Un caldo giorno d'estate, uno studente
attraversava la piazza di una grande città, famosa per la bellezza delle sue
antiche chiese.
Stava preparando la tesi in architettura e voleva includervi la
storia di quegli splendidi monumenti.
Proprio quella mattina aveva deciso di
visitare una delle cattedrali più importanti quando, un po' per l'afa fattasi
insopportabile, un po' per sottrarsi al rumoroso traffico dell'ora di punta,
decise di entrare nella chiesa che si affacciava sulla piazza.
Appena entrato, si guardò intorno con
l'occhio attento di chi cerca qualcosa di particolare, ma la chiesa gli parve
del tutto normale, comunque offriva un po' di frescura e i rumori della città
vi giungevano piacevolmente attutiti.
Ai lati della navata centrale si
allineavano piccole cappelle, ognuna con la rappresentazione di una figura
sacra e un tavolino in ferro su cui brillavano allegri tanti lumini. Non che lo
studente fosse particolarmente religioso ma ormai, dopo gli studi fatti, sapeva
riconoscere gran parte delle figure rappresentate in ogni nicchia.
La Vergine... san Giuseppe con il suo
bastone... san Pietro crocifisso a testa in giù... E questa? Si fermò
incuriosito davanti al quadro di una giovanissima donna che reggeva fra le
braccia una foglia di palma e un piccolo agnello.
Quella tela lo affascinò a tal punto
da non riuscire a staccarne gli occhi. Così si sedette su un banco da cui
poterla comodamente osservare.
Era certamente una giovane dell'antica Roma: lo
si notava subito dall'abbigliamento, ma anche dai tratti del volto con il naso
diritto e affilato, gli occhi scuri e penetranti soffusi di fierezza e dignità,
l'ovale perfetto e le labbra sottili appena increspate da un sorriso.
Il nostro studente si domandava quale
artista l'avesse mai ritratta con tanta maestria... o forse la fanciulla
stessa, con la sua conturbante bellezza, aveva dato vita e anima a quella tela.
«Non la riconosci?» gli chiese una
voce al suo fianco.
Il ragazzo fece un balzo: era talmente
intento a osservare il quadro che non si era accorto di non essere più solo.
Vicino a lui sedeva una donna anziana e sorridente, bella di quella particolare
bellezza interiore che solo l'età sa donare quando la vita ha maturato buoni
frutti.
«A essere sincero, non la riconosco
proprio. Lei sa chi è?»
«Ma certo» rispose la donna: «porto il
suo nome e so tutto di lei... Vuoi conoscerne la storia?».
«Ne sarei felice, ma non vorrei farle
perdere tempo...» rispose lui, senza sapersi spiegare il perché di
quell'insopprimibile desiderio di ascoltare la storia della "ragazza con
l'agnello".
«Non ho problemi di tempo, figlio mio.
Allora ascolta...» e l'anziana signora si sedette vicino a lui cominciando il
suo racconto.
«Si chiamava Agnese e la sua bellezza,
come puoi ben vedere, era straordinaria. Chi la incontrava non poteva che
fermarsi ad ammirarla, rimanendo calamitato dall'espressione di quel viso. Non
era solo la perfezione delle forme che risaltava in Agnese, ma qualcosa di più profondo,
come se un fuoco l'abitasse emanando un alone luminoso.
Di lei era pazzamente innamorato il
figlio del prefetto che avrebbe dato qualunque cosa pur di essersene
ricambiato.
Più volte l'aveva chiesta in moglie offrendole quello che nessuna
donna in Roma avrebbe neanche osato sperare di possedere, ma Agnese pareva non
interessarsi né all'amore del giovane né a quanto lui le offriva.
Un giorno le parve però corretto
giustificarsi con lui, sperando che di fronte a un'evidenza che non gli
lasciava speranze avrebbe smesso di soffrire.
Gli confidò quindi di essere già
innamorata di un uomo cui nessun altro poteva essere paragonato, che non le
offriva nulla di quanto si potesse immaginare ma qualcosa che valeva molto di
più. Lo pregò quindi di non tormentarsi per lei ma di rivolgere il suo amore
verso una giovane che potesse ricambiarlo rendendolo felice.
