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domenica 17 dicembre 2017

Attesa. Vigilanza. Speranza. Preghiera. Povertà. Penitenza. Conversione. Testimonianza. Solidarietà. Pace. Trasparenza – + don Tonino Bello, Vescovo

C’è una parola chiave che caratterizza quest’arco dell’anno liturgico, e attorno alla quale noi articoliamo abilmente i contenuti dell’annuncio cristiano: attesa. 
E’ come una bambola russa: ad aprirla, cioè, ne trovi un’altra: vigilanza
Se apri anche questa, ci trovi dentro speranza
E così via, fino a giungere alle più interessanti sottospecie della stessa famiglia. Messe tutto allo scoperto, queste bambole riempirebbero un tavolo di buoni sentimenti. 
E’ un gioco bellissimo di implicazioni e di esplicazioni, che ci fa vedere quanto sia esteso il fronte su cui deve esprimersi la nostra conversione in questo periodo che ci prepara al Natale.

Attesa. Vigilanza. Speranza. Preghiera. Povertà. Penitenza. Conversione. Testimonianza. Solidarietà. Pace. Trasparenza. 

Dopo aver meditato i testi biblici, sarebbe interessante sedersi attorno al tavolo con la gente e chiedere, per ogni bambola russa, il nome delle altre successivamente racchiuse. Ne verrebbe fuori un campionario di atteggiamenti interiori davvero interessante che, proprio perché elaborato da un processo critico, potrebbe essere assunto con più facilità come telaio ascetico su cui disegnare il cammino dell’avvento.

Ma, con questa procedura, si rimane ancora un po’ troppo dalla parte dell’uomo. Si dà troppo l’impressione, cioè, che l’avvento costituisca un espediente ciclico che, con le sue risorse, ci stimola a ricentrare la vita sul piano morale, e basta.

Senza dubbio, tutto questo non è sbagliato. Però si corre il rischio di trasformare l’avvento in una specie di palestra spirituale, in cui si pratica l’allenamento intensivo alle buone virtù. 
La qual cosa resta sempre un’esercitazione eccellente, ma dà un’immagine riduttiva di questo grande momento di grazia. 
Occorre allora guardare le cose anche dalla parte di Dio. Sì, perché anche in cielo oggi comincia l’Avvento, il periodo dell’attesa. Qui sulla terra è l’uomo che attende il ritorno del Signore. Nel cielo è il Signore che attende il ritorno dell’uomo. 
E’ una visione prospettica splendida, che ci fa recuperare una dimensione meno preoccupata degli aspetti morali della vita cristiana e più interessata a cogliere il disegno divino di salvezza. 
Forse si potrebbe ripetere anche qui il gioco delle bambole russe. Visto che anche per Dio la parola chiave dell’avvento è attesa: ma quali ulteriori parole si potrebbero successivamente trovare l’una all’ interno dell’altra? Si può provare a indicarne due, cogliendo l’anima dei testi biblici proclamati: salvezza e pace. 
La parola salvezza evoca il progetto finale di Dio, così come viene abbozzato nelle prime letture e nel salmo responsoriale. I popoli che salgono al monte del Signore e che esultano finalmente dinanzi a Gerusalemme esprimono il trasalimento di Dio, che vede raccolte attorno a sé tutte le genti, nello stadio finale del Regno. Attese irresistibili di comunione. Solidarietà con l’uomo. Bisogno di comunicargli la propria vita. Disponibilità a un perdono senza calcoli. Questo sono i sentimenti di Dio, così come ci viene dato di coglierli nella filigrana delle letture bibliche.
Oggi è impossibile, durante la liturgia, non rifarsi alla tenerezza del Padre, alle sue sollecitudini, alle sue ansie per il ritorno a casa di ogni figlio. Viene in mente l’espressione della parabola del figlio prodigo: «Mentre era ancora lontano, il padre lo vide (Lc 15,20). Di qui l’avvio della speranza in ognuno di noi. Coraggio, «la notte è avanzata, il giorno è vicino. La nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti» 
Di qui anche l’avvio dell’impegno. Che cosa fare per non deludere le attese del Signore? Quali sono le «opere delle tenebre» che bisogna gettare, e quali le «armi della luce» di cui bisogna rivestirsi? 
Non si potrebbe oggi fare, magari con opportuni silenzi, una sorta di check-up, individuale e collettivo, in fatto di comunione? Forse si torna ancora al prontuario dei buoni atteggiamenti morali, ma stavolta come galassia di impegni, affinché la gioia di Dio sia completa. 
La parola pace evoca, invece tutta una serie di percorsi obbligati per poter giungere alla salvezza. 
Oggi non bisogna lasciarsi sfuggire l’occasione della concretezza, per dire senza frasi smorzate che pace, giustizia e salvaguardia del creato sono il compito primordiale di ogni comunità cristiana. Che attingere a piene mani alla riserva utopica del Vangelo è l’unico realismo che oggi ci venga consentito. Che osare la pace per fede, sfidando il buon senso della carne e del sangue, è la prova del nove sul credito che sappiamo esprimere a favore della parola del Signore. Che la non violenza attiva deve divenire criterio irrinunciabile che regola tutti i rapporti personali e comunitari. 
La lettura non tollera interpretazioni di comodo. Se noi cristiani permetteremo l’ingrandirsi degli arsenali delle spade e delle lance a danno dei depositi dei vomeri e delle falci, non risponderemo alle attese di Dio. 
Così pure, se non sapremo leggere in termini fortemente critici le esercitazioni dei popoli nell’arte della guerra, sviliremo Isaia, estingueremo la nostra carica profetica, e difficilmente, nella notte di Natale, potremo accogliere l’esplosione dello «shalom», annunciato dagli angeli agli uomini che Dio ama (Lc 2,14).

