "nello zigote derivante dalla fecondazione si è già costituita l'identità biologica di un nuovo individuo umano". 
Anche se nessun dato sperimentale può essere per sé sufficiente a far riconoscere un'anima spirituale, tuttavia le conclusioni della scienza sull'embrione umano forniscono un'indicazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una vita umana. In ogni caso, fin dal primo momento della sua esistenza, al frutto della generazione umana va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità corporale e spirituale.

La coscienza e la morale 

2. Un secondo motivo che spiega il diffondersi di una mentalità di opposizione alla vita mi sembra connesso con la concezione stessa della moralità oggi largamente diffusa. È una visione individualistica della libertà, intesa come diritto assoluto di autodeterminarsi sulla base delle proprie convinzioni, si associa spesso un'idea meramente formale di coscienza. 
Essa non si radica più nella concezione classica della coscienza morale (cf. Gaudium et spes). In tale concezione, propria di tutta la tradizione cristiana, la coscienza è la capacità di aprirsi all'appello della verità obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti possono e devono cercare.
Invece, nella concezione innovativa, di chiara ascendenza kantiana, la coscienza è sganciata dal suo rapporto costitutivo con un contenuto di verità morale e ridotta una mera condizione formale della moralità essa si rapporterebbe solo alla bontà dell'intenzione soggettiva. In tal modo la coscienza viene ad essere nient'altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell'agire. La fondamentale idea cristiana che non c'è nessuna istanza che possa opporsi alla coscienza non ha più il significato originario e irrinunciabile per cui la verità non può che imporsi in virtù di se stessa, cioè nell'interiorità personale, ma diventa una deificazione della soggettività, di cui la coscienza è oracolo infallibile, che non può essere messa in questione da niente e da nessuno.
V. Ma occorre andare più a fondo ancora nell'identificare le radici di quest'opposizione alla vita. Così, ad un secondo livello, riflettendo nei termini di un approccio più personalistico, troviamo una dimensione antropologica sulla quale è necessario soffermarci se pur brevemente.
Va qui segnalato un nuovo dualismo che si afferma sempre più nella cultura occidentale e verso cui convergono alcuni dei tratti caratterizzanti la sua mentalità l'individualismo, il materialismo, l'utilitarismo e l'ideologia edonista della realizzazione di se stessi da parte di se stessi. Infatti, il corpo non è più percepito spontaneamente dal soggetto come la forma concreta di tutte le sue relazioni nei confronti di Dio, degli altri e del mondo, come quel dato che lo inserisce all'interno di un universo in costruzione, in una conversazione in corso, in una storia ricca di senso a cui non può partecipare in modo positivo se non accettandone le regole e il linguaggio. Il corpo appare piuttosto come uno strumento al servizio di un progetto di benessere, elaborato e perseguito dalla ragione tecnica, la quale calcola come potrà trarne il profitto migliore. 
La sessualità stessa viene in tal modo de-personalizzata e strumentalizzata. Essa appare come una semplice occasione di piacere e non più come la realizzazione del dono di sé, né come l'espressione di un amore che, nella misura in cui è vero, accoglie integralmente l'altro e si apre alla ricchezza di vita di cui è portatore, al suo bambino che sarà anche il proprio bambino. I due significati, unitivo e procreativo, dell'atto sessuale vengono separati. L'unione è impoverita, mentre la fecondità è rinviata alla sfera del calcolo razionale: "il bambino, certo. Ma quando lo voglio e come lo voglio".
Diventa così chiaro che tale dualismo tra una ragione tecnica e un corpo oggetto permette all'uomo di sfuggire al mistero dell'essere. In realtà, la nascita e la morte, il sorgere di un'altra persona e la sua scomparsa, la venuta e la dissoluzione dell'"io" rimandano direttamente il soggetto alla questione del suo proprio senso e della sua propria esistenza. 
È forse per sfuggire a questa domanda angosciante che egli cerca di assicurarsi un dominio quanto più completo possibile su questi due momenti chiave della vita, che cerca di trasferirli nella zona del fare. In tal modo l'uomo si illude di possedere se stesso, godendo di una libertà assoluta: egli potrebbe essere fabbricato secondo un calcolo che non lascia nulla all'incerto, nulla al caso, nulla al mistero.
2. Un mondo che assume opzioni di efficienza tanto assolute, un mondo che ratifica a tal punto la logica utilitarista, un mondo che per di più concepisce la libertà come un diritto assoluto dell'individuo e la coscienza come un'istanza soggettivistica del tutto isolata, tende necessariamente a impoverire tutte le relazioni umane fino a considerarle ultimamente come relazioni di forza e a non riconoscere all'essere umano più debole il posto che gli è dovuto.

