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lunedì 28 ottobre 2019

Conosco delle barche - Jacques Brel

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.


Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.


Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.


Conosco delle barche talmente incatenate
che hanno disimparato come liberarsi.


Conosco delle barche che restano ad ondeggiare
per essere veramente sicure di non capovolgersi.


Conosco delle barche che vanno in gruppo
ad affrontare il vento forte al di là della paura.
Conosco delle barche che si graffiano un po'
sulle rotte dell'oceano ove le porta il loro gioco.


Conosco delle barche
che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,
ogni giorno della loro vita
e che non hanno paura a volte di lanciarsi
fianco a fianco in avanti a rischio di affondare.


Conosco delle barche
che tornano in porto lacerate dappertutto,
ma più coraggiose e più forti.


Conosco delle barche straboccanti di sole
perché hanno condiviso anni meravigliosi.


Conosco delle barche
che tornano sempre quando hanno navigato.
fino al loro ultimo giorno,
e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti
perché hanno un cuore a misura di oceano.


 - Jacques Brel -





"Le forze che cambiano
il corso della storia
sono le stesse
che cambiano
il cuore dell'uomo"

citato nella postfazione
a Gilbert Keith Chesterton,
"La Ballata del Cavallo Bianco"




Preghiera della sera

Vi auguro sogni a non finire
la voglia furiosa di realizzarne qualcuno
vi auguro di amare ciò che si deve amare
e di dimenticare ciò che si deve dimenticare
vi auguro passioni 
vi auguro silenzi
vi auguro il canto degli uccelli 
al risveglio 
e risate di bambini
vi auguro di resistere all’affondamento,
all’indifferenza, 
alle virtù negative
della nostra epoca.
Vi auguro soprattutto
di essere voi stessi.

- Jacques Brel -



Buona giornata a tutti. :-)



Grazie!!!



martedì 22 ottobre 2019

Il mistero dell'amore - Anselm Grün

Cambiare atteggiamento
Con ciò che vedo in modo nuovo posso relazionarmi anche in modo nuovo. 
Il modello interpretativo della fede conduce al modello comportamentale dell’amore. Ciò che ho riconosciuto come buono lo tratto anche bene, lo amo anche; ciò che mi è diventato caro a causa del nuovo modo di vedere, lo tratto con cautela e con dolcezza. 
La fede è la scoperta della soluzione di secondo ordine mediante la diversa interpretazione della situazione. 
L’amore è la realizzazione di questa soluzione. 
La fede vede, l’amore agisce. 
L’amore non solo tratta bene, ma fa anche bene; risveglia il bene che la fede ha scoperto nella diversa interpretazione della realtà, per la vita. 
L’amore cambia la realtà, la rende buona, configura il bene che c’è in essa. 
La fede interpreta diversamente, l’amore trasforma.
Su nessun altro termine si è scritto tanto come sul termine amore. 
Non intendo analizzare le varie definizioni dell’amore; mi limito a evidenziare l’aspetto suggerito dall’etimologia del termine: amore come avere caro e fare bene. Da questo punto di vista il sentimento gioca un ruolo subordinato. L’aspetto decisivo è l’azione, ma non un’azione esteriore, che ci si impone dall’esterno come comandamento o dovere, bensì un’azione che scaturisce da una visione. 
L’amore deve essere autentico, non artificiale, non deve essere una benevolenza di facciata. Ma ciò che rende autentico l’amore non è un traboccante sentimento di simpatia o di innamoramento, ma la fede nel bene che c’è nell’altro. 
L’amore non riguarda solo le persone ma, come affermava già Gesù, anche noi stessi e Dio. 
Ora vogliamo considerare brevemente questi tre aspetti:

