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domenica 26 aprile 2020

La piccola fattoria e la vacca - Paulo Coelho

Un filosofo passeggiava in un bosco con un discepolo, conversando sull’importanza degli incontri inaspettati. Secondo il maestro, tutto ciò che si trova davanti a noi ci dà un’occasione per apprendere o insegnare. 

In quel momento incrociarono il cancello di una piccola fattoria che, malgrado si trovasse in un’ottima posizione, aveva un aspetto miserabile. 
“Guardate questo posto,” disse il discepolo. “Avete ragione: ho appena imparato che tanta gente si trova in Paradiso, ma non se ne rende conto e continua a vivere in condizioni miserabili.” 
“Io ho detto apprendere e insegnare,” ribatté il maestro. “Constatare ciò che accade non basta: è necessario verificarne le cause, poiché comprendiamo il mondo solo quando ne comprendiamo le cause.” 
Bussarono alla porta e furono ricevuti da chi vi abitava: una coppia con tre figli, tutti vestiti con abiti stracciati e sporchi. 
“Lei sta qui in mezzo a questo bosco, e non c’è nessun negozio nei dintorni,” disse il maestro al capofamiglia. “Come riuscite a sopravvivere?”
E l’uomo, tranquillamente, rispose: 
“Amico mio, abbiamo una vacca che ci dà vari litri di latte tutti i giorni. Una parte di questo prodotto lo vendiamo o lo barattiamo nel paese vicino con altri generi alimentari. Con l’altra parte, produciamo formaggio, caglio, burro per il nostro fabbisogno. E così tiriamo avanti.”

Il filosofo ringraziò per le informazioni ricevute, contemplò il posto per alcuni istanti e poi se ne andò via. A metà del cammino, disse al discepolo: “Prendi la vacca, conducila fino al precipizio laggiù e scagliala di sotto.”
“Ma è l’unico mezzo di sostentamento di quella famiglia!”
Il filosofo rimase in silenzio. Non avendo alternative, il ragazzo fece ciò che gli era stato chiesto, e la vacca morì nella caduta.
L’episodio rimase impresso nella memoria del discepolo. Dopo molti anni, quando ormai era un imprenditore di successo, decise di tornare in quello stesso luogo, raccontare tutto alla famiglia, chiedere perdono e aiutarla finanziariamente. 
Quale non fu la sua sorpresa nel vedere il luogo trasformato in una bella fattoria, piena di alberi fioriti, con una macchina nel garage e alcuni bambini che giocavano nel giardino. Si sentì disperato, immaginando che l’umile famiglia avesse dovuto vendere la fattoria per sopravvivere. Affrettò il passo e fu accolto da un fattore molto gentile.
“Dov’è finita la famiglia che viveva qui dieci anni fa?” domandò. 
“Sono sempre i padroni della fattoria,” fu la risposta che ricevette. 
Stupito, egli entrò in casa di corsa, e l’uomo lo riconobbe. Gli domandò come stava il filosofo, ma il giovane era troppo ansioso di sapere come fosse riuscito a migliorare in quel modo la fattoria e a sistemarsi tanto bene:
“Be’, avevamo una vacca, ma cadde nel precipizio e morì,” disse l’uomo. “Allora, per mantenere la famiglia, dovetti piantare erbe e legumi. 
Le piante tardavano a crescere e, così, cominciai a tagliare il legname per venderlo. 
Dovetti, pertanto, ripiantare gli alberi ed ebbi bisogno di comprarne degli altri. Comprandone degli altri, mi ricordai dei vestiti dei miei figli e pensai che, forse, avrei potuto coltivare il cotone. 
Passai un anno difficile, ma quando arrivò il raccolto avevo ormai cominciato a esportare legumi, cotone ed erbe aromatiche. 
Non mi ero mai reso conto del mio potenziale: meno male che quella piccola vacca morì!”