+ don Tonino Bello, Vescovo 
[Antologia degli Scritti, Vol. 6, pg. 222-225]




Altro Natale:
culle insanguinate
senza lacrime di madri,
pianti sconsolati di fame
senza latte, senza pace,
senza ninne nanne.

Altro Natale
non con il piccolo presepe
tra gente semplice, fedele,
ma su strade d'asfalto,
tra l'urlo dei motori
nel brivido della morte violenta.

Altro Natale
senza compassione
dove Tu, Dio,
vuoi nascere ancora
per amare con cuore d'uomo.
Vieni, non mancare,
perché c'è sempre Lei ad aspettarti
in mezzo a noi:
la Povera,
la Vergine,
la Madre. 

 - Madre Anna Maria Cànopi -



Buona giornata a tutti. :-)







sabato 16 dicembre 2017

Il quarto dono - Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. 
Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. 
Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.
«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.
Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. 
I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. 
Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente. Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo.
I quattro entrano e si trovano in una locanda. 
Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.

«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.
A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. 

I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta.

Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. 
La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. 
Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. 

Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.

Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. 

Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.

Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. 

Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. 
C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.
È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. 
Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. 

Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.

I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»
Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. 
Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. 
Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. 

Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.

Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. 
Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. 

Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.

«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. 
Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. 
È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. 
Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. 
Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. 

Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»

Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. 
Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.
Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. 
La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

Gulli Morini - 





Buona giornata a tutti. :-)





venerdì 15 dicembre 2017

Il Natale è un regalo di Dio - Chesterton Gilbert Keith

.... A tal proposito, prendiamo un esempio fra i molti che vedono questo principio in atto: il caso dei regali di Natale. Poco tempo fa, ho letto un’affermazione della signora Eddy sull’argomento: diceva che lei non «faceva regali» nel senso grossolano, sensuale e terreno dell’espressione, ma che si sedeva immobile a pensare alla Verità e alla Purezza in modo che tutti i suoi amici sarebbero diventati, per questo, migliori. 
Adesso, io non dico che questo metodo sia necessariamente superstizioso o inefficace, e non c’è dubbio che, dal punto di vista economico, abbia un suo fascino. 
Dico solo che non è cristiano alla stessa prosaica e concreta maniera di quanto suonare una musica al contrario non sia musicale o usare un’abbreviazione come ain’t non sia grammaticalmente corretto. 