Amare se stessi
Se credo di essere stato creato buono da Dio, se credo che lui mi vuole bene, mi accetta così come sono, devo comportarmi bene anche con me stesso. 
A cominciare dall’ascolto dei miei desideri e aneliti più intimi e dal godimento di ciò che mi fa veramente bene. 
Può essere anche una buona cena e un buon bicchiere di vino. Ma questo non soddisfa i miei bisogni più profondi. 
Devo ascoltare i miei veri desideri e aneliti. 
Devo ascoltare ciò che c’è nelle profondità del mio essere al punto da incontrarvi Dio e comprendere ciò che egli vuole da me.
È questo ciò che mi fa veramente bene, che risveglia in me la mia vita personale, assolutamente unica, non basata sulle aspettative degli altri e sulle richieste del mio Super­Io, ma originaria e autentica. 
È questa vita che devo godermi e cercare di sviluppare. 
Posso essere aiutato in questo dall’adozione di uno stile di vita personale, uno stile di vita sano che mi fa sentire bene, mi dà la sensazione di vivere personalmente e non fatto vivere da altri, di organizzare personalmente le mie giornate e la mia vita, di vivere nel momento presente, pienamente me stesso, pienamente presente a ciò che sto facendo e in grado di imprimere la mia forma a tutto ciò che faccio.
La sensazione di essere fatti vivere, trascinati e determinati da altri, ci rende infelici. L’amore per noi stessi consiste nell’usare bene il nostro tempo, affrontare le sue sfide e fare veramente nostro ciò che ci viene offerto dall’esterno. 
Quando abbiamo l’impressione di essere programmati da altri, di essere inseguiti dai nostri appuntamenti e dalle scadenze proviamo un senso di estraniazione. 
C’è qualcosa di estraneo che domina la nostra vita. L’amore dovrebbe trasformare ciò che è estraneo in qualcosa di proprio, di personale.
Se accetto liberamente come una sfida proveniente da Dio un lavoro che mi viene imposto dall’esterno, esso non è più per me un peso che mi grava sullo stomaco, del quale sbarazzarmi il prima possibile, ma diventa il mio lavoro. L’oggetto del lavoro mi è imposto da altri e al riguardo io non posso fare nulla. Ma il come lo faccio dipende da me. E prendendo personalmente in mano il come, trasformo anche l’oggetto. 
La pietra che scolpisco esprime ciò che c’è dentro di me. 
Il lavoro che mi viene imposto dall’esterno è una pietra in cui posso esprimere ciò che c’è dentro di me attraverso il mio modo di lavorarla. 
L’amore modella e plasma il dato, trasformandolo in una parte di me.

Amare se stessi significa accettarsi. 
Oggi ci si imbatte continuamente e ovunque in questo consiglio di accettarsi. Ma il problema è come farlo concretamente. Amare significa avere caro, maneggiare bene: è qualcosa che ha a che fare con le mani. 
Anche l’accettare richiede le mani; posso accettare solo con le mani: quando prendo qualcosa in mano, esso di­venta parte di me. Accettare se stessi significa prendersi in mano, trattarsi affettuosamente, bene. 
L’amore è qualcosa di manuale, qualcosa di fisico. 
Mi tratto bene, quando tratto bene il mio corpo; non devo rammollirlo, ma fare in modo che possa lasciare trasparire Dio. Devo ascoltarlo. Attraverso la malattia, le menomazioni, le sofferenze mi dice qualcosa su me stesso. Devo accettare, prendere in mano, far diventare una parte di me ciò che mi dice e riconciliarmi con esso.
Lo stesso vale per i pensieri che affiorano in me. 
Devo accoglierli e accettarli come una parte di me. Ma devo anche rendermi conto se i pensieri mi assalgono dall’esterno e mi impediscono di essere me stesso. In questo caso devo combattere anche contro i pensieri e introdurre in me solo i pensieri buoni, quelli che possono guarirmi. 
I monaci cercavano di riempirsi di buoni pensieri leggendo la Bibbia. 
La loro lettura della Bibbia non era dettata solo dall’amore per Dio, ma anche dall’amore per se stessi. Infatti, la Bibbia scaccia i nostri pensieri negativi e ci guarisce con i pensieri di Dio, che ci permettono di scoprire il nostro vero nucleo. Ogni forma di ascesi è, in definitiva, amore di se stessi. 
Ci trattiamo bene, cerchiamo di incrementare il nucleo buono e di ridurre con gli strumenti ascetici ‑ disciplina, preghiera, lettura della Bibbia, digiuno, ecc. ‑ quel groviglio di spine che ci impedisce di svilupparci e di fiorire.

