Visualizzazione post con etichetta santità. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta santità. Mostra tutti i post

martedì 23 gennaio 2018

Incontro con il lebbroso – Tommaso da Celano

17. "Poi, come vero amante della umiltà perfetta, il Santo si reca tra i lebbrosi e vive con essi, per servirli in ogni necessità per amor di Dio. Lava i loro corpi in decomposizione e ne cura le piaghe virulente, come egli stesso dice nel suo Testamento: 'Quando era ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore mi condusse tra loro e con essi usai misericordia'. La vista dei lebbrosi infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell'Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria.
Quand'era ancora nel mondo e viveva vita mondana, egli si occupava dei poveri, li soccorreva generosamente nella loro indigenza e aveva affetto di compassione per tutti gli afflitti. Una volta, che aveva respinto malamente, contro la sua abitudine, poiché era molto cortese, un povero che gli aveva chiesto l'elemosina, pentitosi subito, ritenne vergognosa villania non esaudire le preghiere fatte in nome di un Re così grande. Prese allora la risoluzione di non negar mai ad alcuno, per quanto era in suo potere, qualunque cosa gli fosse domandata in nome di Dio. E fu fedele a questo proposito, fino a donare tutto se stesso, mettendo in pratica anche prima di predicarlo il consiglio evangelico: Dà a chi ti domanda qualcosa e non voltar le spalle a chi ti chiede un prestito (Mt 5,42)."

- Tommaso da Celano -
Fonte: Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d'Assisi, nn. 348-349




„Il mondo circostante era, come si è già notato, un groviglio di dipendenze familiari, feudali, e altre. L'idea complessa di San Francesco era che i Piccoli Frati dovessero essere come pesciolini, liberi di muoversi a proprio piacimento in quella rete. E potevano farlo proprio per il loro essere piccoli e perciò guizzanti. [... ] 
Calcolando, per così dire, su questa astuzia innocente, il mondo era destinato ad essere circuito e conquistato da lui, e impacciato nel reagire alla sua azione. 
Non si poteva di certo lasciar morire di fame un uomo continuamente votato al digiuno, né lo si sarebbe potuto distruggere e ridurre alla miseria, poiché era già un mendicante. 
Vi sarebbe stata una soddisfazione ben scarna anche nel percuoterlo con un bastone, poiché egli si sarebbe lasciato andare a salti e canti di gioia, essendo l'umiliazione la sua unica dignità. 
E nemmeno lo si sarebbe potuto impiccare, perché il cappio sarebbe divenuto la sua aureola".


- Gilbert Keith Chesterton - 
da: " Francesco", VII



4 ottobre, ed il serafico padre migra da questa vita a Dio.

Si fa deporre "nudo a terra" e "sembrava l'immagine del crocifisso".
Passa con facilità da questo mondo al Padre, com'è invece difficile attraversare "sorella nostra morte corporale" se non si è trovati nudi delle cose di questo mondo. "Guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali" ed invece felici "quilli ke trovarà ne li toi santissime volontade ke lla morte seconda no li farà male".
A lui non ha fatto male, anzi.




Buona giornata a tutti. :-)




giovedì 7 dicembre 2017

Papa Benedetto XVI racconta sant'Ambrogio - 7 dicembre 2017 -

Cari fratelli e sorelle,
il santo Vescovo Ambrogio – del quale vi parlerò quest’oggi – morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l’alba del Sabato santo. Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne Triduo pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. «Noi vedevamo muoversi le sue labbra», attesta Paolino, il diacono fedele che su invito di Agostino ne scrisse la Vita, «ma non udivamo la sua voce». A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, Vescovo di Vercelli, che si trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato da una voce che gli ripeteva: «Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...». Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – «e porse al Santo il Corpo del Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia degli angeli» (Vita 47). In quel Venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente esprimevano la sua mistica partecipazione alla morte e alla risurrezione del Signore. Era questa la sua ultima catechesi: nel silenzio delle parole, egli parlava ancora con la testimonianza della vita.

Ambrogio non era vecchio quando morì. Non aveva neppure sessant’anni, essendo nato intorno al 340 a Treviri, dove il padre era prefetto delle Gallie. La famiglia era cristiana. Alla morte del padre, la mamma lo condusse a Roma quando era ancora ragazzo, e lo preparò alla carriera civile, assicurandogli una solida istruzione retorica e giuridica. Verso il 370 fu inviato a governare le province dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Proprio lì ferveva la lotta tra ortodossi e ariani, soprattutto dopo la morte del Vescovo ariano Aussenzio. Ambrogio intervenne a pacificare gli animi delle due fazioni avverse, e la sua autorità fu tale che egli, pur semplice catecumeno, venne acclamato dal popolo Vescovo di Milano.