Non so se ci sia un testo della Scrittura o un Concilio che condanni la teoria della signora Eddy sui regali di Natale, ma la condanna sicuramente il cristianesimo, così come la vita militare condanna chi si dà alla fuga.
Le due attitudini – della signora Eddy e del cristianesimo, rispettivamente – non sono solo antagoniste a causa di differenti teologie, o di differenti scuole di pensiero: prima ancora che s’inizi a ragionare, è lo stato d’animo che è differente. 
La più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni; che venga, cioè, messa in un corpo. 
Un regalo di Dio che può essere visto e toccato: se l’epigramma del credo cristiano ha un punto essenziale è questo. Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale. 
Una nota a favore dei regali materiali di Natale è stata buttata giù persino prima della Sua nascita, con i primi spostamenti dei saggi dell’Oriente e della stella: i Tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. 
Se avessero portato con sé solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana.
Questi tre doni sono stati oggetto di chissà quante omelie, ma vi è un loro aspetto cui raramente è stata riconosciuta la giusta e meritata attenzione. 
È alquanto bizzarro che i nostri scettici europei, mentre prendono in prestito dai filosofi orientali così tanto del loro determinismo e della loro disperazione, si prendano anche costantemente gioco dell’unico elemento orientale che il cristianesimo ha entusiasticamente incorporato, l’unico autenticamente semplice e affascinante. Intendo, cioè, l’amore degli orientali per i colori vivaci e l’eccitazione infantile che hanno di fronte al lusso. 
Uno dopo l’altro, gli scettici hanno invariabilmente giudicato la Gerusalemme nuova di san Giovanni un ammasso di gioielli vistosi e di cattivo gusto. 
Uno dopo l’altro, hanno denunciato i riti della Chiesa come esibizioni pacchiane di viola sensuale e d’oro sgargiante. 
In realtà, nelle sue scelte, la Chiesa si dimostrò molto più saggia sia dell’Europa che dell’Asia. 
Si accorse, infatti, che l’appetito orientale per il rosso, l’argento, il verde e l’oro era di per sé innocente e appassionato, sebbene dissipato dalle civiltà inferiori per il loro indulgere alla mollezza e alla tirannia. 
Al contrario, vide insito nella stoica sobrietà di Roma – sebbene apparentata all’equità e allo spirito pubblico della civiltà più elevata che esistesse allora – un latente pericolo di rigidità e di orgoglio. 
La Chiesa prese tutto l’oro multi-sfaccettato e i colori brulicanti che avevano adornato così tante poesie erotiche e tante crudeli storie d’amore in Oriente, e con quella congerie variopinta di fiaccole illuminò le gigantesche dimensioni dell’umiltà e le più grandi cromie dell’innocenza. 
Prese i colori dalla schiena del serpente, lasciando perdere, però, il serpente.
Il popolo europeo ha, nel suo insieme, seguito in questo la guida dell’istinto e dell’arte cristiani. 
Niente tira più su di morale per la nostra tradizione popolare del guardare l’Oriente come a un insieme di forme pittoresche e di colori, piuttosto che a un sistema filosofico rivale. Sebbene sia, di fatto, un tempio di vetuste cosmologie, noi lo trattiamo come un grande bazar, cioè come un enorme negozio di giocattoli. 
Alla gente comune, pensando al Vicino Oriente, vengono più spesso in mente le Notti arabe, piuttosto che il Profeta arabo. 
Costantinopoli fu conquistata da una cultura saracena che, a quel tempo, era immensamente inferiore alla nostra. Ciononostante, noi ci preoccupiamo non della cultura dei Turchi, ma dei loro tappeti. 
Per anni, un certo ironico agnosticismo ha pervaso l’Impero Celeste. Ma noi Europei non ci informiamo sugli enigmi della Cina, ma solo sui loro puzzle. Consideriamo l’Oriente come una sorta di colossali grandi magazzini, e facciamo bene. 