Amare Dio
Che cosa vuole dire Gesù quando afferma che dobbiamo amare Dio con tutto il cuore e con tutta l’a­nima, con tutti i nostri pensieri e con tutte le nostre forze? (Mc 12,30). 
Tutti conosciamo questi comandamenti. Ma che cosa accade se amo Dio con tutto il cuore? Nel suo discorso di addio Gesù dice: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). Gesù definisce l’amore in termini di comportamento, di azione. Osservare i comandamenti significa trattare se stessi, la propria vita, il proprio tempo, la creazione e gli altri in modo corrispondente a Dio. 
L’amore di Dio si manifesta nel giusto trattamento delle realtà che lo riflettono, della sua creazione, soprattutto della sua creazione più alta, l’uomo.
Noi rischiamo continuamente di scambiare le realtà in cui Dio si riflette per Dio stesso, di perderci in esse al punto da conferire loro un significato e valore assoluto. Così diventano per noi degli idoli. Ciò sconvolge e sovverte ogni cosa. 
Diventiamo schiavi, schiavi del successo, del danaro, dei beni materiali, del riconoscimento, schiavi degli uomini che adoriamo, che diventano tutto per noi. 
Amare Dio con tutto il cuore significa mettere Dio al primo posto, trattare tutto in modo rispondente alla realtà, come ciò che ci è stato donato da Dio e non come Dio stesso. 
Perciò, amare Dio significa, in ultima analisi, relazionarci in modo rispondente alla realtà con le persone e le cose, con il nostro tempo e la nostra vita. Se la mia salute diventa il sommo bene, ruoto esageratamente attorno a me stesso, tutte le mie energie sono impegnate a evitare che qualcosa mi faccia male e così la salute diventa per me un idolo. E io non mi tratto già più come dovrei. 
Se amo Dio, faccio attenzione anche alla mia salute, non mi distruggo con il voler raggiungere a tutti i costi que­sto o quell’obiettivo, ma mi concedo anche tempo libero e riposo. E tuttavia non ruoto attorno a me stesso e alla mia salute. 
Sono libero di svolgere anche un servizio, di accettare anche la malattia dalle mani di Dio come qualcosa in cui egli mi parla, mi indica i miei limiti, il mio disordine interiore, o semplicemente come qualcosa che egli nel suo imperscrutabile disegno pretende da me, forse per espiare un po’ di male in questo mondo.
L’amore di Dio si dimostra anche nel comportamento verso la sua creazione. Se tratto il mondo che mi circonda come dono di Dio, lo curo e custodisco, non lo saccheggio, non mi atteggio a suo padrone. 
Il Signore della creazione è Dio. Nella mia relazione con la creazione faccio sempre attenzione a incontrarvi qualcosa di Dio. 
La sua creazione è impregnata del suo Spirito, essa riflette la sua gloria e la sua potenza. Perciò, nella creazione incontro tangibilmente, nel senso più vero del termine, Dio. In essa tocco veramente un lembo di Dio, pieno di rispetto reverenziale e sapendo che il mio amore per Dio, Signore della creazione, si manifesta nel modo in cui amo la sua creazione.
Ma posso amare Dio solo nelle realtà che lo riflettono, nei miei simili, nella creazione, in me stesso? Non esiste anche una relazione diretta con Dio? 
I salmi affermano che noi amiamo Dio meditando i suoi comandamenti, osservando i suoi grandi interventi nella storia, concordando con ciò che ha creato nella creazione e ha fatto nella storia. 
L’amore di Dio si manifesta quindi nel tempo che gli dedichiamo. In questo tempo ci intratteniamo consciamente con colui che sta dietro ogni creazione e ogni storia e anche dietro la nostra vita. Ora que­sto mistero che oltrepassa ogni realtà visibile viene visto nella Bibbia come una persona, viene descritto con tratti molto umani, come un Dio degno di amore, ma spesso anche come un Dio incomprensibile, sulla cui azione bisogna riflettere a lungo, con il quale bisogna combattere e lottare a lungo, prima di arrendersi e credere di potersi affidare alle sue mani amorose. 
Il mondo e gli uomini lasciano trasparire Dio solo quando riserviamo del tempo unicamente a lui, lo ascoltiamo nel silenzio per poterci avvicinare maggiormente a questo mistero, comprenderlo meglio e diventare infine una cosa sola con lui. Amare Dio significa in ultima analisi diventare una cosa sola con lui.
L’amore non solo interpreta diversamente, ma trasforma. Prende in mano Dio e il suo indescrivibile mistero in modo tale da diventare una cosa sola con lui. L’amore mira proprio a questo: diventare una cosa sola con lui, sperimentare che la nostra vita è sana solo quando diventiamo una cosa sola con Dio. E per sperimentarlo dobbiamo dimenticare il mondo, gli uomini e noi stessi e abbandonarci unicamente a Dio, immergerci in lui, cadere in ginocchio davanti a lui e adorarlo. 
Nell’adorazione non vogliamo raggiungere più nulla per noi stessi. 
Non chiediamo nulla a Dio, neppure la soluzione dei nostri problemi. Dimentichiamo noi stessi e i nostri problemi, non ci rimproveriamo e non ci giustifichiamo davanti a Dio. 
Smettiamo di ruotare attorno a noi stessi e ci prostriamo semplicemente, perché Dio ci tocca, perché egli è più importante della nostra costituzione personale. 
In tutti noi si nasconde questo ardente desiderio di poterci finalmente dimenticare e di essere toccati da Dio al pun­to da esclamare: Dio solo basta. Allora possiamo presagire ciò che significa amare Dio per se stesso.

