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giovedì 13 marzo 2025

L'intruso - Erri De Luca

 Camminava sull’acqua, riempiva le reti,
i pescatori lasciavano il mestiere per seguirlo.
A una festa di nozze mancò il vino e provvide,
litri a centinaia, un colpo da maestro di vendemmie,
acqua in vasi di pietra si girava in vino.
È migliore, dissero i commensali, sì, è migliore
il vino che non costa premitura, 

il pane fatto senza grano e forno
il pesce che da solo salta in barca: scatenava il gratis
che appartiene alla grazia, passionale e guappa.
Veniva da un battesimo in acque di Giordano, 

morì poco lontano
sopra una trave a T e quando un ferro gli trafisse il fianco
spillò acqua con sangue, come breccia di parto,
morì come sorgente.
Ecco l’intruso del mondo, intriso dal grasso di tutte le colpe,
messo a sbiadire pallido di freddo in un aprile
o addirittura un marzo, oltre ottocento metri
sul livello del mare mai toccato.
Un gargarismo d’acque in fondo a un pozzo asciutto,
uno scatarro nella tubatura delle arterie:
così scroscia la sua resurrezione.

- Erri De Luca - 



«Le passioni che noi abbiamo per debolezza, Gesù Cristo le ha per virtù; 
le passioni che in noi spesso comandano, in Gesù Cristo obbediscono; 
le passioni che in noi prevengono la ragione, in Gesù Cristo la seguono; 
le passioni che in noi sono nel nascere indipendenti dalla volontà, in Gesù Cristo vi sono sottomesse. 
Nulla è in lui effetto di necessità, ma tutto è effetto di potenza e di libertà.»

- San Pier Damiani - 




« II significato delle parole di Gesù : " Triste è l'anima mia fino alla morte ", è questo: tale è la mestizia e lo spavento che io provo nell'intimo mio cuore, che, se la presenza della mia virtù divina non venisse in sostegno della debolezza umana, io non potrei sopravvivervi; dovrei assolutamente morire»

- Sant'Ilario -




Buona giornata a tutti. :-)


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martedì 11 marzo 2025

La missione di Angiolino

 Angiolino era preoccupato. L'Eterno Padre gli aveva assegnato la missione di consolare il suo Figlio agonizzante. "Di che cosa potrà mai aver bisogno il Signore?", pensava tra sé. 
In un baleno lasciò la Gloria del Paradiso, raggiunse la Palestina, si diresse verso Gerusalemme e deviò sul Getsemani. 
Là si arrestò pieno di stupore: lo stesso Dio che aveva contemplato sfolgorante d'infinita gloria, quello stesso Dio davanti al quale stava sempre in adorazione, ora era lì, al buio, prostrato a terra, tutto tremante e angosciato. «Devo assolutamente trovare qualcuno che lo possa consolare!», si disse dirigendosi verso gli Apostoli. «Sicuramente loro sono disposti ad aiutarmi: hanno ricevuto tanti insegnamenti e hanno visto tanti miracoli!». Ma i Discepoli dormivano. 
«Che delusione! Forse tra i miracolati troverò qualcuno disposto a consolarlo!». Il povero Angiolino girò tutta la Giudea: visitò ciechi che vedevano, storpi che camminavano, sordi che sentivano, ma tutti erano intenti a festeggiare la Pasqua. 
«Tutti pensano a festeggiare e non c'è nessuno che pensi al Signore! Vorrà dire che andrò avanti e indietro nel tempo radunando le anime sante del passato e del futuro!». 
Angiolino non ci mise molto: con una velocità supersonica portò un esercito di anime. Tra quelle del passato si distingueva il Re Davide, il profeta Isaia, Mosè, Geremia e tutti gli altri profeti. Brillavano con una luce tutta speciale san Giuseppe e san Giovanni Battista. 
Tra le anime del futuro c'erano gli Apostoli ormai diventati coraggiosi, schiere sterminate di martiri, di vergini e di confessori. Si vedeva santa Chiara che commossa sussurrava: «Era tutta la vita che chiedevo questa grazia...», accanto a lei c'era san Francesco, sant'Antonio, santa Veronica, poi san Domenico, santa Caterina da Siena, santa Gemma, san Giovanni Bosco, san Massimiliano Maria Kolbe... e San Pio che confuso e profondamente commosso assumeva su di sé la pesantissima Croce, condividendo con Cristo le atroci sofferenze della Passione. 
Gesù ne ebbe un gran sollievo, ma la visione delle numerosissime anime che avrebbero disprezzato il suo Sacrificio lo prostrava e addolorava ancora profondamente. 
Allora, Angiolino come un lampo si diresse verso la casa dell'Immacolata. La Signora stava offrendo tutto con Gesù. «Mia dolce Regina, non volevo disturbarti, perché so che stai soffrendo molto e avresti bisogno di essere consolata tu stessa, ma sei l'unica che può aiutarmi!». 
«Angiolino caro, in questo momento l'unica mia consolazione è proprio quella di poter consolare Gesù! Su, presto! Torna nell'Orto degli Ulivi e portagli il mio Cuore!». 
Angiolino tutto tremante prese quel preziosissimo Cuore nelle sue mani di luce e lo portò subito a Gesù.