È la cosa che dell’Oriente è più cordiale e più umano, ed è ciò che qualcuno chiama «violenza dei suoi colori» e «cattivo gusto delle sue gemme».
Solo dagli stessi scettici moderni, che ci propongono la tetra visione del mondo dell’Oriente miscelata ai più tetri costumi dell’Occidente, potremo sapere quanto cattive siano le altre cose orientali; la ruota del destino mentale, per esempio, o le lande desolate dei dubbi della mente. 
Schopenhauer ci mostra il veleno del serpente senza la sua lucentezza; tutt’al contrario, la Chiesa dei primi secoli ce ne aveva invece mostrato la lucentezza senza il veleno. Cioè la lucentezza che la Cristianità era riuscita a estrarre dal groviglio delle cose orientali. 
L’oro si è diffuso veloce come il fuoco nella foresta fino a lambire ogni manoscritto e ogni statuto, e ha cinto stretta la testa di ogni re e di ogni santo. Ma tutto ciò ebbe origine da quel mucchietto d’oro che Melchiorre portò con sé quando attraversò il deserto per giungere a Betlemme.
Gli altri due doni sono ancor più contrassegnati dal grande segno del cristianesimo: l’apprezzamento dell’esperienza sensoriale e di ciò che è materiale. 
C’è persino qualcosa di sfacciatamente carnale nell’appello che l’incenso e la mirra fanno al senso dell’olfatto. 

Il naso non è tagliato fuori dal resto del divino corpo umano. La dignità di un organo che appare comico, per la mentalità moderna, quanto la proboscide di un elefante è invece riconosciuta con molta disinvoltura nell’immaginario orientale.
Comunque, tanto per dare un colpo al cerchio dopo averlo dato alla botte, se questa forma di asiatica luxuria è ammessa nel mistero cristiano, è solo per subordinarla a una semplicità e a una sobrietà superiore. 
L’oro è portato in una stalla; i re devono andare in cerca di un falegname. 
I Magi sono in cammino, non per trovare la saggezza, ma piuttosto una forte e santa ignoranza. 
Quegli uomini saggi provenivano dall’Oriente, ma si diressero verso Occidente per incontrare Dio.
Oltre a questa qualità tangibile e incarnata che rende i regali di Natale così squisitamente cristiani, c’è un altro elemento che ha un effetto spirituale analogo: intendo ciò che potremmo chiamare il loro particolarismo, la loro peculiare singolarità. 

Ancora una volta, a questo proposito, le nuove teorie – di cui la Scienza Cristiana è la più estesa e lucida – approdano a conclusioni sorprendentemente diverse, anzi opposte: la moderna teologia proverà a convincerci che il Bambino di Betlemme è solo un’astrazione che rappresenta la totalità dei bambini, e la Madre di Nazareth solo un simbolo metafisico della maternità.
La verità è un’altra: la narrazione della Natività ha un valore pienamente universale proprio perché riguarda una sola madre e un solo figlio, singoli e concreti. 
Infatti, se Betlemme non fosse particolare, non sarebbe popolare. Immaginiamo una canzone d’amore per una donna altezzosa, talmente penetrante e letale che nessun uomo – dal più umile che spinge l’aratro al principe in sella – possa fare a meno di cantarla da mane a sera; ognuno, senza eccezioni, smetterebbe immediatamente se dicessi loro che la canzone non era stata composta per una donna in particolare, ma solo, genericamente, per le donne in astratto.
Il Natale, persino nei riti più comici e casalinghi delle calze di Natale e delle scatole dei regali, è pervaso da questa particolare idea di patto d’intimità fra Dio e l’uomo – un cappello divino che si adatta perfettamente alla testa dell’uomo. Il cosmo è concepito come un ufficio postale centrale e celeste. 
Il sistema postale è, di fatto, rapido e vasto; ciononostante i pacchi vengono consegnati tutti, integri e sigillati. 
I regali di Natale sono simbolo di una protesta permanente fatta per conto del «dare» come distinto da quel mero «condividere» che i moderni sistemi di valore presentano come equivalente o superiore al primo. 