Amare il Fratello e la Sorella
Il comandamento dell’amore del prossimo sembra oltrepassare le nostre forze. Come posso amare una persona che mi è antipatica, che suscita in me sentimenti negativi? Non posso dominare i miei sentimenti, non posso essere falso con me stesso e con l’altro. Se si parte dalla concezione dell’amore come trasformazione della realtà diversamente interpretata o buon trattamento di ciò che è già stato visto come buono, l’amore non ci costringe a rimuovere i nostri sentimenti negativi e ad adottare un atteggiamento artificiosamente benevolo verso tutte le persone.
Dobbiamo unicamente costringerci a vedere diversamente l’altro. 
Dobbiamo mettere in discussione i nostri pregiudizi e cercare di vedere l’altro con gli occhiali della fede e di credere all’esistenza in lui di un nucleo buono. Non possiamo costringerci ad amare. L’amore deriva dalla fede. Il nostro dovere è quello di accordare il nostro comportamento con il nostro modo di vedere. Altrimenti siamo divisi in noi stessi. Ma non abbiamo bisogno di costringerci a provare sentimenti di amore. La scoperta di un ardente desiderio del bene nell’altro genera anche in noi sentimenti più positivi. Amare significa allora prendere sul serio l’ardente desiderio di bene che esiste nell’altro, scoprire sempre più il bene che c’è in lui, fare in modo che il bene che c’è in lui abbia il sopravvento su ciò che c’è di malato e malsano, di malvagio e oscuro, in modo che tutto in lui diventi buono. Amare significa rendere buono l’altro, trasformarlo sempre più in una persona buona.
Se la fede è il riconoscimento di una soluzione di secondo ordine, l’amore realizza questa soluzione. Come la fede, anche l’amore oltrepassa il livello al quale ci si abbandona a giochi senza fine. Un gioco senza fine è il gioco della vittoria e della sconfitta. Molte persone possono relazionarsi fra loro solo a livello di vittoria e sconfitta. O sono più forte o sono più debole dell’altro, o vinco io o vince lui. Uno deve sempre perdere. Ma questo è un gioco senza fine. Infatti, dopo aver perso lotto per vincere la volta successiva. E se non posso vincere contro lo stesso avversario, cerco qualcun altro che posso vincere. Questo perché non riesco a sopportare di essere un eterno perdente.
L’amore, abbandona questo livello di vittoria e sconfitta, lo oltrepassa e si relaziona con l’altro a un livello superiore. Lo vede non come concorrente, ma come qualcuno che nasconde in sé molto bene. Ed è interessato a rafforzare il bene che c’è in lui, a risvegliare le sue possibilità e a lasciarlo vivere. L’amore non ha bisogno della sconfitta dell’altro per poter credere nel proprio valore e nella propria forza. Chi ha trovato in se stesso, o meglio in Dio, il proprio fondamento e il proprio valore può lasciare che anche l’altro affermi il suo valore. Questo è meno faticoso della continua pressione di dover trionfare sull’altro.
Oltrepassando il livello di vittoria e sconfitta evito la continua lotta per affermare me stesso. E d’un tratto scopro molte possibilità più positive di relazionarmi con l’altro. Posso gioire del suo valore.
Lungi dallo sminuire il mio valore, questo mi permette di partecipare alla sua ricchezza. Occorre solo molta fantasia per oltrepassare il livello di vittoria e sconfitta e pervenire così a una soluzione di secondo ordine. In realtà, l’amore consiste essenzialmente nel lasciarsi guidare dalle intuizioni, nell’escogitare soluzioni fantasiose, nello scoprire nuove strade e possibilità. L’amore rende inventivi. A volte è persino un po’ pazzo. Ma le sue soluzioni pazze sono più umane del gioco infinito che si svolge a livello di vittoria e sconfitta.