L'ideologia utilitarista 

Da questo punto di vista l'ideologia utilitarista va nel medesimo senso della mentalità "maschilista" ed il "femminismo" appare come una reazione legittima alla strumentalizzazione della donna. Tuttavia, molto spesso, il cosiddetto "femminismo" si basa sugli stessi presupposti utilitaristici del "maschilismo" e, lungi dal liberare la donna, coopera piuttosto al suo asservimento.
Quando, nella linea del dualismo già precedentemente evocato, la donna rinnega il proprio corpo, considerandolo come un puro oggetto al servizio di una strategia di conquista della felicità, mediante la realizzazione di sé, essa rinnega anche la sua femminilità, il suo modo propriamente femminile del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro, di cui la maternità è il segno più tipico e la realizzazione più concreta.
Quando la donna si schiera per l'amore libero e giunge al punto di rivendicare il diritto di abortire, essa contribuisce a rinforzare una concezione delle relazioni umane, secondo cui la dignità di ognuno dipende, agli occhi dell'altro, da quanto egli può dare. 
In tutto questo la donna prende posizione contro la propria femminilità e contro i valori di cui quest'ultima è portatrice: l'accoglienza alla vita, la disponibilità al più debole, la dedizione senza condizioni a chi ne ha bisogno. Un autentico femminismo, lavorando per la promozione della donna nella sua verità integrale e per la liberazione di tutte le donne, lavorerebbe anche alla promozione dell'uomo intero e alla liberazione di tutti gli esseri umani. Lotterebbe infatti affinché la persona sia riconosciuta nella dignità che gli viene solo dal fatto di esistere, di essere stata voluta e creata da Dio, e non dalla sua utilità, dalla sua forza, dalla sua bellezza, dalla sua intelligenza, dalla sua ricchezza e dalla sua salute. Si sforzerebbe di promuovere un'antropologia che valorizzi l'essenza della persona come fatta per il dono di sé e per l'accoglienza dell'altro, di cui il corpo, maschile o femminile, è il segno e lo strumento. È proprio sviluppando un'antropologia che presenta l'uomo nella sua integralità personale e relazionale che si può rispondere all'argomentazione diffusa, secondo cui il mezzo migliore per lottare contro l'aborto sarebbe quello di promuovere la contraccezione. Una simile tesi che di primo acchito sembra del tutto plausibile, è però contraddetta dall'esperienza: si constata generalmente una crescita parallela dei tassi di ricorso alla contraccezione e dei tassi di aborto. Il paradosso non è apparente. 
Infatti bisogna rendersi conto che la contraccezione e l'aborto affondano entrambi le loro radici in quella visione de-personalizzata e utilitaristica della sessualità e della procreazione, che abbiamo appena descritta e che si basa a sua volta su una concezione mutilata dell'uomo e della sua libertà.
Non si tratta, infatti, di assumere una gestione responsabile e degna della propria fecondità in funzione di un progetto generoso, sempre aperto all'accoglienza eventuale di una nuova vita imprevista.
Si tratta piuttosto di assicurarsi un dominio completo della procreazione, che respinge persino l'idea di un figlio non programmato. Compresa in questi termini, la contraccezione conduce necessariamente all'aborto come "soluzione di riserva". In realtà solo se si sviluppa l'idea che l'uomo non ritrova pienamente se stesso che nel dono generoso di sé e nell'accoglienza incondizionata dell'altro, semplicemente perché questi esiste, l'aborto apparirà come un crimine assurdo.
Un'antropologia di tipo individualistico conduce, come abbiamo visto, a considerare la verità oggettiva come inaccessibile, la libertà come arbitraria, la coscienza come una istanza chiusa in se stessa. Essa orienta la donna non solamente all'odio verso gli uomini, ma anche all'odio verso di sé e verso la propria femminilità, soprattutto verso la propria maternità.
Una simile antropologia orienta più generalmente l'essere umano all'odio verso di sé. L'uomo disprezza se stesso; non è più d'accordo con Dio che aveva trovato "cosa molto buona" la creatura umana (Gen. 1,31). 
Al contrario, l'uomo di oggi vede in se stesso il grande distruttore del mondo, un prodotto infelice dell'evoluzione. E in realtà, l'uomo che non ha più accesso all'infinito, a Dio, è un essere contraddittorio, un prodotto fallito. 
Qui appare la logica del peccato: l'uomo volendo essere come Dio, cerca l'indipendenza assoluta. Per essere autosufficiente deve diventare indipendente, deve emanciparsi anche dall'amore, che è sempre grazia libera, non producibile e fattibile. Però facendosi indipendente dall'amore l'uomo si è separato dalla vera ricchezza e del suo essere, è divenuto vuoto e l'opposizione contro il proprio essere diventa inevitabile. "Non è bene essere un uomo", la logica della morte appartiene alla logica del peccato. 
La strada verso l'aborto, verso l'eutanasia e lo sfruttamento dei più deboli è aperta.
In sintesi possiamo quindi dire: la radice ultima dell'odio contro la vita umana, di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio. Dove Dio compare, compare anche la dignità assoluta della vita umana.