Il Natale rappresenta questo eccezionale e sacro paradosso: dal punto di vista spirituale, se Tommy e Molly si dessero a vicenda una moneta da sei penny, compirebbero una transazione di valore superiore rispetto alla condivisione di uno scellino.
Il Natale è qualcosa di meglio che una cosa per tutti: è una cosa per ognuno. 
E a chi trovi queste frasi inutili o stravaganti, o pensi che non vi sia fra di esse alcuna differenza se non la ricercatezza delle parole, l’unico riscontro possibile è quello che ho già indicato, cioè sottoporre la questione alla prova – dal valore stabile e duraturo – del popolino. 
Prendiamo cento ragazze a caso in una scuola e verifichiamo se non fanno alcuna distinzione fra il ricevere un fiore ciascuna o, al contrario, un giardino per tutte. 
Se pertanto queste nuove scuole di spiritualità intendono dimostrare di possedere lo spirito e il segreto delle feste cristiane, devono almeno provarlo non con affermazioni astratte, ma con un ceffone di quelli speciali e inequivocabili, che lascino un segno pungente e duraturo, per esempio dimostrando di essere in grado di scrivere un canto di Natale o, addirittura, di saper cucinare una torta di Natale.

- Chesterton Gilbert Keith - 
da "Teologia dei regali di Natale (1910) dalla raccolta "Lo spirito di Natale, D'Ettoris Editori



«Canto di Natale»


Nel grembo di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una luce
(stanco e disfatto è il mondo, ma qui tutto
proprio tutto va bene).
Sul seno di Maria giaceva il Bimbo
la sua chioma era simile a una stella
(sono astiosi e astuti tutti i re
ma qui sinceri i cuori).
Sul cuore di Maria giaceva il Bimbo
ed era la sua chioma come il fuoco
(stanco è il mondo, ma del mondo
è questo il desiderio).
Stava Cristo ai ginocchi di Maria
la sua chioma pareva una corona.
E tutti i fiori a lui guardavan su
tutte le stelle giù.

- Gilbert  Keith Chesterton -
(Londra 1874 – Beaconsfield 1936)



mercoledì 13 dicembre 2017

Da: “Lucifero ha paura del Natale” - Marcello Lanza, esorcista

…..Quasi dialogando con l’autore – che è un sacerdote esorcista – vorrei innanzitutto ringraziarlo perché in queste sue pagine ha comunicato il suo convincimento circa la lotta che il Maligno – Lucifero era il suo nome proprio quale angelo di luce –, pur essendo un vinto, cerca ancora di intentare contro Dio per contrastane l’opera salvifica.
L’autore – ed è un altro merito di questo testo – non ci parla del Maligno attraverso fatti sensazionali, ma ci porta al cuore della lotta, là dove la ribellione di Lucifero è nata e dove, anche, il Maligno è stato vinto: nel mistero dell’incarnazione, morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo.
Questa prospettiva è liberante, perché ci fa volgere lo sguardo a colui che è venuto sulla terra per essere il nostro salvatore: solo fissando lo sguardo su di lui e invocandone l’aiuto, si può vincere ogni tentazione e seduzione del Maligno.
Ecco perché è tanto importante celebrare con viva partecipazione i misteri di Cristo, che la liturgia ogni anno ci fa ripercorrere rendendoli efficacemente presenti.
La nascita di Gesù sulla terra da una Vergine immacolata, palesemente destabilizza il regno abusivo di Lucifero, che da angelo di luce è diventato spirito tenebroso sempre all’opera per trascinare l’umanità nella falsa luce del suo regno.
Come discernere la vera luce dalle false luci? 
L’autore non ha dubbi nell’indicare di fare ricorso a colei che mai fu intaccata dalla colpa dei progenitori: l’Immacolata Vergine Maria, madre di Cristo e della chiesa. Lucifero ha paura del Natale, perché da questa donna è nato il Cristo, colui che gli ha tolto il potere e che, come a un serpente insidioso, gli ha schiacciato la testa.
La sua piena sconfitta avviene sul Calvario, ma essa comincia già con il «sì» della Vergine – immacolata proprio grazie al sacrificio redentore del Figlio – con il concepimento e la nascita di Gesù. Sì, l’angelo che ha perduto la luce per la sua superbia, ha paura di quel bambino che nasce a Betlemme e che viene accolto come la Luce venuta a splendere nelle tenebre, come il Sole divino che mai tramonta. È un bambino divino che ha autorità regale e si presenta – al contrario di Lucifero! – nell’umiltà della carne umana proprio per redimerla dall’interno del suo essere. 
Maria, umile serva, è come il trono del Re dell’universo. 
L’umanità è attratta da questo «piccolo Re di gloria» e accorre ad adorarlo nella povertà di una capanna. Lucifero sa che questo è l’inizio della sconfitta.
Per questo, come si esprime il salmista: «Digrigna i denti e si consuma» (Sal 112,10); lo dimostra l’ostilità di Erode che tenta di sopprimere il bambino per timore di perdere il proprio trono. 
Ma un inno della solennità dell’Epifania canta: «Perché temi Erode? Non porta via i regni terreni, colui che è venuto a donarci il regno dei cieli». 
Il bambino, nato in una capanna nella campagna di Betlemme, regnerà sul trono della croce eretta su un colle che si chiamerà Calvario. 
Con la nascita di Gesù, si può dire, il trono di Lucifero – detto anche satana e diavolo – crolla come tutti i troni eretti nella storia dell’umanità da uomini che – sedotti da Lucifero – si illudono di essere onniscienti e onnipotenti, quindi di poter sfidare Dio e sopprimerlo nelle anime dei credenti con i loro sottili e falsi ragionamenti. Ma la stella di Betlemme brilla sempre e illumina la notte di chi, di fede in fede, avanza sulle vie di Dio.