A quelle parole, pronunciate con
dolcezza ma anche con determinazione, il giovane tornò al suo palazzo in preda
alla disperazione, avendo intuito che non avrebbe mai potuto competere con
questo misterioso rivale.
Passò un certo tempo e il prefetto
cominciò seriamente a preoccuparsi per lo stato di depressione in cui era
caduto il figlio. Decise quindi di scoprire chi fosse l'amante di questa
cocciuta fanciulla e, forte del suo potere, sguinzagliò i migliori informatori
per tutta Roma.
Uno di loro aveva particolarmente in
odio Agnese, essendo a sua volta segretamente innamorato di lei e, come spesso
accade agli uomini, non gli parve vero di poter distruggere ciò che non poteva
avere.
Si recò quindi dal prefetto e gli
raccontò di come Agnese facesse parte della setta dei cristiani e, come molti
di loro, fosse esperta in arti magiche tanto da dichiararsi perdutamente
innamorata di qualcuno crocifisso a Gerusalemme tanti anni prima. Il suo parere
personale era che non si può amare qualcuno che neppure si è conosciuto e che,
per giunta, è già morto, senza dar segno di un profondo squilibrio della mente,
sicuramente dovuto ai malefici influssi di qualche forza occulta.
In parte rincuorato da questa notizia
che non prospettava nessun aitante giovane nella vita di Agnese, il prefetto
decise di convocarla al suo palazzo per rendersi personalmente conto della
situazione.
Quando la vide ne rimase però
stranamente turbato: non solo era bella, ma emanava qualcosa di simile a una
calda e fluida corrente che faceva vibrare il cuore. Non riuscì neppure a
trattarla troppo rudemente, come era sua abitudine. Cercò invece di allettarla
con parole e offerte che la sua esperienza sapeva non avrebbero potuto lasciare
indifferente una donna.
Ma Agnese non era una donna come le
altre e tutto quello che lui metteva in campo, pensando di far presa sulla sua
natura femminile, si scioglieva nella totale indifferenza.
Di fronte a tanto evidente insuccesso
non poté che prendere il sopravvento la collera e il prefetto passò a ben altri
sistemi per tentare di convincere la ragazza a sposare il figlio, non ultima la
prospettiva di terribili torture.
La paura che albergava nel cuore di
Agnese, come in quello di chiunque altro, in quel momento irruppe in tutta la
sua potenza. Era giovane e amava la vita: come non temere il dolore e la morte?
Le era stato insegnato che la vita era un grande dono divino, ma anche che il coraggio di
difendere ciò in cui si crede la rende veramente degna di essere vissuta.
Agnese era perciò confusa: la mente
metteva in campo i suoi soldati, uno da una parte e uno dall'altra, come sempre
in contrapposizione. Che fare?
Non rimaneva che scavalcare d'un balzo
la mente e tuffarsi nel cuore: così la giovane rimase ferma sul suo tenace
rifiuto.
"Se lo è cercato proprio
lei" pensò il prefetto, come per alleggerirsi da un peso, e convocò per
quello stesso giorno il tribunale che avrebbe dovuto giudicare Agnese in quanto
appartenente alla fanatica setta dei cristiani.
Contro di loro tuonò il più agguerrito
dei giudici romani: "... non si può ulteriormente tollerare un nido di
vipere simile a quello nel cuore della città! I cristiani sono dei pazzi,
fautori di pericolose utopie e, come tali, vanno distrutti".
Avrebbero però concesso ad Agnese, in
virtù della sua incosciente giovinezza, ancora una scelta: avrebbe avuto salva
la vita se fosse entrata a far parte delle vestali del tempio.
Ma come avrebbe potuto inchinarsi di
fronte a un vuoto simulacro, quando nel suo cuore ardeva la fiamma dell'unico
Dio vivente! Il solo pensiero la faceva rabbrividire: il tempio di Vesta
sarebbe stato simile a una nera tomba in cui la sua anima sarebbe lentamente
morta.
"È la tua ultima
possibilità" replicò il prefetto: "o ti unisci alle vergini che
onorano la dea Vesta o sarai portata nella piazza delle meretrici e lì la tua
sorte seguirà quella delle altre sciagurate che offrono il loro corpo, non a un
degno amore ma solo alla bramosia dei sensi".