Spesso ci rendiamo più difficile l’amore per gli uomini, fissandoci ideali troppo alti. Ciò vale per la nostra relazione con il prossimo. Ci proponiamo continuamente di amare l’altro. E siamo mortalmente delusi dal fatto che l’altro adotta un atteggiamento diametralmente opposto, ci resiste e addirittura ci combatte. 
Spesso confondiamo l’amore con l’intesa, con l’armonia. Sarebbe così bello se tutti potessero vivere armoniosamente insieme. Ma questa è un’utopia. Desideriamo profondamente l’armonia e pensiamo normalmente che siano gli altri a disturbarla o addirittura a distruggerla. 
Così d’un tratto troviamo difficile continuare ad amare coloro che rovinano il gioco.
Il vero amore non pone condizioni agli altri. Li prende così come sono. Vede con lucidità ciò che c’è in loro: scontentezza, aggressività, sete di potere, brama di riconoscimento, intrighi, ma anche un ardente desiderio di bene. L’amore non si illude, trasforma il dato di fatto. Risveglia il bene nelle persone malate e distrutte. L’amore non teme i conflitti, perché oltrepassa il livello del conflitto. Anche nel conflitto si chiede che cosa faccia veramente bene all’al­tro. Poiché l’amore supera il livello, nel conflitto non si aggrappa con i denti alle emozioni, ma continua coerentemente a cercare la vera soluzione.
L’ardente desiderio di armonia evita la dura realtà e si rifugia in un mondo apparente. L’amore affronta la realtà, la accetta e la trasforma. Si può cambiare solo ciò che si è accettato. L’amore segue questa legge fondamentale della vita, accettando ciò che trova come dato di fatto.
Le concezioni utopiche spesso rendono più difficile l’amore fra i coniugi o fra gli amici. Si stravede per l’amore reciproco e poi si cade dalle nuvole quando il partner non ha lavato i piatti. Il sublime volo dell’amore finisce nelle banalità della vita quotidiana. Per Benedetto da Norcia l’amore fraterno si manifesta molto concretamente nella disponibilità ad accettare i compiti quotidiani e a svolgerli con coscienza e cura. L’amore deve incarnarsi e assumere la realtà della vita. La realtà è spesso dura e formata da mille cose di poco conto. Incontro l’altro non solo nei suoi sublimi pensieri e sentimenti, ma anche nelle sue abitudini che mi innervosiscono.
Del resto, per Benedetto l’amore si manifesta anche nel (sop)portare le reciproche debolezze e i reciproci difetti (Regola di Benedetto 72). 
Invece di abbandonarsi a concezioni utopiche, l’amore accetta la realtà dell’altro e la concreta convivenza, non chiude gli occhi davanti alla realtà, ma oltrepassa il livello al quale ci si urta reciprocamente. Esso vede oltre il visibile ciò che è invisibile nell’altro, la sua buona intenzione, il suo nucleo buono, le sue possibilità positive. E lo tratta a partire da questo livello. 
Così si relativizzano molti screzi e piccoli conflitti che non diventano più così tremendamente importanti, non vengono negati e rimossi, ma accettati e trasformati. 
L’utopia finisce in rassegnazione, mentre l’amore affronta attivamente i problemi della vita quotidiana, con molta fantasia, con pazienza, con un respiro lungo e con umorismo, che costituisce una tipica soluzione di secondo ordine. 
Queste peculiarità dell’amore sono state magistralmente descritte da Paolo nella Lettera ai Corinti: «La carità è longanime (makrothymos, magnanimitas, cuore grande, lungo respiro), la carità è benigna (chresteuetai, rende buoni) [...] tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4.7).
L’amore affronta la realtà, le tiene testa, la sopporta e la cambia, perché crede al bene che Dio vi ha immesso. E perché confida che Dio può cambiare tutto con il suo amore.