- Madre Anna Maria Cànopi - 
abbadessa dell’Abbazia benedettina «Mater Ecclesiæ»
Isola San Giulio sul lago d’Orta (Novara)
19 marzo 2017 Solennità di San Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria
Da: “Lucifero ha paura del Natale” - Marcello Lanza, esorcista, edizioni Messaggero Padova





Il Dio bambino entra nel mondo per dissipare gli inganni di colui che si traveste da angelo di luce (cf. 2Cor 11,14) per abbagliare gli uomini con le sue attraenti seduzioni, tra cui l’occultismo che apre le porte alla sua azione straordinaria. 
Dio diventa uomo per riaprire le porte del paradiso, allora Lucifero teme che l’uomo, assumendo uno stile di vita natalizio, riscopra la strada, la vera luce, che conduce alla beatitudine eterna. 
Il Natale diventa, così, inizio di riflessione sul paradiso.

Da: “Lucifero ha paura del Natale” - Marcello Lanza, esorcista, edizioni Messaggero Padova




«Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo» (1Gv 3,8b). In seguito al peccato originale l’uomo doveva riscattarsi dal potere delle tenebre al quale liberamente si è sottoposto, ma solo Dio poteva distruggere le opere del diavolo, che tutte sfociano in un’unica prospettiva: l’abisso della perdizione. Questa lotta inizia proprio col Natale del Signore Gesù: «Il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, per- ché il mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra».
Dio diventa uomo per salvare il suo popolo dai peccati e distruggere le catene di Lucifero con il dono della divina misericordia. Tale opera ha inizio proprio nella santa grotta di Betlemme ed è ben espressa nei rituali di esorcismo in vigore.

Da: “Lucifero ha paura del Natale” - Marcello Lanza, esorcista, edizioni Messaggero Padova



Buona giornata a tutti. :-)




lunedì 11 dicembre 2017

La morte della Parrocchia - don Bruno Ferrero

Sui muri e sul giornale della città comparve uno strano annuncio funebre: «Con profondo dolore annunciamo la morte della parrocchia di Santa Eufrosia. I funerali avranno luogo domenica alle ore 11».
La domenica, naturalmente, la chiesa di Santa Eufrosia era affollata come non mai. Non c’era più un solo posto libero, neanche in piedi. 

Davanti all’altare c’era il catafalco con una bara di legno scuro.
Il parroco pronunciò un semplice discorso: «Non credo che la nostra parrocchia possa rianimarsi e risorgere, ma dal momento che siamo quasi tutti qui voglio fare un estremo tentativo. Vorrei che passaste tutti quanti davanti alla bara, a dare un’ultima occhiata alla defunta. Sfilerete in fila indiana, uno alla volta e dopo aver guardato il cadavere uscirete dalla porta della sacrestia. Dopo, chi vorrà potrà rientrare dal portone per la Messa».
Il parroco aprì la cassa. Tutti si chiedevano: «Chi ci sarà mai dentro? Chi è veramente il morto?».
Cominciarono a sfilare lentamente. Ognuno si affacciava alla bara e guardava dentro, poi usciva dalla chiesa.  Uscivano silenziosi, un po’ confusi.