Fino a quel momento Ambrogio era il più alto magistrato dell’Impero nell’Italia settentrionale. Culturalmente molto preparato, ma altrettanto sfornito nell’approccio alle Scritture, il nuovo Vescovo si mise a studiarle alacremente. Imparò a conoscere e a commentare la Bibbia dalle opere di Origene, il maestro indiscusso della «scuola alessandrina». In questo modo Ambrogio trasferì nell’ambiente latino la meditazione delle Scritture avviata da Origene, iniziando in Occidente la pratica della lectio divina. Il metodo della lectio giunse a guidare tutta la predicazione e gli scritti di Ambrogio, che scaturiscono precisamente dall’ascolto orante della Parola di Dio. Un celebre esordio di una catechesi ambrosiana mostra egregiamente come il santo Vescovo applicava l’Antico Testamento alla vita cristiana: «Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi, abbiamo trattato ogni giorno di morale – dice il Vescovo di Milano ai suoi catecumeni e ai neofiti – affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a seguire il cammino dell’obbedienza ai precetti divini» (I misteri 1,1). In altre parole, i neofiti e i catecumeni, a giudizio del Vescovo, dopo aver imparato l’arte del vivere bene, potevano ormai considerarsi preparati ai grandi misteri di Cristo. Così la predicazione di Ambrogio – che rappresenta il nucleo portante della sua ingente opera letteraria – parte dalla lettura dei Libri sacri («i Patriarchi», cioè i Libri storici, e «i Proverbi», vale a dire i Libri sapienziali), per vivere in conformità alla divina Rivelazione.

E’ evidente che la testimonianza personale del predicatore e il livello di esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione. Da questo punto di vista è significativo un passaggio delle Confessioni di sant’Agostino. Egli era venuto a Milano come professore di retorica; era scettico, non cristiano. Stava cercando, ma non era in grado di trovare realmente la verità cristiana. A muovere il cuore del giovane retore africano in ricerca e a spingerlo alla conversione definitivamente, non furono anzitutto le belle omelie (pure da lui assai apprezzate) di Ambrogio. Fu piuttosto la testimonianza del Vescovo e della sua Chiesa milanese, che pregava e cantava, compatta come un solo corpo: una Chiesa capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un edificio di culto per le cerimonie degli ariani. Nell’edificio che doveva essere requisito – racconta Agostino –«il popolo devoto vegliava, pronto a morire con il proprio Vescovo». Questa testimonianza delle Confessioni è preziosa, perché segnala  che qualche cosa andava muovendosi nell’intimo di Agostino, il quale prosegue: «Anche noi, pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi dell’eccitazione di tutto il popolo» (Confessioni 9,7).

Dalla vita e dall’esempio del Vescovo Ambrogio, Agostino imparò a credere e a predicare. Possiamo riferirci a un celebre sermone dell’Africano, che meritò di essere citato parecchi secoli dopo nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «E’ necessario – ammonisce infatti la Dei Verbum al n. 25 – che tutti i chierici e quanti, come i catechisti, attendono al ministero della Parola, conservino un continuo contatto con le Scritture, mediante una sacra lettura assidua e lo studio accurato, “affinché non diventi – ed è qui la citazione agostiniana – vano predicatore della Parola all’esterno colui che non l’ascolta di dentro”». Aveva imparato proprio da Ambrogio questo «ascoltare di dentro», questa assiduità nella lettura della Sacra Scrittura in atteggiamento orante, così da accogliere realmente nel proprio cuore ed assimilare la Parola di Dio.

Cari fratelli e sorelle, vorrei proporvi ancora una sorta di «icona patristica» che, interpretata alla luce di quello che abbiamo detto, rappresenta efficacemente «il cuore» della dottrina ambrosiana. Nel sesto libro delle Confessioni Agostino racconta del suo incontro con Ambrogio, un incontro certamente di grande importanza nella storia della Chiesa. Egli scrive testualmente che, quando si recava dal Vescovo di Milano, lo trovava regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità egli si prodigava. C’era sempre una lunga fila che aspettava di parlare con Ambrogio per trovare da lui consolazione e speranza. Quando Ambrogio non era con loro, con la gente (e questo accadeva per lo spazio di pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il cibo necessario, o alimentava lo spirito con le letture. Qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le Scritture a bocca chiusa, solo con gli occhi (cfr Confessioni 6,3). Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava la comprensione pure a chi leggeva. Che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità singolare di lettura e di familiarità con le Scritture. Ebbene, in quella «lettura a fior di labbra», dove il cuore si impegna a raggiungere l’intelligenza della Parola di Dio – ecco «l’icona» di cui andiamo parlando –, si può intravedere il metodo della catechesi ambrosiana: è la Scrittura stessa, intimamente assimilata, a suggerire i contenuti da annunciare per condurre alla conversione dei cuori.

Così, stando al magistero di Ambrogio e di Agostino, la catechesi è inseparabile dalla testimonianza di vita. Può servire anche per il catechista ciò che ho scritto nella Introduzione al cristianesimo, a proposito del teologo. Chi educa alla fede non può rischiare di apparire una specie di clown, che recita una parte «per mestiere». Piuttosto – per usare un’immagine cara a Origene, scrittore particolarmente apprezzato da Ambrogio – egli deve essere come il discepolo amato, che ha poggiato il capo sul cuore del Maestro, e lì ha appreso il modo di pensare, di parlare, di agire. Alla fine di tutto, il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace.

Come l’apostolo Giovanni, il Vescovo Ambrogio – che mai si stancava di ripetere: «Omnia Christus est nobis! – Cristo è tutto per noi!» – rimane un autentico testimone del Signore. Con le sue stesse parole, piene d’amore per Gesù, concludiamo così la nostra catechesi: «Omnia Christus est nobis! Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico; se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte; se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia; se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza; se temi la morte, Egli è la vita; se desideri il cielo, Egli è la via; se sei nelle tenebre, Egli è la luce ... Gustate e vedete come è buono il Signore: beato è l’uomo che spera in Lui!» (La verginità 16,99). Speriamo anche noi in Cristo. Saremo così beati e vivremo nella pace.