- Paulo Coelho -





Atto d'amore

Non seppi dirTi quant'io t'amo, Dio
nel quale credo, Dio che sei la vita
vivente, e quella già vissuta e quella
ch'é da viver più oltre i confini
dei mondi, e dove non esiste il tempo.
Non seppi; - ma a Te nulla occulto resta
di ciò che tace nel profondo. Ogni atto
di vita, in me, fu amore. Ed io credetti
fosse per l'uomo, o l'opera, o la patria
terrena, o i nati del mio saldo ceppo,
o i fior, le piante, i frutti che dal sole
hanno sostanza, nutrimento e luce;
ma fu amor di Te, che in ogni cosa
e creatura sei presente. Ed ora
che ad uno ad uno caddero al mio fianco
i compagni di strada, e più sommesse
si fan le voci della terra, il Tuo
volto rifulge di splendor più forte,
e la Tua voce è cantico di gloria.
Or - Dio che sempre amai - t'amo sapendo
d'amarTi; e ineffabile certezza
che tutto fu giustizia, anche il dolore,
tutto fu bene, anche il mio male, tutto
per me Tu fosti e sei, mi fai tremante
d'una gioia più grande della morte.
Resta con me, poi che la sera scende
sulla mia casa con misericordia
d'ombra e di stelle. Ch'io Ti porga, al desco
umile, il poco pane e l'acqua pura
della mia povertà. Resta Tu solo
accanto a me Tua serva; e nel silenzio

degli esseri, il mio cuore oda Te solo.

- Ada Negri -

Marc Chagall


Buona giornata a tutti. :-)

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martedì 21 aprile 2020

Dominus tecum, figlio mio

Tutto ciò che sto per narrarvi accadde tanto tempo fa, in un paese di cui nessuno ricorda il nome.
Era un paese prospero e allegro, sdraiato su una dolce collina coltivata con cura e perizia. I suoi abitanti, contadini dall'animo semplice e gentile, erano sempre pronti al sorriso e generosi fra di loro e con i forestieri.
La vita trascorreva senza grandi scosse, con quel tanto di dolce e di amaro che abitualmente l'attraversa quando la si sa guardare con occhio benevolo.
Finché, improvvisamente, qualcosa di insolito e malvagio percorse le strade di quel luogo e incominciò a colpire ora questa, ora quella famiglia. 
Ogni giorno di festa per la nascita di un bimbo si trasformava in un giorno di dolore perché, senza che nessuno potesse darne una spiegazione, il neonato moriva dopo poche ore dalla nascita.
Neppure il vecchio prete, che tante ne aveva viste e passate, riusciva a comprendere da dove quel terribile morbo provenisse e perché si accanisse tanto contro quelle piccole e innocenti creature. 
Dopo aver consultato gli antichi libri, racchiusi nella cripta della chiesa, il brav'uomo cominciò a pensare che forse un folletto malvagio, inviato dalle oscure dimore degli spiriti negativi, si aggirava nel paese, spinto dall'invidia per quel placido angolo di serenità.
Ben presto gli abitanti divennero preda di un'angoscia mai prima d'allora conosciuta, non sapendo spiegarsi come mai la vita si accanisse proprio contro di loro. Essi pregavano con fervore il buon Dio che ogni cosa conosce, perché li aiutasse a uscire da quell'incubo in cui parevano sprofondare sempre di più.
Potete immaginare a questo punto in quale stato d'animo essi si trovarono quando Prospero, il panettiere, annunciò all'intera comunità, riunita per la messa, la prossima nascita di un figlio.
«Ma sei proprio matto!» esclamarono in coro. «Non ti basta quello che già è successo? Non capisci che qualche maleficio si è abbattuto sul nostro paese?».
Prospero, attanagliato dalla paura, non sapeva che dire. 
Ormai non poteva far altro che attendere, rassegnato a sopportare la sua parte di dolore.
Intanto il vecchio prete non aveva smesso per un solo giorno di sfogliare le enigmatiche pagine di quegli antichi testi che le umide pietre della cripta avevano custodito gelosamente così a lungo. Come poteva Dio non aver previsto tutto ciò che stava accadendo e non aver messo a loro disposizione un suggerimento che potesse aiutarli?
Il sant'uomo leggeva e rileggeva, studiava e rifletteva, percependo in cuor suo che dietro tutta quest'affannosa ricerca doveva nascondersi qualcosa di molto più semplice, come solo Dio sa essere semplice.
Nel frattempo i mesi erano trascorsi veloci e il piccolo figlio del panettiere era nato in una assolata quanto fredda mattina di febbraio.
Nella casa, che avrebbe dovuto accoglierlo con gioia, regnava invece un cupo dolore e la giovane mamma scrutava preoccupata il visetto paffuto aspettandosi di vederne volar via la vita, come già tante altre volte era accaduto nel villaggio.
Mentre tutti se ne stavano lì tristi e piangenti, ecco spalancarsi la porta ed entrare il vecchio prete.
«Che splendido bambino, miei cari!» esclamò, abbracciando la stanza con un largo sorriso.
Poi si rivolse alla donna china sul lettino del neonato: «Non piangere, cara, asciuga piuttosto i tuoi occhi e fai quanto ora ti dico!».
Fra la meraviglia generale l'uomo fece sollevare il bimbo, ordinando alla madre di tenerlo in grembo fino a quando lui non avesse deciso altrimenti.
La donna pareva incerta, ma la forza che il vecchio emanava era così concreta che sembrava impossibile contrastarla. 
Prese il piccolo e lo tenne sulle ginocchia finché il bimbo fece un leggero starnuto.
«Dominus tecum, figlio mio!» esclamò subito il vecchio solennemente. 
Nel medesimo istante s'intese una voce sgradevole e irritata provenire dalla cappa del camino.
«Vecchiaccio! Mille volte maledetto! Chi ti ha insegnato tutto ciò?» e, nel dire questo, un folletto ghignante e storpio attraversò di corsa la stanza, uscendo con un balzo dalla porta e scomparendo in un battibaleno dalla vista degli increduli spettatori.
Sotto la forma di una tremolante ombra scura, il male se ne scappò via, vinto dalla forza di due sole parole che però non ammettevano dubbio alcuno.
È inutile che vi diciamo che quel bimbo, come tutti quelli che nacquero da allora in poi, crebbe sano e vispo così come il paese ritrovò tutta la serenità e l'allegria di un tempo.
Se però in questi giorni vi capitasse di passare per caso di là, certamente lo riconoscerete, perché gli abitanti, in segno di buon augurio, vi saluteranno dicendovi: «Dominus tecum, figlio mio, il Signore sia con te!».