- Miriam Soter -



Il leccio è un albero grande e longevo, sempreverde e ornamentale, originario dell'area del Mediterraneo. 
Appartiene al genere della quercia e, per la sua bellezza decorativa, è utilizzato per vari impieghi: per arricchire giardini boscosi o creare viali alberati, ma produce anche un ottimo legname. 
Il leccio è un albero di media grandezza dalla chioma verde scuro assai fitta, una corteccia quasi nera, dalla ricca produzione di ghiande. 
Esso ha radici molto forti che scavano nel terreno in profondità, infatti ha un’ottima resistenza alla siccità, perché riesce a procurarsi l'umidità necessaria grazie al suo apparato radicale. 
Nell’antichità, Ovidio raccontava che le api, simbolo delle anime immortali, si posavano su questo albero, apprezzandone l’infiorescenza giallo oro. Inoltre, attirando i fulmini, si credeva che il leccio possedesse funzione oracolare. 
Plinio scriveva che sul colle Vaticano cresceva il leccio più vecchio della città con un’iscrizione su bronzo in caratteri etruschi: segno di come l’albero fosse già oggetto di venerazione. 
Un’altra leggenda giunta fino a noi racconta che, quando il Cristo fu condannato a morte, i carnefici si recarono nel bosco per prendere del legno per poter costruire la croce e il leccio solo offrì il suo legno per la Passione di Cristo. 
Il beato Egidio, compagno di san Francesco, ci dice che Gesù prediligeva il leccio, perché fu l’unico albero a capire che doveva sacrificarsi, in modo che si compisse la Redenzione.



Il simbolo del coniglietto

Uno dei simboli pasquali per eccellenza è il coniglio. Diverse sono le storie che riguardano l’origine di questa tradizione. Si narra che sia nata dai riti pre-cristiani basati sulla fertilità che vedevano nel coniglio e nella lepre, animali molto fertili, i simboli del rinnovamento della vita, rinnovamento che si ha con l’inizio della stagione di primavera. 
Un’altra leggenda vuole che sant’Ambrogio abbia indicato la lepre come simbolo di Resurrezione a causa del suo manto in grado di cambiare colore secondo le stagioni. 
Questo suo variare secondo il ritmo della natura fu collegato al concetto di rinascita e quindi a quello della Resurrezione. 
Il coniglio come simbolo pasquale fu introdotto, per la prima volta, in Germania, nel XV secolo, con la preparazione di dolcetti a forma dell’animale. Furono le stesse popolazioni europee, a seguito dei flussi migratori, a diffondere la tradizione anche in America dove il coniglietto pasquale è chiamato “Easter Bunny”.



In preparazione a questa settimana Santa scopriamo il silenzio: ascoltare in silenzio, meditare in silenzio; e allargare il cuore sul mondo, in silenzio. Cessiamo di fare chiasso, cessiamo di non sciupare e di rovinare la grazia, nel tempo in cui Dio tenta di salvarci e di salvare il mondo. 
In questi giorni la Parola di Dio si intensificherà affinché i nostri occhi non si stacchino da Gesù, ma lo seguano passo dopo passo per apprendere dai suoi gesti il suo amore per tutti noi. 
E solo guardando il suo viso sulla croce potremo incontrare i suoi occhi affranti dal dolore, ma sempre pieni di Misericordia e di affetto, che ci guarderanno come guardarono Pietro, che pure lo aveva tradito, e sentiremo nel profondo del cuore un nodo di dolore e di tenerezza assieme, e inizieremo a seguirlo con un cuore nuovo.



Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione
prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato,
del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego mai,
in silenzio,
finché tutti abbiano capito nel mio
il tuo Amore.