Papa Benedetto XVI presenta Sant'Ambrogio
Udienza generale a Piazza San Pietro
Mercoledì, 24 ottobre 2007



Di nobile famiglia romana, nacque a Treviri nelle Gallie ove suo padre era prefetto e a pochi mesi di vita uno sciame di api portò alla sua bocca del miele. Ancora giovane, per la sua grande prudenza ed imparzialità, fu mandato governatore a Milano. 

Essendo in quel tempo rimasta vacante quella sede episcopale, vi erano grandi discordie tra cattolici ed ariani per l'elezione del nuovo Vescovo. Ciascuno lo voleva secondo la propria fede, e fu necessario l'intervento del governatore Ambrogio per pacificare gli animi. Ma appena Ambrogio comparve in mezzo alla folla, un bambino si diede a gridare: Ambrogio vescovo, Ambrogio vescovo, e subito dopo di lui, cattolici ed ariani unanimemente vollero l'elezione di Ambrogio. 
Essendo egli solamente catecumeno, dovette prima ricevere il battesimo, poi il sacerdozio e finalmente malgrado la sua umile riluttanza, la consacrazione episcopale. 
Eletto dunque vescovo, con cuore di padre governò le anime a lui affidate. 
Amorevole con tutti, si mostrava nello stesso tempo severo ed intransigente verso i nemici ostinati della Chiesa. 
Con la sua straordinaria perspicacia nella scelta dei pastori di anime, diede il colpo di grazia alla setta degli ariani. Questi eretici, riconoscendo Gesù Cristo solo come uomo, negavano recisamente la sua divinità. 
Ma se potenti erano gli eretici, più potenti furono i difensori suscitati da Dio per la integrità della fede. 
Frutti insperati raccoglieva il Santo coi suoi sermoni : va ricordata in modo speciale la conversione di S. Agostino. 
Stando una volta l'imperatore Teodosio nel presbiterio della chiesa, posto riservato unicamente ai sacerdoti, coraggiosamente mandò ad avvertirlo, ma con tale carità, che Teodosio ringraziò il santo vescovo di tale avvertimento. 
Allorché lo stesso imperatore osò entrare in chiesa dopo la strage di Tessalonica, Ambrogio glielo impedì, e quando l'imperatore per scusarsi addusse l'esempio del re Davide, il santo Vescovo coraggiosamente rispose : Se avete imitato Davide nel peccato, imitatelo anche nella penitenza. 
Finalmente, dopo molte lotte e sacrifici, andò a ricevere la corona delle sue fatiche in cielo, il 4 aprile dell'anno 397.




Sant’Ambrogio ripreso dal commento ai salmi: 
“Di buon mattino affréttati alla chiesa e porta in omaggio le primizie della tua devozione. Dopo, se l’impegno del mondo ti chiama, potrai tranquillamente dire: ‘I miei occhi hanno preceduto l’aurora per meditare sulle tue parole’, e andrai sicuro alle tue occupazioni. Come è bello cominciare dagli inni e dai canti, dalle beatitudini che leggi nel vangelo ! Com’è di buon auspicio che sia la parola di Cristo a benedirti e che tu, mentre ripeti cantando le benedizione del Signore, ti prenda l’impegno di realizzare qualche virtù…”.





Preghiere a Sant'Ambrogio

O glorioso Arcivescovo Sant'Ambrogio, che fuggiste sempre gli onori e le dignità, e solo le accettaste per non contraddire alle divine aspirazioni, che vi volevano modello di ogni virtù a tutti; ottenetemi, vi prego, di fuggire le mondane distinzioni, e di gloriarmi solo nel compiere esattamente la volontà del Signore. Pater, etc.
O glorioso Arcivescovo Sant'Ambrogio, che impiegaste tutta la vostra vita nel difendere la verità della fede, contro gli assalti dell'eresia e dell'empietà; ottenetemi, vi prego, la grazia di professar costantemente e difendere con intrepidezza fino alla morte quella santa religione di cui per divina misericordia ebbi la sorte avventurata di nascere. Pater, etc.
O glorioso Arcivescovo Sant'Ambrogio, che non temeste di predicare la verità anche in faccia ai potenti, e trionfaste dei cuori più ritrosi colla vostra eloquenza celeste: ottenetemi, Vi prego, la grazia che io non mi lasci mai dominare dagli umani rispetti; e che con la dolcezza del mio parlare e con la mansuetudine del mio tratto edifichi il mio prossimo nel mentre che attendo alla mia perfezione. Pater, etc.