- Leggenda popolare spagnola -da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


.... No. Non chiamatela sfiga. Vero, il virus è sbarcato in Italia prima di altrove perché così doveva andare, ma i tagli alla nostra sanità pubblica hanno padri e padroni nascosti nelle pieghe della storia recente del nostro Paese. 
Mascherine, tamponi, reagenti, difesa del personale sanitario impegnato nella prima linea del fronte: il nulla colorato di rosso. Come la croce che più volte abbiamo visto sfrecciare sulle ambulanze che raccoglievano i feriti di una guerra mai dichiarata. Se non dai bollettini della Protezione civile.
Chiamatela inefficienza, inettitudine, cupidigia, ignoranza. 
Chiamatela come volete. Ma non chiamatela sfiga. 
Quella non basta per spiegare le ragioni del male che affligge l'Italia da decenni. 
Non basta per spiegare il dolore che per sempre rimarrà impresso nella nostra memoria.


- Dario Pellizzari - 

A Bergamo, nella serata di mercoledì 18 marzo, sono arrivati i mezzi dell’esercito per trasportare le bare di alcune delle persone morte di COVID-19 dal cimitero monumentale ai forni crematori di altre città. Bergamo, la provincia con il maggior numero di contagi da coronavirus in tutta Italia, non riusciva più a gestire la situazione e le attese per le cremazioni – pratica scelta dalla maggioranza delle famiglie delle persone morte – avevano ormai superato la settimana. A Bergamo c’è un solo forno crematorio che sta lavorando a pieno regime, 24 ore al giorno, ma può cremare al massimo 25 defunti al giorno. Anche la camera mortuaria del cimitero non aveva più spazio disponibile, e nei giorni scorsi era stato necessario mettere le bare nella chiesa di Ognissanti, sempre all’interno del cimitero. (da Il-Post)

Buona giornata a tutti. :-)




sabato 18 aprile 2020

L'arazzo

Un giovane monaco fu inviato per alcuni mesi in un monastero delle Fiandre a tessere un importante arazzo insieme ad altri monaci.
Un giorno si alzò indignato dal suo scranno.
 «Basta! Non posso andare avanti! Le istruzioni che mi hanno dato sono insensate!», esclamò. «Sto lavorando con un filo d’oro e tutto ad un tratto devo annodarlo e tagliarlo senza ragione. Che spreco!».
«Figliolo», replicò un monaco più anziano, «tu non vedi questo arazzo come va visto. Sei seduto dalla parte del rovescio e lavori soltanto in un punto».
Lo condusse davanti all’arazzo che pendeva ben teso nel vasto laboratorio, e il giovane monaco rimase senza fiato.
Aveva lavorato alla tessitura di una bellissima immagine della Pasqua e il suo filo d’oro faceva parte dei luminosi raggi attorno al Signore Risorto.
Ciò che al giovane era sembrato uno spreco insensato, era meraviglioso.