"Tu non sai quello che stai
dicendo" rispose pacatamente Agnese, sicura delle sue parole come mai lo
era stata prima d'allora. "Nulla accade fuori dalla volontà divina e se è
questo che Lui vorrà nessuno toccherà il mio corpo".
"Stupida ragazza" pensò
indispettito il prefetto, chiedendosi con quale demoniaca fattura i cristiani
fossero riusciti a irretire quella giovane mente.
La sentenza fu subito emessa: Agnese
doveva essere condotta nella piazza delle meretrici, denudata e lì lasciata per
il pubblico piacere. Così, caricata su un traballante carro, la giovane
cristiana venne condotta nella malfamata piazza, dove ogni più abominevole
desiderio della carne poteva essere appagato.
Fu gettata in una cella aperta sulla
strada e lì cominciarono a spogliarla. Ma, a mano a mano che le vesti le
venivano tolte, i suoi capelli iniziarono a crescere a dismisura, finché la sua
nudità fu ricoperta da una folta chioma, pesante e morbida come un prezioso
mantello.
La voce che una giovane e bellissima
donna era stata portata fra le meretrici attirò un gran numero di persone, ma
chiunque guardasse nella cella di Agnese non vedeva altro che una luce
abbagliante davanti alla quale non si poteva fare a meno di inginocchiarsi in
deferente silenzio.
Il figlio del prefetto aveva seguito
tutta questa vicenda con il cuore in tumulto, diviso fra un accecante amore e
un odio altrettanto smisurato.
Potrà sembrare assurdo che due sentimenti a tal
punto contrastanti possano condividere lo stesso cuore, ma questa è l'altalena
della luce e dell'ombra.
Così una sera, più che mai in preda
all'ansia, cercò la compagnia degli amici più intimi con cui cenare e, soprattutto,
spegnere nella coppa del vino il suo tormento. Era già notte fonda quando
decisero di recarsi nella piazza delle meretrici per dare una bella lezione a
quella sciocca cristiana.
Nella piazza si aggiravano ormai poche
persone ciondolanti, più preda dell'alcol che del desiderio. Il luogo si
presentava in tutto il suo squallore e le celle si affacciavano sul selciato
come tante bocche nere e sdentate.
"Entrate voi e divertitevi quanto
volete" disse il figlio del prefetto agli amici, mentre i suoi occhi si
riempivano di una rabbia spaventosa.
"Sei sicuro di volerlo?"
chiese uno di loro.
"Vi ho detto di entrare!"
urlò il giovane.
Tornò il silenzio. Solo qualche
ubriaco biascicava parole sconnesse e alcune donne ridacchiavano in un angolo.
Non passò molto tempo prima che il
gruppo di giovani ritornasse dall'amico.
"Allora?" chiese questi
cupo.
"Allora... niente!"
risposero quelli con il volto sbiancato. "Dai retta a noi, andiamocene.
Lei non è una donna come le altre. O è una dea o è un demone: certamente non
appartiene alla terra ma all'Olimpo".
"Stupide femminucce, vi farò
vedere io a chi appartiene!" e così dicendo il ragazzo attraversò di corsa
la piazza e sparì nel buio.
Oltre quella soglia stava Agnese, la
sua adorata Agnese che aveva osato respingerlo e alla quale ora lui avrebbe
strappato dignità e vita. E lei era là, brillante come una stella nell'oscurità
e altrettanto lontana. Il giovane si bloccò per un attimo soltanto, poi il solo
vederla riaccese in lui una fiamma potente come quelle degli inferi.
Si slanciò su di lei come il lupo sul
piccolo agnello, ma come le sue mani si posarono sul corpo di Agnese il giovane
cadde a terra fulminato.
Quando lo aveva visto entrare, lei
aveva tremato di paura, perché più di ogni altra emozione l'amore può
manifestare una potenza dirompente; ma poi, guardando il giovane corpo immobile
ai suoi piedi, Agnese provò una profonda pietà. Pensò in quel momento che forse
aveva amato quel giovane, anche se non come lui avrebbe voluto.
Il prefetto fu subito informato di
quanto era accaduto e si precipitò in preda all'angoscia là dove il figlio
giaceva. Abbracciò il corpo senza vita e pianse a lungo.
Agnese lo stava osservando con
tristezza quando lui le chiese fra i singhiozzi: "Perché hai colpito
proprio lui e non gli altri? Perché proprio il mio ragazzo?".