Buona giornata a tutti. :-)


iscriviti alla mia pagina YouTube




martedì 5 dicembre 2017

Dalla «Lettera» di Alice Alington a Margaret Roper (figlia di Tommaso Moro), sul colloquio avuto in carcere con il padre

Mia cara Margherita, io so che la mia cattiveria, meriterei di essere abbandonato da Dio, tuttavia non posso che confidare nella sua misericordiosa bontà, poiché la sua grazia mi ha fortificato sino ad ora e ha dato tanta serenità e gioia al mio cuore, da rendermi del tutto disposto a perdere i beni, la patria e persino la vita, piuttosto che giurare contro la mia coscienza. 
Egli ha reso il re favorevole verso di me, tanto che finora si è limitato a togliermi solo la libertà. Dirò di più. 
La grazia di Dio mi ha fatto cosi gran bene e dato tale forza spirituale, da farmi considerare la carcerazione come principale dei benefici elargitimi. 
Non posso, perciò dubitare della grazia di Dio. Se egli lo vorrà, potrà mantenere benevolo il re nei miei riguardi, al fine che non mi faccia alcun male. Ma se decide ch'io soffra per i miei peccati, la sua grazia mi darà certo la forza di accettare tutto pazientemente, e forse anche gioiosamente. 
La sua infinita bontà, per i meriti della sua amarissima passione, farà sì che le mie sofferenze servano a liberarmi dalle pene del purgatorio e anzi a ottenermi la ricompensa desiderata in cielo.

Dubitare di lui, mia piccola Margherita, io non posso e non voglio, sebbene mi senta tanto debole. E quand'anche io dovessi sentire paura al punto da esser sopraffatto, allora mi ricorderei di san Pietro, che per la sua poca fede cominciò ad affondare nel lago al primo colpo di vento, e farei come fece lui, invocherei cioè Cristo e lo pregherei di aiutarmi. 

Senza dubbio allora egli mi porgerebbe la sua santa mano per impedirmi di annegare nel mare tempestoso. Se poi egli dovesse permettere che imiti ancora in peggio san Pietro, nel cedere, giurare e spergiurare (me ne scampi e liberi nostro Signore per la sua amorosissima passione, e piuttosto mi faccia perdere, che vincere a prezzo di tanta bassezza), anche in questo caso non cesserei di confidare nella sua bontà, sicuro che egli porrebbe su di me il suo pietosissimo occhio, come fece con san Pietro, e mi aiuterebbe a rialzarmi e confessare nuovamente la verità, che sento nella mia coscienza. 
Mi farebbe sentire qui in terra la vergogna e il dolore per il mio peccato.

A ogni modo, mia Margherita, io so bene che senza mia colpa egli non permetterà mai che io perisca. 

Per questo mi rimetto interamente in lui pieno della più forte fiducia. Ma facendo anche l'ipotesi della mia perdizione per i miei peccati, anche allora io servirei a lode della giustizia divina.

Ho però ferma fiducia, Margherita, e nutro certa speranza che la tenerissima pietà di Dio salverà la mia povera anima e mi concederà di lodare la sua misericordia. Perciò, mia buona figlia, non turbare mai il tuo cuore per alcunché mi possa accadere in questo mondo. 

Nulla accade che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio.

Da: «Lettere», Alberto Castelli - a cura di Francesco Rognoni, Ed. Vita e Pensiero. 






Mi sembra significativo che Newman, nella gerarchia delle virtù sottolinei il primato della verità sulla bontà o, per esprimerci più chiaramente: egli mette in risalto il primato della verità sul consenso, sulla capacità di accomodazione di gruppo.
Direi quindi: quando parliamo di un uomo di coscienza, intendiamo qualcuno dotato di tali disposizioni interiori. 
Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte dell’opinione dominante. 
In questo Newman si ricollega all’altro grande testimone britannico della coscienza: Tommaso Moro, per il quale la coscienza non fu in alcun modo espressione di una sua testardaggine soggettiva o di eroismo caparbio.
Egli stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni e molte domande hanno costretto se stessi ad obbedire alla coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale. 
Si evidenziano così due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri e coi propri gusti; essa non si identifica con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le esigenze del potere politico o sociale.


- card. Joseph Ratzinger -
da: "La Chiesa una comunità sempre in cammino", pp.123


Buona giornata a tutti. :-)








sabato 11 novembre 2017

San Martino 11 novembre 2017

Eravamo in cammino con lui, mentre visitava le parrocchie. 
Per la strada sopraggiungeva una carrozza del fisco carica di soldati. Ma appena le mule videro Martino ricoperto di un’ispida veste e di un mantello nero, spaventate si spostarono un po’ dall’altra parte. 
Quindi ingarbugliarono le funi in cui stavano imbrigliate. Adirati per questo torto, i soldati saltarono a terra e cominciarono a picchiare Martino con flagelli e bastoni, mentre quello, senza far parola e con incredibile sopportazione, presentava il dorso a quelli che lo battevano e faceva così montare il furore in quei miserabili, che ancor più si adiravano per il fatto che lui, quasi non le sentisse, disprezzava le percosse ricevute. 
Dopo aver così sfogato la loro rabbia, comandarono alle mule di riprendere il viaggio. Tutte queste però si bloccarono e rimasero inchiodate a terra come statue di bronzo e, per quanto i guidatori alzassero la voce, per quanto risuonassero le sferze, non si muovevano per nulla. 
Quei miseri uomini non sapevano più che cosa fare, e non potevano più fare a meno di riconoscere che erano trattenuti da una potenza divina, per quanto lo riconoscessero nelle loro coscienze abbrutite. 
Cominciarono a chiedersi chi fosse quel tale che poco prima avevano malmenato in quel luogo quando, indagando un po’, vengono a sapere dai viandanti di aver percosso tanto crudelmente proprio Martino. E allora divenne per tutti lampante la situazione e non potevano più ignorare di essere bloccati per l’ingiuria arrecata a quell’uomo. 
Pertanto ci vengono dietro di corsa, consci dell’errore e della colpa, piangendo con il capo e il volto cosparsi di polvere, si gettano ai piedi di Martino, invocando il suo perdono e supplicandolo che li lasciasse ripartire. 
Il santo concesse loro con clemenza il perdono e permise agli stessi di partire, dopo che gli animali tornarono a muoversi. 