- Madeleine Delbrel - 



Buona giornata a tutti. :-)


domenica 9 marzo 2025

Ogni volta che l'avete fatto a me - Monaci Benedettini Silvestrini

 La Quaresima è tempo di preghiera, di silenzio e di ascesi, ma renderemo vane queste attività dello spirito se ci allontanassimo da coloro con i quali condividiamo normalmente la nostra giornata. 
La liturgia odierna ci viene incontro, ponendoci davanti al giudizio ultimo, inappellabile, nel quale saremo valutati sui nostri gesti di sensibilità nei confronti degli altri. "Avevo fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere". 
L'uomo deve imitare, nel suo comportamento verso gli altri, l'amore di Dio. Non si tratta solo di una buona opera o di qualche cosa che noi facciamo in modo eccezionale. 
Il discorso di Gesù è molto più ampio. Sullo sfondo c'è il Regno di Dio verso il quale la storia cammina... la nostra storia sacra. 
Il Cristo da amare e servire lo incontriamo nel fatto concreto, quotidiano, così come si presenta, non in modo accomodato, non altrove. Da quando è divenuto uomo, si è fatto nostro fratello, uomo come noi e bisognoso come noi, non c'è altro modo di raggiungerlo e di amarlo. "Ogni volta che avete fatto queste cose ai miei fratelli, l'avete fatto a me". 
Il nostro agire raggiunge una valenza religiosa, di santità non per quello che facciamo, ma per volere di Cristo che accoglie per sé i nostri poveri gesti, compiuti nel servizio fraterno. Non ci sfugga la magnanimità di Dio per tutti gli uomini, sue creature. In confronto che cos'è l'opera delle nostre mani? Eppure chi agisce da lode a Dio e chi riceve l'ottiene dalla Provvidenza divina, che ha mosso per mezzo dello Spirito all'atto caritatevole. 
Allora bisogna credere che il problema di chi ci vive accanto, a cui possiamo portare rimedio con l'amore, anche con un semplice "bicchiere d'acqua fresca", è il segreto della storia umana.

- Monaci Benedettini Silvestrini -



...Per intraprendere seriamente il cammino verso la Pasqua e prepararci a celebrare la Risurrezione del Signore - la festa più gioiosa e solenne di tutto l’Anno liturgico - che cosa può esserci di più adatto che lasciarci condurre dalla Parola di Dio? 
Per questo la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni, nella prospettiva di ricevere il Sacramento della rinascita, per chi è battezzato, in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui...

- Papa Benedetto  XVI - 
dal "Messaggio per la Quaresima 2011" 




La Quaresima è come un lungo "ritiro", durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire", di "agonismo" spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. 

- Papa Benedetto XVI – 

Angelus 21 Febbraio 2010




Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete

Che io sappia
di essere piccolo come Zaccheo,
Signore Gesù,
- piccolo di statura morale -
ma dammi un po' di fantasia
per trovare il modo
di alzarmi un poco da terra
spinto dal desiderio di vederti passare,
di conoscerti e di sapere chi sei tu per me.
Signore Gesù,
fa' che io mi riconosca
nel primo dei pubblicani, dei peccatori,
quanto al disonesto accumulare
tante cose di mio gusto,
tante false sicurezze;
fa' che io mi riconosca fra i pubblicani,
ma mettimi in cuore una sana inquietudine,
almeno un po' di curiosità
per cercare te!
Signore Gesù,
so che devi passare dalle mie parti,
dove sono io,
tu devi passare di qui: sei venuto apposta!
Ti prego, fammi trovare un albero,
fammi trovare qualcuno
che io ritenga più alto,
migliore di me,
per valermi della sua statura
e cercare di vedere te,
soprattutto per farmi vedere da te,
e sentirmi da te chiamare per nome.
Che stupore!
Come mi conosci? Chi ti ha parlato di me?
Signore Gesù, ti prego, dimmi che oggi
ti vuoi fermare da me in casa mia,
come ospite, come amico che non parte più.
Vieni, Signore Gesù,
a riempire di gioia la mia vita
liberandomi dal peso ingombrante
di ciò che sono
e di ciò che possiedo da solo.
Sì, soprattutto liberandomi
dal peso ingombrante
di ciò che sono - o che ritengo di essere -
e di ciò che egoisticamente possiedo.
Vieni a darmi l'entusiasmo di essere povero
nel cuore e ricco soltanto di te.
Io sono sicuro che mi ascolti,
perché sei già venuto a cercarmi,
e mi hai trovato come tesoro che era perduto;
mi hai riacquistato a prezzo di te stesso...
Tu per me hai fatto questo,
per me che nemmeno ti conoscevo.
Sono piccolo, meschino.
Signore Gesù, pastore grande, pastore buono,
sollevami sulle tue spalle per farmi vedere
anche il volto del Padre.
Che io sappia innalzarmi
soltanto facendomi sollevare da te
che per questo sei venuto:
per i piccoli che ti desiderano
e che ti protendono le braccia
per farsi sollevare da te
fino al cuore dell'eterno Padre
da cui sei venuto a rivelare l'infinito amore.
Allora ogni giorno vivrò con gioia
Il mio incontro con te
- la mia Pasqua - e sarò un continuo grazie,
un "amen-alleluia" senza fine.