Le possibili risposte

VI. Che fare in questa situazione, per rispondere alla sfida appena descritta? Da parte mia vorrei limitarmi alle possibilità connesse con la funzione del Magistero. Non mancano gli interventi magisteriali su questo problema in questi ultimi anni. 
Il Santo Padre insiste instancabilmente sulla difesa della vita come dovere fondamentale di ogni cristiano; molti vescovi ne parlano con grande competenza e forza. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato in questi anni alcuni importanti documenti sulle tematiche morali connesse al rispetto dovuto alla vita umana.
Nonostante tali prese di posizione, nonostante numerosissimi interventi pontifici su alcuni di questi problemi o su loro aspetti particolari, il campo rimane largamente aperto a una ripresa globale a livello dottrinale che vada alle radici più profonde e denunci le conseguenze più aberranti della "mentalità di morte".
Si potrebbe quindi pensare a un eventuale documento sulla vita umana, che dovrebbe a mio avviso presentare due caratteristiche originali rispetto ai documenti precedenti. Anzitutto non dovrebbe sviluppare solo considerazioni di morale individuale, ma anche considerazioni di morale sociale e politica. Più in dettaglio le diverse minacce contro la vita umana potrebbero essere affrontate da cinque punti di vista: 
il punto di vista dottrinale (con una forte riaffermazione del principio secondo cui "l'uccisione diretta di un essere umano innocente è sempre materia di colpa grave"), quello culturale, quello legislativo, quello politico, e infine, quello pratico.
Arriviamo così alla seconda caratteristica originale in un eventuale nuovo documento: benché la denuncia vi debba avere uno spazio, questo non sarà lo spazio principale. Si tratterebbe innanzi tutto di una ripresa gioiosa dell'annuncio del valore immenso dell'uomo e di ogni uomo, per quanto povero debole, sofferente egli sia" così come questo valore può apparire agli occhi dei filosofi, ma soprattutto così come, ci dice la Rivelazione, esso appare agli occhi di Dio.
Si tratterebbe di ricordare con ammirazione le meraviglie del Creatore verso la creatura, quella del Redentore per colui che è venuto a incontrare e salvare. 
Si tratterebbe di mostrare come l'accoglienza dello Spirito comporti in se stessa la disponibilità generosa all'altra persona e dunque l'accoglienza di ogni vita umana a partire dal momento in cui essa si annuncia fino al momento in cui si spegne.

In breve, contro tutte le ideologie e le politiche di morte, è la Buona Novella cristiana che si tratta di richiamare in quanto essa ha di essenziale: Cristo ha aperto al di là di ogni sofferenza, la via all'azione della grazia, per la vita sia nel suo aspetto umano che nel suo aspetto divino

- cardinale Joseph Ratzinger -
Concistoro straordinario del 1991, svolto ufficialmente in veste di Prefetto della Congregazione




La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l'azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. 
Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente » 

- Catechismo Chiesa Cattolica 2258 - 


Sì ... si ....  lo so... oggi un po pesante da leggere. 
Così .... giusto perchè abbiamo avuto la fortuna di nascere....
Prendiamoci un poco di tempo per riflettere sul valore della vita. 