(Sulpicio Severo, Vita di san Martino)


Dalla cappa di San Martino ai cappellani, il passo è breve.   
Che fine ha fatto la cappa di San Martino?

Mantello, in latino, si dice cappa. Ma trattandosi del mantello corto dei militari si parlava, al diminutivo, di cappella (cappa corta).
Questa cappella venne conservata come insigne reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi.
I Franchi la portavano come stendardo in guerra, davanti alle truppe, fidando nella protezione del santo patrono.
Da Carlomagno la cappa di san Martino venne inviata all'oratorio palatino di Aquisgrana, che da allora si chiamerà, in francese Aix-la-chapelle (Aachen, in tedesco). Infatti, il termine latino, dal significare la reliquia del mantello di san Martino, passò per estensione ad indicare l'oratorio che la conteneva; le persone incaricate di conservare tale insigne reliquia vennero chiamate: "cappellani"!
E fu così la chiesetta del palazzo reale di Carlomagno divenne una "cappella" in senso moderno.

Il nome, in seguito, identificherà per ulteriore estensione tutte le chiesette e saranno chiamati cappellani tutti i sacerdoti ad esse preposti, anche se non avevano più nulla a che fare con il prodigioso indumento del santo vescovo di Tours.
Dalla cappa di Martino prende nome, perfino, la dinastia reale francese dei "Capetingi".
Una vera e propria devota fissazione!
Pezzetti del mantello di san Martino erano nel medioevo reliquie ambitissime (e parecchio diffuse), vere e proprie narrazioni reificate dell'esempio di carità del primo santo non martire dell'Occidente cristiano.




Una lettura teologica e sociale del gesto di amore disinteressato di san Martino, l'ha data papa Benedetto XVI nel messaggio dell'Angelus dell'11 novembre 2007, dove, tra l'altro, diceva:

“Cari fratelli e sorelle, il gesto caritatevole di san Martino si iscrive nella stessa logica che spinse Gesù a moltiplicare i pani per le folle affamate, ma soprattutto a lasciare se stesso in cibo all’umanità nell’Eucaristia, Segno supremo dell’amore di Dio, Sacramentum caritatis. E’ la logica della condivisione, con cui si esprime in modo autentico l’amore per il prossimo. Ci aiuti san Martino a comprendere che soltanto attraverso un comune impegno di condivisione, è possibile rispondere alla grande sfida del nostro tempo: quella cioè di costruire un mondo di pace e di giustizia, in cui ogni uomo possa vivere con dignità. Questo può avvenire se prevale un modello mondiale di autentica solidarietà, in grado di assicurare a tutti gli abitanti del pianeta il cibo, l’acqua, le cure mediche necessarie, ma anche il lavoro e le risorse energetiche, come pure i beni culturali, il sapere scientifico e tecnologico.”
Testo preso da: Cantuale Antonianum


Buona giornata a tutti. :-)





martedì 31 ottobre 2017

da: "Vita di san Giuseppe Cottolengo" - Pietro Gastaldi

Appena il Cottolengo vedeva un fabbricato che poteva essere utile ai suoi poverelli, aspettava il giorno in cui il Signore gli dicesse: Mettiti all’opera, che quel fabbricato è tuo.