Tante cose della vita sembrano non avere senso.



INSEGNAMI, SIGNORE, A DIRE GRAZIE

Grazie per il pane, il vento, la terra e l'acqua.
Grazie per la musica e per il silenzio.
Grazie per il miracolo di ogni nuovo giorno.
Grazie per i gesti e le parole di tenerezza.
Grazie per le risate e per i sorrisi.
Grazie per tutto ciò che mi aiuta a vivere,
nonostante le sofferenze e lo sconforto.
Grazie a tutti quelli che amo e che mi amano.
E che questi mille ringraziamenti
si trasformino in un'immensa azione di grazie
quando mi rivolgo a Te,
fonte di ogni grazia e roccia della mia vita.
Grazie per il tuo amore senza confini.
Grazie per il pane dell'Eucarestia.
Grazie per la pace che viene da Te.
Grazie per la libertà che Tu ci dai.
Con i miei fratelli io proclamo la tua lode
per la nostra vita che è nelle tue mani
e per le nostre anime che ti sono affidate.
Per i favori di cui tu ci inondi
e che non sempre sappiamo riconoscere.
Dio buono e misericordioso,
che il tuo nome sia benedetto, sempre.

- Jean Pierre Dubois-Dumée -


Buona giornata a tutti. :-)








venerdì 17 aprile 2020

Piccolissimo omaggio a un grande scrittore Luis Sepùlveda


La più bella storia d'amore

L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio
Che è la strada e la polvere
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
la Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda una stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.

- Luis Sepúlveda -


In un prato vicino a casa tua o a casa mia viveva una colonia di lumache sicurissime di trovarsi nel posto migliore del mondo. 

Nessuna di loro si era mai spinta fino al limitare del prato, né tanto meno fino alla strada asfaltata che iniziava proprio là dove crescevano gli ultimi fili d'erba. 
E siccome non avevano viaggiato non potevano fare confronti, quindi ignoravano che per gli scoiattoli il posto migliore era sulla cima dei faggi, o che per le api non c'era posto più piacevole delle arnie di legno disposte in fila dall'altra parte del prato.

- Luis Sepúlveda -

da: Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza, ed. Guanda





"Me ne vado, e tornerò soltanto quando saprò perché siamo così lente, e quando avrò un nome."

Così annuncia alle compagne la sua decisione di allontanarsi la nostra lumaca, suscitando disapprovazione e anche sarcasmo.
Lentamente, molto lentamente, abbandona il rigoglioso prato e la protezione del calicanto e si incammina verso l'ignoto. Vuole incontrare chi potrà offrire una risposta alle sue domande.



- Luis Sepúlveda -


da: Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza, editore Guanda


Lungo la strada incontrerà animali diversi, tra i quali un gufo un po' triste e una tartaruga molto saggia chiamata Memoria. Sarà lei a battezzarla e a dare un senso alla sua ricerca, mostrandole il grave rischio che incombe sul piccolo pezzo di terra in cui vive in pace la colonia di lumache: "La mia lentezza è servita a incontrarti, a farmi dare un nome da te, a farmi mostrare il pericolo, e ora so che devo avvertire le mie compagne."