Buona giornata a tutti. :-)




giovedì 17 maggio 2018

Da “Il padrone del mondo” di Robert Hugh Benson

Una settimana dopo, svegliatasi verso l'alba, Mabel non ricordava più dove fosse; chiamò ad alta voce Oliviero, girò gli occhi stupiti intorno alla camera insolita... poi ritornò in se e tacque.
Negli otto giorni trascorsi in quel rifugio fu sottoposta alla prova; oggi restava libera di mettere in esecuzione ciò per cui era venuta.
Il sabato della settimana precedente subì l'esame davanti ad un magistrato speciale confidandogli, sotto le abituali condizioni di segreto, nome, età, domicilio ed i motivi per i quali domandava 1'applicazione della eutanasia.
Non occorre dire che fu promossa a meraviglia.
Scelse poi Manchester, come città abbastanza lontana ed abbastanza grande da sottrarla alle ricerche di Oliviero: infatti, della sua fuga nessuno poté scoprire le tracce.
Non ebbe sentore alcuno dei sospetti di suo marito, giacché in simili casi la polizia si incaricava di proteggere i fuggitivi: l'individualismo era ammesso unicamente in quanto permetteva di abbandonare la vita a coloro che ne sentivano tedio.
E Mabel ricorse senza dubbio a questo espediente legale, non potendo appigliarsi ad altri: lo stiletto esigeva coraggio e risoluzione; l'arma da fuoco le faceva ribrezzo; e il veleno, sotto il nuovo regime di polizia rigorosa, difficile oltremodo a procurarsi.
Ma poi ella voleva sottoporre ad una seria prova il suo divisamento e rendersi ben certa che non le rimaneva altra via di uscita.
Ora si sentiva più sicura che mai.
L'idea di morire, concepita per la prima volta tra le sofferenze atroci che le fecero provare i moti violenti dell'ultimo giorno dell'anno, era stata presto respinta dallo specioso argomento che l'uomo immaturo era ancora soggetto a ricadute; ma in seguito quel pensiero le riapparve qual demone tentatore, proprio nella luce meridiana fattasi a lei dintorno per le dichiarazioni di Felsemburgh.
E il demone le stava sempre davanti, per quanto cercasse di resistergli, illudendosi che quella dichiarazione che l'aveva riempita di orrore, non diverrebbe mai un fatto compiuto.
Finalmente, quando la teoria politica passò in legge deliberata, Mabel cedé con tutta l'anima alla tentazione.
Da quel momento erano passati otto giorni senza che ella sentisse mai vacillare il proposito.
Però aveva cessato di condannare, persuasa oramai che ogni recriminazione era inutile: sapeva di non poter reggere davanti al fatto di non riuscire a comprendere la nuova fede, e che per lei, comunque fosse per gli altri, non vi era più speranza... Oltre a ciò non lasciava figli...
Quegli otto giorni, stabiliti per legge, furono abbastanza tranquilli.
Mabel aveva portato seco denaro sufficiente per entrare in una di quelle private Case di Rifugio fornite di tutti gli agi convenienti alla vita signorile.
Le infermiere si erano mostrate gentili e riguardose, in modo che ella non ebbe a lagnarsi di loro.
Naturalmente dovette soffrire dapprima per le reazioni inevitabili: passò la prima notte in uno stato da far pietà, coricata nel buio soffocante di quella stanza, mentre tutta la sua natura sensibile protestava e lottava contro il destino che voleva così. Reclamava le cose familiari, la promessa di nutrimento, di aria, di consorzio umano; e ritraeva la faccia inorridita davanti all'abisso tenebroso verso il quale si avviava irrevocabilmente.
Nella lotta affannosa ebbe momenti di calma, solo quando una voce più profonda le mormorava l'avviso che non fosse la morte fine di ogni cosa.
Sul fare del mattino ella rinvenne; e la volontà riacquistato il suo potere, cancellò definitivamente ogni segreta speranza di vivere.
Dovette inoltre soffrire per una più positiva paura, ricordando le scandalose rivelazioni, che dieci anni prima misero sottosopra tutta l'Inghilterra, e portarono gli stabilimenti di eutanasia sotto la sorveglianza del governo.
Era un fatto accertato che, per anni ed anni, nei grandi laboratori di vivisezione servirono per le esperienze soggetti umani; a molti, che, per togliersi dal mondo come lei, entrarono nelle case private di eutanasia, fu somministrato un gas, che sospendeva le funzioni vitali invece di annientarle...
Ma, tutto passò con il nuovo giorno: tali cose non si potevano ripetere sotto il nuovo regime, almeno in Inghilterra.
Appunto per queste ragioni ella non era corsa a cercar la morte sul Continente Europeo; laggiù, dove la logica superava il sentimento, il materialismo andava sino in fondo: se gli uomini non erano che puri e semplici animali... la conclusione veniva da sé......
Intorno alla moralità dell'atto che stava per compiere, alla relazione cioè che passava tra questo e la vita comune degli uomini, non aveva il minimo dubbio: credeva, insieme con tutti gli Umanitaristi, che, come i dolori del corpo giustificavano all'occorrenza il suicidio, così pure i dolori dello spirito.
Quando il disagio fosse giunto ad un grado tale da rendere l'individuo inutile a se stesso ed agli altri, il suicidio diveniva l'atto più caritatevole che potesse esser compiuto.
Certo, non aveva mai pensato, ai suoi giorni, di doversi trovare in simile condizione; si era sentita, anzi, anche troppo attaccata alla vita....
Eppure vi si trovava adesso: la necessità di finirla era dunque fuori di questione.
Riandò più volte in quel tempo all'abboccamento avuto con Mr. Francis.
Recatasi da lui quasi per un impulso istintivo, Mabel voleva udire anche l'altra parte; sapere cioè se il Cristianesimo fosse così ridicolo come aveva creduto sempre.
Ridicolo non era di certo; le parve, anzi, estremamente patetico... un dramma seducente, un brano squisito di poesia!
E sarebbe stata ben felice di credervi; ma sentiva di non potere.
No!
Un Dio trascendente era assurdo, sebbene non fosse meno assurda una Umanità Infinita.
Ma poi... l'incarnazione...
Basta! non se la sentiva!...
Dunque nessuna via di uscita: la religione umanitaria era l'unica vera, l'uomo era Dio o per lo meno la sua più alta manifestazione; ma con questo Dio ella non voleva più aver che fare!......