- Padre Anselm Grün - 



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domenica 13 ottobre 2019

da: "Le ore" - Michael Cunningham

Viviamo le nostre vite, facciamo qualunque cosa e poi dormiamo – è così semplice e ordinario. 
Pochi saltano dalle finestre o si annegano o prendono pillole; più persone muoiono per un incidente; e la maggior parte di noi, la grande maggioranza, muore divorata lentamente da qualche malattia o, se è molto fortunata, dal tempo stesso. 
C’è solo questo come consolazione: un’ora qui o lì, quando le nostre vite sembrano, contro ogni probabilità o aspettativa, aprirsi completamente e darci tutto quello che abbiamo immaginato, anche se tutti tranne i bambini (e forse anche loro) sanno che queste ore saranno inevitabilmente seguite da altre molto più cupe e difficili. 
E comunque amiamo la città, il mattino; più di ogni altra cosa speriamo di averne ancora.

da: Le Ore
di Michael Cunningham, editore Bompiani



La nostra vita è fatta da un susseguirsi di ore; ce ne saranno di piacevoli che quasi sicuramente saranno poi seguite da altre spiacevoli, consapevolezza dalla quale non si può fuggire, forse neppure quando siamo bambini.

Immagina di voltarti indietro, di tirare fuori la pietra dalla tasca, di tornare a casa. 
Potresti continuare a vivere; potresti compiere questo atto finale di gentilezza.

Eppure questo amore indiscriminato è totalmente serio per lei, come se ogni cosa del mondo fosse parte di un intento vasto e imperscrutabile e ogni cosa del mondo avesse il suo nome segreto, un nome che non può essere incanalato in una lingua, ma è semplicemente il vedere e sentire le cose in sé.
Non amiamo forse i bambini in parte perché vivono al di fuori del regno del cinismo e dell'ironia? 
È così terribile per un uomo volere più giovinezza, più piacere?
Le sembra di aver iniziato in quel momento a vivere nel mondo, a capire le promesse implicite in uno schema che è più grande della felicità umana, sebbene contenga la felicità umana insieme a ogni altra emozione.
Non mangiare è un vizio, un tipo di droga – con lo stomaco vuoto si sente veloce e pulita, lucida di mente, pronta per una battaglia.
Ha capito che avrebbe avuto problemi a credere in se stessa, nelle stanze della casa, e quando ha gettato uno sguardo a questo nuovo libro sul comodino, impilato sull'altro che ha finito la scorsa notte, lo ha preso automaticamente, come se leggere fosse il solo e naturale compito con cui iniziare la giornata, la sola via praticabile per gestire il passaggio dal sonno al dovere.
Inspira profondamente. È così bello. È molto più di... Be', di quasi tutto, in realtà. In un altro mondo, avrebbe potuto trascorrere tutta la vita a leggere.
Una pagina, decide: solo una. 
Non è ancora pronta.