"Non io l'ho colpito! Chi è
entrato qui prima di lui ha percepito la presenza dell'angelo inviato da Dio
per proteggere il mio corpo, ma solo tuo figlio, accecato dalla passione, ha teso
le sue mani su di me e l'angelo lo ha colpito."
"Ora so che il Dio di cui parli è
davvero presente e potente. Ti prego, Agnese, chiedigli di avere pietà e di
restituirmi l'unico figlio!"
"Io posso chiedere, ma non è in
mio potere cambiare ciò che deve essere. Se Dio lo vorrà, tuo figlio ti sarà
restituito". Così Agnese si sedette sulle pietre del pavimento e prese nel
suo grembo la testa del giovane romano; poi chiuse gli occhi e pregò.
Piccole gocce di sudore le imperlavano
la fronte cadendo sul volto senza vita del ragazzo, mentre un alone di luce
pareva giocare, accarezzando ora l'una ora l'altro.
Quando lui riaprì gli occhi, vide il
volto pallidissimo di Agnese che lo stava guardando e le sorrise. Un'emozione
intensa li unì per un breve attimo e da quel momento non si rividero mai più.
Mentre il giovane si rialzava
sostenuto dal padre, un drappello di guardie irruppe nella piazza trascinando
via Agnese, né qualcuno ebbe modo di salvarla.
Il prefetto e suo figlio, così come
coloro che furono presenti al miracoloso evento, si convertirono al
cristianesimo, ma dovettero fuggire in gran fretta da Roma e furono
perseguitati per lungo tempo come traditori.
Agnese fu invece portata nella
prigione del prefetto Aspasio, che la condannò al rogo. Ma, ancora una volta,
l'angelo di Dio giocò un brutto scherzo ai suoi aguzzini. Ogni volta che il
fuoco veniva acceso, le rosse lingue ardenti danzavano in ogni dove fuorché
intorno al corpo della ragazza.
Il fuggi fuggi intorno alla pira era
generale, pareva che ogni brace andasse alla ricerca di una persona prescelta e
non la perdesse più di mira... successe un vero parapiglia mentre Agnese non
veniva neppure lambita da una fiammella.
Aspasio era furente contro quella
cristiana che aveva già portato abbastanza guai, trasformando persino il suo
predecessore, insieme al figlio e ai suoi amici, in altrettanti fanatici di
quel Dio che metteva scompiglio ovunque arrivasse. Era veramente troppo! Decise
così che sarebbe stata sgozzata come un agnello.
Era giunto il suo tempo e così doveva
essere. Agnese porse la sua gola al boia come l'agnello al macellaio... ma il
sangue non scorre mai invano...»
«Scusa, ragazzo, ma non si viene in
chiesa per dormire».
Il nostro studente si scosse intorpidito guardando di
traverso il sacerdote che lo stava gentilmente scuotendo per una spalla.
«Ma, veramente, stavo ascoltando la
storia di questa santa... Agnese, se non sbaglio...» rispose il ragazzo
guardando verso l'altare.
«Sì, certo che è Agnese, ma qui da ore
non entra nessuno; quindi non vedo chi possa averti raccontato la sua storia»
rispose il prete, cominciando a guardare il ragazzo con più sospetto.
«Ma, reverendo, non ha visto una
signora anziana seduta di fianco a me?»
«Assolutamente no; e adesso scusa ma
ho da confessare. Se vuoi, fermati, ma fammi il piacere di non rimetterti a
dormire!» e così dicendo si affrettò verso la sacrestia.
«Agnese...» bisbigliò il ragazzo e,
guardando la splendida creatura che teneva tra le braccia la palma del martirio
e l'agnello dell'innocenza, le sorrise. Si guardò subito intorno per accertarsi
che nessuno l'avesse visto.
Ora quel gesto gli sembrava sciocco, ma era stato
così spontaneo, quasi familiare.
Non riusciva a staccarsi da quel luogo, ma era
tardi e doveva andare. Prima di uscire la guardò ancora... c'era qualcosa di
strano... ma cos'era?
- Leggenda attribuita a sant'Ambrogio -
da:
"Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti
e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 -
Edizioni Piemme S.p.A.
Buona giornata a tutti. :-)