- Robert Hugh Benson - 
Da “Il padrone del mondo”, Città Armoniosa, 1979



Io penso che sia necessaria una nuova definizione del termine «eutanasia». Non c'è una vera differenza tra «lasciar morire» (interrompendo l'accanimento terapeutico), «aiutare a morire» (sedando il male e il dolore con dosi sempre più elevate di oppiacei) e «provocare il morire» (somministrando un farmaco o un'iniezione letali). 
Tutti e tre questi percorsi sfociano, infatti, nella morte. Chiesta o cercata; solo perché la sofferenza ha toccato limiti insopportabili, che sviliscono ogni dignità umana. 
È diritto dell'uomo chiedere la morte, se è stato colpito da una malattia inguaribile e irreversibile? 
La risposta non può essere che affermativa, perché la vita è un diritto, e non un dovere. 
Scegliere la morte per evitare sofferenze intollerabili fa parte dei diritti inalienabili della persona, e non si può affermare che la vita è un bene «non disponibile» da parte dell'individuo senza negare il concetto stesso di libertà, sottoponendolo a categorie morali che non possono che essere collettive, e che quindi, di fatto, cancellano l'individuo e negano la sua libera autodeterminazione.

- Umberto Veronesi -
da: "Il diritto di non soffrire", Ed. Mondadori



Le leggi sul suicidio assistito sono contro la legge di Dio La pratica del suicidio va contro il 5 ° comandamento: “Non uccidere”
Questo comandamento proibisce l’omicidio di se stessi o l’uccisione altrui. 
Lo Stato non ha il diritto di approvare leggi contrarie alla legge morale e divina. E tutte le persone di buona volontà devono respingere con fermezza il suicidio assistito e difendere la moralità e la retta ragione.
Sapete qual è la differenza tra civiltà e barbarie? La differenza è il rispetto della legge naturale. Anche i pagani sapevano quanto la legge naturale fosse radicata nella nostra natura umana razionale. Tendiamo a fare il bene ed evitare il male.
Così, per uccidere se stessi o per “aiutare” un’altra persona a uccidersi, frantumiamo tale principio fondamentale del diritto naturale e apriamo la strada a una nuova “età della pietra” del “cane mangia cane” ferocemente barbarica.
E – come dimostra la storia – il divario tra “suicidio assistito” e suicidio obbligatorio può essere molto stretto.
Chi può garantire che legalizzare oggi il “suicidio assistito” non prepari la strada a una nuova versione dei forni crematori di Auschwitz domani?

da: www.amicidilazzaro.it/index.php/10-ragioni-contro-il-suicidio-assistito/


Buona giornata a tutti. :-)