TITOLO PRIMO Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d'asino rigonfia. 
Il vento, tiepido e appiccicoso, spazzava via alcune foglie morte e scuoteva con violenza i banani rachitici che decoravano la facciata del municipio. 
I pochi abitanti di El Idilio, e un pugno di avventurieri arrivati dai dintorni, si erano riuniti sul molo e aspettavano il loro turno per sedersi sulla poltrona portatile del dottor Rubicundo Loachamín, il dentista, che leniva i dolori dei suoi pazienti con una curiosa sorta di anestesia orale. «Ti fa male?» chiedeva. I pazienti, aggrappati ai braccioli della poltrona, rispondevano spalancando smisuratamente gli occhi e sudando a fiumi. Alcuni volevano togliersi dalla bocca le mani insolenti del dentista per rispondergli con un insulto adeguato, ma le loro intenzioni si scontravano con le braccia robuste e la voce autoritaria dell'odontoiatra. «Sta' fermo, cazzo! Via le mani! Lo so che fa male. E di chi è la colpa? Vediamo un po'. Mia? No. È del Governo! Ficcatelo bene nella zucca. È colpa del Governo se hai i denti marci. È colpa del Governo se ti fa male.» 
Allora assentivano afflitti, chiudendo gli occhi o annuendo leggermente. Il dottor Loachamín odiava il Governo. Odiava tutti i governi dal primo all'ultimo. Figlio illegittimo di un emigrante iberico, aveva ereditato dal padre una tremenda rabbia contro tutto quello che sapeva di autorità, ma i motivi di quell'odio si erano smarriti in qualche baldoria giovanile, e i suoi sproloqui di anarchico si erano trasformati in una specie di verruca morale, che lo rendeva simpatico. Vociferava continuamente contro il governo di turno e contro i gringos che a volte arrivavano dagli impianti petroliferi del Coca, forestieri sfacciati che fotografavano senza permesso le bocche spalancate dei suoi pazienti. Accanto a lui, lo scarso equipaggio del Sucre caricava caschi di banane verdi e sacchi di caffè in chicchi. Sul molo, da una parte, erano ammucchiate le casse di birra, di acquavite Frontera, di sale e le bombole di gas sbarcate in precedenza. 
Il Sucre sarebbe salpato non appena il dentista avesse finito di aggiustare ganasce, avrebbe risalito le acque del fiume Nangaritza per immettersi poi nel Zamora, e dopo quattro giorni di lenta navigazione avrebbe raggiunto il porto fluviale di El Dorado. 
La barca, una vecchia bagnarola mossa dalla decisione del capomeccanico, dallo sforzo dei due uomini robusti che formavano l'equipaggio, e dalla volontà tisica di un vecchio motore diesel, non sarebbe tornata fin dopo la stagione delle piogge, che già si preannunciava nel cielo coperto. 
Il dottor Rubicundo Loachamín visitava El Idilio due volte l'anno, come il postino, che raramente portava corrispondenza per qualche abitante. 
Dalla sua borsa scalcagnata apparivano soltanto documenti ufficiali destinati al sindaco, o i ritratti austeri e scoloriti dall'umidità dei governanti di turno. 
La gente aspettava l'arrivo della barca con la sola speranza di vedere rinnovata la sua provvista di sale, gas, birra e acquavite, ma il dentista era accolto con sollievo, soprattutto dai sopravvissuti alla malaria, stanchi di sputare i resti della dentatura e ansiosi di avere la bocca libera da schegge per provarsi una delle protesi bene ordinate su un tappetino violetto dall'aria cardinalizia. 
Bestemmiando contro il Governo, il dentista ripuliva le gengive dagli ultimi pezzetti di dente e subito dopo ordinava loro di sciacquarsi la bocca con acquavite. «Bene, vediamo un po'. Questa come ti va?» «Mi stringe. Non riesco a chiudere la bocca.» «Cazzo! Che tipini delicati. Forza, provatene un'altra.» «Questa mi sta larga. Se starnutisco, la perdo.» «E tu non prendere il raffreddore, coglione. Su, apri la bocca.»

E loro gli obbedivano. Dopo essersi provati diverse dentiere trovavano la più comoda e discutevano il prezzo, mentre il dentista disinfettava le altre immergendole in una marmitta piena di acqua bollita e clorata.


- Luis Sepúlveda - 

Da: Il vecchio che leggeva romanzi d'amore (Un vejo que leía novelas de amor, 1989),editore Guanda

 


Qui potete trovare un altro articolo:

Buona giornata a tutti. :-)



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lunedì 30 marzo 2020

La mano e la sabbia – don Bruno Ferrero

Giorgio, un ragazzo di tredici anni, passeggiava sulla spiaggia insieme alla madre.
Ad un tratto le chiese: "Mamma, come si fa a conservare un amico quando finalmente si è riusciti a trovarlo?".
La madre meditò qualche secondo, poi si chinò e prese due manciate di sabbia. Tenendo le palme rivolte verso l'alto, strinse forte una mano: la sabbia le sfuggì tra le dita, e quanto più stringeva il pugno, tanto più la sabbia sfuggiva.
Tenne invece ben aperta l'altra mano: la sabbia vi restò tutta.
Giorgio osservò stupito, poi esclamò: "Capisco".