Già da qualche tempo aveva messo l’occhio sopra l’osteria del Brentatore. 
Ora nel 1835, ormai cessato a Torino il morbo del colera, rimaneva nel lazzaretto di San Luigi una donna convalescente che ne era stata infetta. Invitato il Cottolengo dell’amministrazione dell’ospedale di San Luigi a ricoverare nella Piccola Casa questa inferma, perché abbandonata, la ritirò senza la precauzione della disinfezione, la quale fino ad allora era stata scrupolosamente osservata.
Due giorni dopo quell’accettazione, il dottore Lorenzo Granetti, alle ore otto di sera, ebbe a constatare alcuni casi di colera nell’infermeria dove era stata ricoverata la donna; anche due Vincenzine, scelte a servire i colerosi della città, avevano propagato il morbo in un’altra infermeria.
Il Granetti, per la cui oculatezza e vigilanza la pia Opera era stata fino ad allora immune da quella peste, veduti quei colerosi, perse ogni pazienza; e corso difilato dal servo di Dio, lo trovò seduto sopra una vecchia poltrona che dormiva. 
«Bel guadagno che facciamo! Tante cautele e tante cure, per avere poi il colera in casa! Perché non mi ha detto nulla di quella donna? Perché non fu sottoposta a disinfezione? Ora il morbo l’abbiamo in casa; ed in questa notte stessa io temo che molti dei nostri infermi ne saranno intaccati. 
Non abbiamo stanze libere, non un lazzaretto per separarli, non un locale di osservazione e di quarantena, e che faremo noi con questo fardello sul dorso?» Ma quanto il Granetti si riscaldava, altrettanto era calmo il Cottolengo, il quale, come si trattasse della cosa più indifferente di questo mondo, rispose al medico: «Oh ciocot! Per questo lei s’inquieta tanto? Si vede proprio che non ha fede; adesso vada a consolare ed assistere i suoi malati, e lasci fare alla Divina Provvidenza, la quale provvederà».
Uscito il medico brontolando, perché non credeva possibile in poco tempo trovare un ospedale conveniente ai colerosi, il Santo in poche ore ne formò uno bellissimo che fece stupire tutti. 
Così come si trovava, se ne andò all’Osteria del Brentatore, persuaso fosse questo il momento fissato dalla Divina Provvidenza per consegnargliela; perciò, tratto in disparte il padrone dell’osteria, il quale si chiamava Giovanni Rivara, scherzando secondo il suo solito, disse: «Vorresti riempire una fiaschetta, che berremo insieme? - «Ma sì, disse l’oste, per avere in casa mia il padre Cottolengo anche due fiaschetti, ed anche tre». 
- «Che buone novelle, mi dai; come va questo tuo spaccio di vino», chiese il canonico.
- Peggio che mai, - rispose l’oste; sembra che la voglia di bere sia scomparsa dal mondo, come vorrei che scomparisse il colera: e sì che il vino mio è magnifico; e se la cosa continua così sarò costretto a bermelo tutto da solo. 
- Ma senti, gli disse il Cottolengo, poiché non hai troppo il vento alla vela, se tu vendessi la casa a qualcuno, non sarebbe per te un bene? 
- Altro che un bene, rispose l’oste, sarebbe quello che desidero; ma il difficile sta nel trovare questo benedetto qualcuno; tanto più che vorrei vendere ogni attrezzo e sedie, e tavole, e panche, e botti, e damigiane, e persino le bottiglie. 
- Anche le bottiglie? soggiunse il sant’uomo; evviva noi, tanto meglio, che prenderemo qualche sbornia di più; ma dimmi, vuoi vendere anche la tua famiglia? 
- Oh la famiglia non ancora, riprese il Rivara. 
- Bene, disse il servo di Dio, compro ogni cosa come tu dici, ma voglio che tu ceda la casa in questo momento stesso. 
Il venditore non se lo fece dire due volte; ritiratosi con la famiglia in alcune stanze superiori, lasciò sul momento libero un piano e mezzo dell’Osteria. Verso la mezzanotte il Cottolengo venne a dire al Granetti che se voleva trasportare i suoi colerosi, aveva fatto preparare una casa a seicento metri dall’istituto. Il medico stupito, non capacitandosi di come avesse fatto nello spazio di tre sole ore a trovare un lazzaretto, diede ordine per il trasporto degli infermi, e si avviò alla casa indicata. 
Là trovò parecchie stanze col fuoco acceso, in ogni stanza un letto, e ad ogni letto una suora per l’assistenza del malato. A mezzanotte tutto era finito e tranquillo.
Trasportati gli infermi, l’epidemia cessò. Questa è quella che il servo di Dio chiamò: Casa della Speranza. 

- Pietro Gastaldi - 
da: "Vita di san Giuseppe Cottolengo"




Correva in quei tempi una voce molto accreditata nella Piccola Casa; ed era che la vincenzina suor Francesca, anima semplicissima e tutta di Dio, nel partirsi ogni sera dal suo impiego per andare a riposare, passando vicino alla cappella in cui si conservava il Santissimo Sacramento, infallibilmente vi entrava per fare ossequio al suo Signore; ma dopo una breve preghiera, prendendo congedo, con tutta la tenerezza del cuore lo salutava con queste semplici parole: «Dunque, buona sera, Gesù.» 
Ed a Gesù piaceva questo saluto; tanto che una volta in cui la suora l’aveva salutato a quel modo, dal santo suo tabernacolo si compiacque di risponderle a viva e chiara voce: «Ed anche a te buona notte, figlia mia». 


- Pietro Gastaldi - 
da: "Vita di san Giuseppe Cottolengo"




Se gli altri filano lungo, voi tagliate corto 

- San Giuseppe Cottolengo -



Buona giornata a tutti. :-)




domenica 15 ottobre 2017

da: "Libro della vita" - Santa Teresa d'Avila (15 ottobre)


Alcune esclamazioni tratte dal suo“Libro della vita”:

Dal Capitolo 6
Teresa è debitrice al Signore per averle dato di accettare la le sue grandi sofferenze.


Che è ciò, Signor mio? Dobbiamo vivere una vita così piena di pericoli? 
Mentre scrivo questo, mi sembra che con il vostro aiuto e per vostra misericordia potrei dire, anche se non con la stessa perfezione, ciò che ha detto san Paolo: Non sono più io che vivo, ma voi, mio Creatore, che vivete in me. 
Da alcuni anni, voi mi reggete con la vostra mano.
Mi guidate nei desideri e propositi, che mi avete fatto attuare e dar prova in molte circostanze in questi anni tanto da concedermi di non far nulla contro la vostra volontà, neppure la minima cosa. 
Certo, credo di arrecare ugualmente molte offese a Vostra Maestà senza rendermene conto. 
Credo anche, però, di essere risolutamente decisa a non trascurare nulla di quanto mi si presenti di fare per amor vostro, e in alcune circostanze voi mi avete apertamente aiutato a riuscirvi. 
Non amo il mondo né cosa alcuna che gli appartenga, né credo che mi allieti nulla che non venga da voi e il resto mi appare, anzi, come una pesante croce. 
È vero che mi posso ingannare, e forse non ho i sentimenti che ho detto; ma voi certo vedete, mio Signore, che a me non sembra di mentire e temo che non abbiate di nuovo ad abbandonarmi, perché ormai so fin dove arrivino la mia debole forza e la mia scarsa virtù se voi non continuate sempre a darmela aiutandomi a non lasciarvi. 
Piaccia a Vostra Maestà di non abbandonarmi neanche adesso in cui mi sembra rispondere al vero quanto ho detto di me. 
Non so come si desideri vivere, essendo tutto così incerto. 
Mi pareva ormai impossibile abbandonarvi interamente, mio Signore; ma, poiché tante volte vi ho abbandonato, non posso cessar di temere, ben sapendo che non appena vi allontanavate un poco da me, stramazzavo a terra. 
Siate benedetto per sempre, anche se io vi abbandonavo, voi non mi lasciaste mai così totalmente che io non tornassi a rialzarmi, con l’aiuto della vostra mano. 
E spesso, Signore, io non la volevo, né volevo capire che molte volte voi mi chiamavate di nuovo.