da: Le Ore
di Michael Cunningham, editore Bompiani



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sabato 12 ottobre 2019

Come Adamo, sfuggiamo alla responsabilità della propria vita - Martin Buber

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. 
Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. 
Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest'uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. 
Alla fine chiese: "Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». "Credete voi - rispose il Rav - che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui?". "Sì, lo credo", disse. "Ebbene - riprese lo zaddik - in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’
Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’".
All'udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: "Bravo!"; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell'insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l'assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l'aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all'inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l'Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov'è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l'onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l'apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l'assenza di senso di responsabilità nella sua anima. 
La domanda oggettiva - che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia - riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. 
Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l'ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: "Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’". Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. 
Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell'interrogativo posto da Dio: "Dove sei?", sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. 
Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell'uomo una reazione suscitabile per l'appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l'uomo e che l'uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. 
Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l'esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. 
Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento "davanti al volto di Dio", l'uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. 
Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. 
È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l'uomo non può sfuggire all'occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. 
Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l'uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l'uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all'orecchio, a chiunque "il cuore tremerà", proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell'uomo; è "la voce di un silenzio simile a un soffio", ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell'uomo non può diventare cammino. 
Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. 
Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: "Mi sono nascosto". 
Qui inizia il cammino dell'uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell'uomo l'inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. 
Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – "Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’" - disse ai suoi discepoli: "Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. 
Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l'uomo nell'afflizione".
Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. 
La si riconosce dal fatto che non si ferma al "Dove sei?" ma prosegue: "Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito". 
Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l'uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l'uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell'orgoglio demoniaco, dell'orgoglio della perversione.

- Martin Buber - 
da: Il cammino dell'uomo, Qiqajon, 1990, pagg.21-23


Mosaico bizantino V-VI sec., Nord Siria, Museo di Cleveland


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martedì 8 ottobre 2019

La favola del pesciolino d'oro - don Bruno Ferrero, sdb

C'era una volta un pesciolino d'oro, che un bel giorno prese i suoi sette talenti e guizzò lontano, a cercar fortuna. Non era arrivato tanto lontano che incontrò un'anguilla, che gli disse: "Psst, ehilà compare, dove te ne vai?".

"Me ne vado in cerca di fortuna", rispose fieramente il pesciolino d'oro.
"Sei arrivato al punto giusto", disse l'anguilla. "Per soli quattro talenti ti puoi comprare questa magnifica e velocissima pinna, grazie alla quale viaggerai a velocità doppia".
"Oh, è un ottimo affare", disse estasiato il pesciolino d'oro. Pagò, prese la pinna e nuotò via più velocemente di prima.
Arrivò ben presto dalle parti di una grossa seppia, che lo chiamò.
"Ehilà, compare, dove te ne vai?".
"Sono partito in cerca di fortuna", rispose il pesciolino d'oro.
"L'hai trovata, figliolo", disse la seppia. "Per un prezzo stracciato ti posso vendere questa elica, così viaggerai ancora più in fretta".
Il pesciolino d'oro comprò l'elica con il denaro che gli era rimasto e ripartì a velocità doppia.
Arrivò ben presto davanti a un grosso squalo, che lo salutò.
"Ehilà, compare, dove te ne vai?".
"Sono in cerca di fortuna", rispose il pesciolino d'oro.
"L'hai trovata. Prendi questa comoda scorciatoia", disse lo squalo indicando la sua gola spalancata, "così guadagnerai un sacco di tempo".
"Oh, grazie mille!", esclamò il pesciolino d'oro e si infilò nelle fauci dello squalo, dove venne comodamente digerito.