- don Bruno Ferrero -
Tratto da “L’importante è la rosa" di Bruno Ferrero



Camminare è un’arte, perché, se camminiamo sempre in fretta, ci stanchiamo e non possiamo arrivare alla fine, alla fine del cammino. 
Invece, se ci fermiamo e non camminiamo, neppure arriviamo alla fine. 
Camminare è proprio l’arte di guardare l’orizzonte, pensare dove io voglio andare, ma anche sopportare la stanchezza del cammino. 
E tante volte, il cammino è difficile, non è facile. “Io voglio restare fedele a questo cammino, ma non è facile, senti: c’è il buio, ci sono giornate di buio, anche giornate di fallimento, anche qualche giornata di caduta… uno cade, cade…”. 
Ma pensate sempre a questo: non avere paura dei fallimenti; non avere paura delle cadute. 
Nell’arte di camminare, quello che importa non è di non cadere, ma di non “rimanere caduti”. Alzarsi presto, subito, e continuare ad andare. E questo è bello: questo è lavorare tutti i giorni, questo è camminare umanamente. 
Ma anche: è brutto camminare da soli, brutto e noioso. 
Camminare in comunità, con gli amici, con quelli che ci vogliono bene: questo ci aiuta, ci aiuta ad arrivare proprio alla meta a cui noi dobbiamo arrivare.

- Papa Francesco -

con la mia famiglia al rifugio Bignami all'Alpe di Fellaria

" [...]C'era tempesta di neve. "Sono bianche api che sciamano!" disse la vecchia nonna. "Hanno anche loro un'ape regina?" chiese il bambino, perché sapeva che tra le vere api c'era anche una regina. 
"Certo che ce l'hanno!" rispose la nonna. "Vola dove le api sono più fitte! È più grande di tutte, e non si posa mai sulla terra, risale di nuovo nel cielo scuro. 
Molte notti d'inverno vola attraverso le strade della città e guarda nelle finestre, allora queste gelano in modo stranissimo, come venissero ricoperte di fiori." " 

da: La Regina delle Nevi, Hans Christian Andersen (seconda storia)





Buona giornata a tutti :-)


domenica 16 febbraio 2020

La gola della balena - Rudyard Kipling


Una volta c'era nel mare una balena che mangiava i pesci. 
Mangiava il carpione e lo storione, il nasello e il pesce martello, il branzino e il delfino, i calamaretti e i gamberetti, la triglia e la conchiglia, e la flessuosa anguilla con sua figlia e tutta la sua famiglia con la coda a ronciglio. 
Tutti i pesci che poteva trovare in tutto il mare, essa li mangiava con la bocca.... così! 
Tanto che non era rimasto in tutto il mare che un solo pesciolino, un Pesciolino-pieno-d'astuzia che nuotava dietro l'orecchio destro della balena, per tenersi prudentemente fuor di tiro.

Allora la balena si levò ritta sulla coda e disse:

– Ho fame. –

E il Pesciolino-pieno-d'astuzia disse con una vocina parimenti piena d'astuzia:

– Nobile e generoso cetaceo, hai mai mangiato l'uomo?

– No, – disse la balena. – Com'è?

– Squisito! – disse il pesciolino-pieno-d'astuzia: – squisito ma nodoso.

– Allora portamene un paio, – disse la balena, e con la coda fece spumeggiare il mare.

– Uno per volta basta, – disse il Pesciolino-pieno-d'astuzia.

– Se tu nuoti fino al cinquantesimo grado di latitudine nord e quaranta di longitudine ovest, (questo è magìa) troverai, seduto su una zattera, in mezzo al mare, con nulla addosso eccetto un paio di calzoni di tela azzurra, un paio di bretelle (non dovete dimenticare le bretelle, cari miei,) e un coltello da tasca, un marinaio naufragato, che – è bene tu ne sii avvertito – è un uomo d'infinite-risorse-e-sagacità.