Dal Capitolo 8
Teresa, chiede al Signore la grazia di non lasciare l'orazione pur sentendosene indegna.

Oh, bontà infinita del mio Dio, mi sembra di vedere chi siete voi e vedo anche quanto misera cosa sia io! 
Oh, delizia degli angeli, vedendo questa enorme differenza, vorrei consumarmi tutta d’amore per voi. 
Com’è vero: voi sopportate chi ha difficoltà di stare con voi. 
Oh, con quanta pazienza, vi comportate da buon amico, Signor mio e come cominciate subito a favorirlo aspettando che si conformi alla vostra condizione!
Voi tenete conto, mio Signore, di tutti i momenti che dedica ad amarvi, e per un attimo di pentimento dimenticate quanto vi abbia offeso! 
So questo chiaramente per esperienza personale, e non capisco, o mio Creatore, perché tutti non cerchino di giungere a voi per mezzo di questa particolare amicizia. 
I cattivi, che non sono della vostra condizione, dovrebbero avvicinarvi per diventare buoni, acconsentendo che stiate con loro, benché essi stiano con voi turbati da mille sollecitudini e pensieri mondani, come facevo io. 
Per la violenza che essi devono farsi a voler rimanere in così incomparabile compagnia, voi costringete, Signore, i demoni a non assalirli. Anzi fate loro diminuire di giorno in giorno le forze contro di essi, a cui, invece, le date perché vincano. 
No, vita di tutte le vite, voi non uccidete nessuno di quelli che confidano in voi e vi vogliono per amico, anzi sostenete la vita del corpo con maggior salute, dandola all’anima.




Dal Capitolo 14
Teresa ringrazia il Signore per una sua straordinaria presenza, oltre a quella che contempla nell'Eucarestia.

Oh, mio Signore e mio bene! Io non posso dire questo senza lacrime e grande gioia della mia anima, se penso che voi vogliate, Signore, starvene così con noi, quando dobbiamo credere in modo certo, che già siete presente nel santissimo Sacramento! 
Se non è per colpa nostra, possiamo godere di voi come voi di noi, poiché avete detto che la vostra delizia è stare con i figli degli uomini. 
Oh, Signor mio! cosa è mai questo? Ogni volta che ascolto queste parole ne provo gran conforto. 
È possibile, Signore, che ci sia un’anima la quale, giunta a ricevere da voi simili grazie e doni, e a capire che voi godete di essa, torni ad offendervi, dopo tanti favori e così grandi prove del vostro amore? 
Sì, c’è sicuramente, e sono io. 
Piaccia alla vostra bontà, Signore, che sia io sola l’ingrata, quella che ha commesso così grande iniquità, che si è resa colpevole di così smisurata ingratitudine.
Anche da lei, però, la vostra infinita bontà ha già ricavato qualche bene: quanto maggiore è il male, tanto più risplende il bene delle vostre misericordie. E con quanta ragione io le posso cantare per sempre!
Vi supplico, mio Dio, di concedermi che ciò avvenga e che io possa cantarle in eterno, visto che vi siete compiaciuto di elargirmele così straordinariamente grandi da farmi spesso trasecolare. 
Mi effondo nelle vostre lodi. Poiché sola e senza di voi io non potrei far altro che strappare di nuovo i fiori del mio giardino, in modo che questa mia terra miserabile si ridurrebbe allo stato di un letamaio come prima.
Non permettetelo, Signore, né vogliate che si perda un’anima che a prezzo di tante sofferenze avete redento e che tante volte siete tornato a riscattare strappandola alle fauci dello spaventoso dragone.




Dal Capitolo 19
Teresa deplora lo stato di peccato dopo avere ricevuto tante grazie e esalta la misericordia del Signore.


Oh, Gesù mio! Che spettacolo vedere come a un’anima caduta in peccato, dopo aver tanto pregato, voi, per vostra misericordia, tornate a dar la mano sollevandola! 
Come si rende essa conto allora delle infinite vostre grandezze e misericordie e della propria miseria!
È questo il momento in cui, riconoscendo la vostra magnanimità, si sente davvero annientare; 
E' il momento in cui non osa alzare gli occhi o li alza solo per vedere ciò che vi deve; 
E' il momento in cui si fa devota della Regina del cielo perché vi plachi; 
E' il momento in cui invoca i santi che caddero dopo essere stati da voi chiamati, perché l’aiutino; 
E' il momento in cui le sembra troppo quel che le date, perché sa di non meritare neanche la terra che calpesta; 
E' il momento di accostarsi ai sacramenti, per la fede viva che la anima nel vedere la virtù che avete in essi riposta, 
E' il momento di profondere lodi perché avete lasciato per le nostre piaghe medicina e unguento tali che non le rimarginano solo superficialmente, ma le fanno sparire del tutto. 
Questo la riempie di stupore, e chi, Signore dell’anima mia, non ha da stupirsi di una misericordia così grande e di così accresciuto favore a compenso di un tradimento così ripugnante ed esecrabile? 
Sono perversa se, scrivendo queste cose, non mi si spezza il cuore.





