Hai novant’anni. Sei
vecchia, piena di acciacchi. Mi dicono che sei stata la più bella ragazza del
tuo tempo e io ci credo. Non sai leggere. Hai le mani grosse e deformate, i
piedi induriti. Hai portato sulla testa tonnellate di stoppie e legna, laghi
d’acqua. Hai visto nascere il sole ogni giorno. Con tutto il pane che hai
ammassato si potrebbe imbandire un banchetto universale. Hai allevato persone e
bestie, ti sei messa i maialini nel letto quando il freddo minacciava di
gelarli. Mi hai raccontato storie di apparizioni e di lupi mannari, vecchie
questioni di famiglia, di un morto ammazzato. Trave della tua casa, fuoco del
tuo focolare, sette volte incinta, sette volte hai partorito.
Non sai niente del mondo.
Non ti intendi di politica, né di economia, né di letteratura, né di filosofia,
né di religione. Hai ereditato un centinaio di parole pratiche, un vocabolario
elementare. Con questo sei vissuta e vivi. Sei sensibile alle catastrofi e
anche ai fatti di strada. Nutri grandi odi per ragioni che non ricordi più, e
grandi dedizioni basate sul nulla. Vivi. Per te, la parola Vietnam è appena un
suono barbaro che non si confà al tuo cerchio di una lega e mezza di raggio.
Della fame sai qualcosa: hai già visto una bandiera nera issata sul campanile
della chiesa (me lo hai raccontato tu, o avrò sognato che me lo raccontavi?).
Porti con te il tuo piccolo bozzolo di interessi. E, tuttavia, hai gli occhi
chiari e sei allegra. Il tuo riso è un fuoco d’artificio colorato. Come te, non
ho mai visto ridere nessuno.
Ti sto davanti, e non
capisco. Sono della tua carne e del tuo sangue, ma non capisco. Sei venuta al
mondo e non ti sei curata di sapere che cos’è il mondo. Arrivi alla fine della
vita e il mondo, per te, è ancora quel che era quando nascesti: un interrogativo,
un mistero inaccessibile, una cosa che non fa parte della tua eredità.
Cinquecento parole, un fazzoletto di terra di cui si fa il giro in cinque
minuti, una casa di tegole e pavimento di terra battuta. Stringo la tua mano,
passo la mia mano sul tuo viso rugoso e sui tuoi capelli bianchi, rovinati dal
peso dei fardelli — e continuo a non capire. Sei stata bella, dici, e vedo bene
che sei intelligente. Perché allora ti hanno rubato il mondo? Chi te lo ha
rubato? Ma questo forse lo capisco io, e ti direi il come, il perché e il
quando se solo sapessi scegliere delle mie innumerevoli parole quelle che tu
potresti comprendere. Però ormai non ne vale la pena. Il mondo continuerà senza
di te e senza di me. Non ci saremo detti l’un l’altro quel che più importava.
Non ce lo saremo detto,
davvero? Io non ti avrei dato, perché le mie parole non sono le tue, il mondo
che ti era dovuto. Resto con questa colpa di cui non mi accusi — ed è ancora
peggio. Ma perché, nonna, perché ti siedi sulla soglia della porta, aperta sulla
notte stellata e immensa, sul cielo di cui nulla sai e nel quale mai viaggerai,
sul silenzio dei campi e degli alberi attoniti, e dici, con la tranquilla
serenità dei tuoi novant’anni e il fuoco della tua adolescenza mai perduta:
« Il mondo è così bello,
e io ho tanta pena di
morire! »
E’ questo che non capisco
ma la colpa non è tua.
- José Saramago -
“Non è vero, come dicono,
che le difficoltà rendono
forti.
No, le difficoltà rivelano
chi è forte.
Ci permettono di scoprire
una forza
che non avremmo saputo di
avere.
Ma non fortificano,
stancano.
E le persone forti sono
stanche,
anche se ce la fanno.”
- Antonio Dikele Distefano -
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