Così la balena nuotò e nuotò fino al grado cinquantesimo di latitudine nord e quarantesimo di longitudine ovest, più rapidamente che potè, e su una zattera, in mezzo al mare, con nulla indosso eccetto un paio di calzoni di tela azzurra, un paio di bretelle (dovete ricordare specialmente le bretelle, cari miei) e un coltello da tasca, essa vide un unico e solitario marinaio naufragato, coi piedi penzoloni nell'acqua. (Egli aveva avuto da sua madre il permesso di guazzare nell'acqua; altrimenti non l'avrebbe fatto, perchè era un uomo d'infinite-risorse-e-sagacità).

Allora la balena aprì la bocca e la spalancò che quasi si toccava la coda, e inghiottì il marinaio naufragato, con tutta la zattera su cui sedeva, col suo paio di calzoni di tela azzurra, le bretelle (che non dovete dimenticare) e il coltello da tasca. 
Essa inghiottì ogni cosa nella credenza calda e buia dello stomaco, e poi si leccò le labbra....così, e girò tre volte sulla coda.

Ma il marinaio, che era un uomo di infinite-risorse-e-sagacità, non appena si trovò nel capace e buio stomaco della balena, inciampò e saltò, urtò e calciò, schiamazzò e ballò, urlò e folleggiò, picchiò e morsicò, strisciò e grattò, scivolò e passeggiò, s'inginocchiò e s'alzò, strepitò e sospirò, s'insinuò e gironzò, e danzò balli alla marinara dove non doveva, e la balena si sentì veramente molto infelice. (Avete dimenticato le bretelle?)

Così disse al Pesciolino-pieno-d'astuzia:

– Quest'uomo è molto indigesto, e mi fa venire il singulto.Che cosa debbo fare?

– Digli di uscire, – disse il Pesciolino-pieno-d'astuzia.

Così la balena gridò dal fondo della gola al marinaio naufragato:

– Esci fuori e comportati onestamente. M'hai messo il singulto.

– No!, no! – disse il marinaio. – Non così; in maniera molto diversa. Portami alla sponda natìa, ai bianchi scogli di Albione, e ci penserò. E continuò a ballare più che mai.

– Faresti meglio a portarlo a casa – disse il Pesciolino- pieno-d'astuzia alla balena. – Io ti ho avvertito che è un uomo di infinite-risorse-e-sagacità.

Così la balena si mise a nuotare, a nuotare con le due natatoie e la coda, come meglio le permetteva il singulto; e finalmente vide la sponda nativa del marinaio e i bianchi scogli di Albione, si precipitò sulla spiaggia, spalancò tutta quanta la bocca e disse:

– Per Winchester, Ashuelot, Nasua, Keene e le stazioni della ferrovia di Fitchburg si cambia.

E mentre diceva "Fitch" il marinaio sbucava dalla bocca. Ma mentre la balena era stata occupata a nuotare, il marinaio, che era davvero una persona piena-di-infinite-risorse-e-sagacità, aveva preso un coltello da tasca e tagliata dalla zattera una cancellata a sbarre incrociate, ….E mentre diceva "Fitch" il marinaio sbucava dalla bocca....l'aveva saldamente legata con le bretelle (ora sapete perché non si dovevano dimenticare le bretelle) e poi l'aveva incastrata nella gola della balena, recitando il seguente  distico, che, siccome non lo conoscete, qui vi trascrivo:

-Con le sbarre della grata nel mangiar t'ho moderata.

E saltò sulla ghiaia, e si diresse a casa della mamma, che gli aveva dato il permesso di guazzare nell'acqua; e s'ammogliò e d'allora in poi visse felicemente.
Com'anche la balena.
Ma da quel giorno ad oggi, la grata in gola che essa non può nè espellere, nè inghiottire, le impedì di mangiar tutto quello che voleva, eccetto i minuti pesciolini, ed è questa la ragione perchè le balene non mangiano più uomini, bambine e bambini.

Il Pesciolino-pieno-d'astuzia se la svignò e si nascose sotto la soglia dell'Equatore. Temeva che la balena fosse grandemente adirata con lui. Il marinaio portò a casa il coltello da tasca. Aveva indosso soltanto il paio di calzoni di tela azzurra quando s'era messo a camminare sulla ghiaia. 
Le bretelle l'aveva lasciate strette alla cancellata; e questa è la fine di questo racconto.

- Rudyard Kipling -
Fonte: Il libro delle bestie Rudyard Kipling, (Just so stories) – Bemporad, Firenze 1927 - Tradotto da S. Spaventa-Filippi, 12 illustrazione di Ugo Finozzi







Buona giornata a tutti. :-)