Dal Capitolo 25
Esclamazioni di Teresa dopo aver sentito dal Signore: «Non aver paura, figlia mia, sono io e non ti abbandonerò, non temere».

Oh, mio Signore, quale vero amico voi siete, e quanto potente, poiché potete ciò che volete, e non smettete mai di amare chi vi ama! 
Vi lodino tutte le creature, Signore dell’universo! 
Oh, poter gridare al mondo intero quanto voi siete fedele ai vostri amici! 
Tutte le cose mancano, ma voi, Signore di tutte, non mancate mai! 
È poco ciò che lasciate patire a chi vi ama. Oh, mio Signore, con quanta delicata cura, con quanta dolcezza li sapete trattare! 
Oh, felice chi non ha mai esitato ad amare altri che voi! 
Sembra, o Signore, che voi mettiate rigorosamente alla prova chi vi ama, affinché nell’eccesso del patimento si intenda l’eccesso ancor più grande del vostro amore. 
Oh, Dio mio, potessi avere ingegno, dottrina, e disporre di parole nuove per esaltare le vostre opere come lo sente l’anima mia! Mi manca tutto, mio Signore, ma se voi non mi lasciate senza la vostra protezione, io non mancherò a voi. 
Si levino pure contro di me tutti i dotti, mi perseguitino tutte le creature, mi tormentino tutti i demoni, ma non mancatemi voi, Signore, perché ho già fatto esperienza del guadagno che si ricava dal confidare solo in voi.
Oh, Dio mio, come si rafforza la fede e cresce l’amore!
Dal CAPITOLO 35
Teresa ringrazia il Signore perché la sta conducendo per la strada dell'umiltà.
Oh, mio Signore, come è evidente la vostra potenza! 
Non c’è bisogno di cercare ragioni per indurci a fare quello che volete!
Al di sopra di ogni umana ragione, voi rendete ogni cosa possibile in modo così chiaro che fate ben vedere come non occorra altro, per trovare tutto facile, se non amarvi sinceramente e abbandonare davvero tutto per voi. 
Cade qui a proposito dire che fingete di renderci gravosa la legge.
Io non la vedo tale, Signore, né vedo come sia stretto il sentiero che conduce a voi. 
Non è un sentiero, ma una strada maestra, una strada su cui, chi l’intraprenda, va innanzi con maggiore sicurezza. 
Sono molto lontani le gole e i dirupi ove poter cadere, cioè le occasioni di offendervi. …
Chi vi ama veramente, o mio Bene, cammina con sicurezza per un’ampia strada maestra; lungi sta il burrone.
Al minimo inciampo voi, Signore, gli date la mano. 
A perderlo non basta né una caduta né molte, se ama voi e non le cose del mondo, perché cammina nella valle dell’umiltà.





Dal Capitolo 37 
Maestà e grandezza nell'Eucarestia.


Oh, Re della gloria e Signore di tutti i re, il vostro regno non è difeso da fragili barriere, perché è eterno, e per voi non c’è bisogno di intermediari! 
Basta guardarvi per vedere, dalla maestà che mostrate, che voi solo meritate il nome di Signore e non avete bisogno di scorta né di guardie perché vi riconoscano Re.
Oh, Signor mio, oh, mio Re! Se qui si potesse descrivere la Vostra Maestà! 
È impossibile riconoscere che siete la stessa Maestà, la cui contemplazione fa restare sbigottiti.
Stupisce, Signor mio, insieme con essa, vedere la vostra umiltà e l’amore che dimostrate a una creatura come me. 
Passato quel primo senso di timore e di sbigottimento che nasce dalla vista della Maestà Vostra, si può trattare con voi e parlarvi liberamente di ogni cosa.
Resta solo un più grande timore, quello di offendervi, ma non per paura del castigo, mio Signore, perché questo non ha alcuna importanza in confronto al timore di perdervi.
Oh, Signor mio, se voi non velaste nel santissimo Sacramento la vostra grandezza, chi oserebbe venire a voi tante volte per unire con la vostra immensa Maestà un’anima così piena di sozzure e di miserie? 
Siate benedetto, Signore! Vi lodino gli angeli e tutte le creature per aver commisurato tutto alla nostra debolezza, in modo che, godendo di così sovrane grazie, non ci atterrisca la vostra gran potenza, tanto da non farci osare di goderne, deboli e misere creature come siamo.





Oh, ricchezza dei poveri, come mirabilmente sapete sostentare le anime a cui, senza che vedano d’un colpo così grandi ricchezze, le andate mostrando a poco a poco! Io, nel contemplare una così grande maestà celata in così piccola cosa come è un’ostia, non posso fare a meno di ammirare la vostra grande sapienza.




Buona giornata a tutti. :-)