Chi non sa bene che cosa vuole, finisce, molto facilmente, dove non avrebbe voluto.


- don Bruno Ferrero, sdb - 
da: "Cerchi nell'acqua" Casa editrice Elledici



Ogni giorno per andare al lavoro, per mangiare, per muoverci, per vivere, noi compiamo una serie infinita di atti di fiducia. 
Ci affidiamo agli altri, al medico che ci cura, al muratore che ha costruito la nostra casa, al pizzaiolo che ci fa mangiare, al pilota che ci deve portare lontano. 
Diamo fiducia non perché lo vogliamo, perché davvero ci fidiamo, ma perché non possiamo farne a meno. 
E non è vero che la fiducia si dà solo alle cose serie, la fiducia si dà a tutto e tutti, per obbligo, perché la fiducia ci fa vivere. E morire.


- Alessandro Perissinotto - 





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sabato 5 ottobre 2019

Perchè il morire ci deve fare così paura? - Tiziano Terzani

“C’è un concetto che l’India ti dà: che è nata, è morta, è nata e morta tanta gente; e che quest' esperienza del nascere, vivere e morire è quella più comune agli uomini.
Perché il morire ci deve far così paura? 
È la cosa che hanno fatto tutti! 
Miliardi e miliardi e miliardi di uomini, gli assiro­babilonesi, gli ottentotti, tutti ci sono passati. E quando tocca a noi, ah! siamo persi.
Ma come?! L’hanno fatto tutti.
Se ci pensi bene, questa è una bella riflessione che molti han­no fatto ovviamente: la terra sulla quale viviamo in verità è un grande cimitero!
Un grande, immenso cimitero pieno di tutto quello che è stato. 
Se scavassimo, troveremmo dovunque ossa ormai ridotte in polvere, resti di vita. 
Ti immagini i miliardi di miliardi di miliardi di esseri che sono morti su questa terra? So­no tutti lì!  
Noi camminiamo continuamente su un enorme ci­mitero  strano, perché i cimiteri come noi li concepiamo so­no luoghi di dolore, di sofferenza, di pianto, circondati da ci­pressi neri. Mentre in verità il grande cimitero della terra è bellissimo, perché è la natura. 
Ci crescono sopra i fiori, ci corrono sopra le formiche, gli elefanti.
Ride.
Se la vedi così e torni a far parte di tutto questo, forse quel che resta di te è quella vita indivisibile, quella forza, quella in­telligenza a cui puoi mettere una barba e chiamarla Dio, ma che è qualcosa che la nostra mente non riesce a capire e che for­se è la grande mente che tiene tutto assieme.”

- Tiziano Terzani -
Fonte: “La fine è il mio inizio”  di  Tiziano  Terzani-Longanesi





Oggigiorno tutti vogliono essere sani, snelli e belli. 
Il fatto che la salute non si faccia ancora sentire in senso negativo non vuol dire niente.
L'organismo cresce e si sviluppa fino a vent'anni poi comincia il processo inverso. 
Esiste una legge poco piacevole che dice: se non c'è sviluppo, comincia il degrado. 

Se prima la salute ci veniva semplicemente data, dopo i 40 e per qualcuno anche prima, per averla bisogna lottare con consapevolezza.



E' importante per l'uomo aver attorno a sè un po' di natura, osservarla, impararne la logica e goderne..

Come può un bambino crescere mentalmente sano nel mezzo di una città, senza sentire, accanto al ritmo della propria vita, quello della vita degli animali e delle piante?
Mai come nel nostro tempo l'uomo si è così allontanato dalla natura, e questo è forse stato il più grande dei nostri errori !!

- Tiziano Terzani -




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