Perché tutti coloro che volevano vedere il cadavere della parrocchia di Santa Eufrosia e guardavano nella bara, vedevano, in uno specchio appoggiato sul fondo della cassa, il proprio volto.
«Anche voi, come pietre vive, formate il tempio dello Spirito Santo, siete sacerdoti consacrati a Dio e offrite sacrifici spirituali che Dio accoglie volentieri, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pietro 2,5).

Se c’è polvere nelle sale della tua parrocchia, c’è polvere sulla tua anima.

- don Bruno Ferrero - 




"...Dovremmo avere invece paura di non avere più il coraggio di cercare qualcosa per paura di soffrire, per paura di questa angoscia che a volte ti toglie l'aria. 
Il vangelo appunta tutto quello che molto spesso accade a noi. 
Esso non è un libro di ideali e di proclami, ma una strada tracciata da vite concrete, da storie concrete, che partono da quel poco che siamo e conducono dritti alla meta, al Senso ultimo della storia.  
E allo stesso tempo non dobbiamo avere paura di non capire tutto subito, di non comprendere fino in fondo il significato di ciò che viviamo. 
La nostra perseveranza e fedeltà alla realtà e non semplicemente a quello che vorremmo fosse la nostra realtà, ci salva. 
Stare davanti alle cose che oggettivamente esistono nella nostra vita (quel tale padre, quella tale madre, quell'amico, quel corpo che abbiamo, quelle attitudini, quella malattia, quell'amore, quei limiti, quella gioia) ci portano a quella salvezza che è un fatto vero e non una proiezione dei nostri sogni. Molto spesso ci rifugiamo nei nostri sogni per non affrontare la realtà, ecco perchè il cristianesimo non è un sogno ma  una realtà che và vissuta ad occhi aperti. Per credere bisogna essere svegli e con gli occhi aperti, altrimenti si rischia di confondere la fede con una suggestione soporifera creata appunto per evitare la vita e non per salvarla. Meravigliose, a questo proposito, le parole del Papa... "

- don Luigi Maria Epicoco
da "Tracce di Parola di Dio" 2.7.2011



 "La differenza tra uno che sogna e uno che sta sveglio consiste innanzitutto nel fatto che colui che sogna si trova in un mondo particolare. 
Con il suo io egli è rinchiuso in questo mondo del sogno che, appunto, è soltanto suo e non lo collega con gli altri. 
Svegliarsi significa uscire da tale mondo particolare dell’io ed entrare nella realtà comune, nella verità che, sola, ci unisce tutti. 
Il conflitto nel mondo, l’inconciliabilità reciproca, derivano dal fatto che siamo rinchiusi nei nostri propri interessi e nelle opinioni personali, nel nostro proprio minuscolo mondo privato. 
L’egoismo, quello del gruppo come quello del singolo, ci tiene prigionieri dei nostri interessi e desideri, che contrastano con la verità e ci dividono gli uni dagli altri. Svegliatevi, ci dice il Vangelo. 
Venite fuori per entrare nella grande verità comune, nella comunione dell’unico Dio. 
Svegliarsi significa così sviluppare la sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui Egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza. 
Ci sono persone che dicono di essere “religiosamente prive di orecchio musicale”. 
La capacità percettiva per Dio sembra quasi una dote che ad alcuni è rifiutata. E in effetti – la nostra maniera di pensare ed agire, la mentalità del mondo odierno, la gamma delle nostre varie esperienze sono adatte a ridurre la sensibilità per Dio, a renderci “privi di orecchio musicale” per Lui. 
E tuttavia in ogni anima è presente, in modo nascosto o aperto, l’attesa di Dio, la capacità di incontrarlo. 
Per ottenere questa vigilanza, questo svegliarsi all’essenziale, vogliamo pregare, per noi stessi e per gli altri, per quelli che sembrano essere “privi di questo orecchio musicale” e nei quali, tuttavia, è vivo il desiderio che Dio si manifesti." 

- papa Benedetto XVI - 
Omelia, Basilica Vaticana, 24 dicembre 2009


Buona giornata a tutti. :-)