Madre Anna Maria Cànopi, Sergio Stevan
Oggi vengo a casa tua, Milano, Paoline, 2000, pagg.8-10


Buona giornata a tutti. :-)





giovedì 28 marzo 2024

Le sette parole di Gesù in Croce – Madre Anna Maria Cànopi

 «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»

Dopo aver detto, con lacrime e sudore di sangue, il suo sì filiale al Padre, Gesù acquista forza ed è pronto ad affrontare la Passione tacendo davanti alla menzogna e all’umiliazione, deciso a portare a compimento la sua missione salvifica. 
Condannato a morte senza un regolare processo, si avvia, portando la croce, verso il Calvario. 
Durante la faticosa salita, egli è il buon Pastore che porta sulle sue spalle non tanto una croce di legno quanto l’umanità, ossia la pecorella smarrita che è venuto a cercare per riportarla nell’ovile del Padre sulle proprie spalle. Siamo dunque noi la sua vera croce. 
Il Calvario, luogo della più ingiusta esecuzione capitale, in forza di questo «più grande» amore, spinto fino all’estremo dono di sé, si trasforma nel monte del sacrificio redentore, nel monte dell’intercessione e del perdono. 
Colui che durante il processo «non aprì la sua bocca» e, spogliato delle sue vesti, si rivestì di sacro silenzio – «Jesus autem tacebat», dice l’evangelista Matteo usando qui l’imperfetto a sottolinearne la profondità e la durata – ora che è reso del tutto impotente ed è là sospeso tra cielo e terra, inchiodato e senza alcuna difesa, in una disfatta che sembra totale, ora egli parla. 
E la prima parola che udiamo da lui sulla croce è perdono, vale a dire «per-dono», dono al superlativo, dono di quell’amore che l’ha spinto lì: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». 
Commenta l’abate Elredo di Rievaulx: «'Padre', dice, 'perdonali'. Che cosa si poteva aggiungere di dolcezza, di carità a una siffatta preghiera? Tuttavia egli aggiunse qualcosa. Gli sembrò poco pregare, volle anche scusare. 'Padre, disse, perdona loro perché non sanno quello che fanno'. E invero sono grandi peccatori, ma poveri conoscitori. Perciò: 'Padre, perdonali'.
Crocifiggono, ma non sanno chi crocifiggono, perché 'se l’avessero conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria' (cfr.1Cor 2,8); perciò: 'Padre, perdonali'. 
Lo ritengono un trasgressore della legge, un presuntuoso che si fa Dio, lo stimano un seduttore del popolo. 'Ma io ho nascosto loro il mio volto, non riconobbero la mia maestà'. Perciò: 'Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno'» 
( Specchio della carità III,5).


«Oggi sarai con me nel Paradiso» 

Sull’alto monte del Calvario, quasi alberi nudi contro il cielo primaverile, si stagliano tre croci.
La tradizione artistica, con giusta intuizione, ha sempre voluto che quella posta al centro fosse più alta; su di essa si impone all’attenzione una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Gesù è là, inchiodato alla croce tra due malfattori, provocato e deriso dai capi e dai soldati, abbandonato dai discepoli, guardato da lontano dalla folla che prima l’aveva seguito, ascoltato e osannato per le sue parole e i suoi miracoli: ecco ora il più inconcepibile scandalo dell’impotenza.

Un «re da burla» che non si difende e che non è difeso da nessuno, nemmeno con una parola… 
È una condizione estremamente umiliante, ma è la vera via regale scelta da Cristo per sé e da lui proposta ai suoi discepoli: «Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» ( Gv 12,26). E ancora: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» ( Mt 11,29).
Soltanto la fede ci fa intuire che in tale stato di povertà e di umiliazione, di spogliazione e di morte è nascosto un grande mistero di grazia, una realtà bella e desiderabile. 
Fu questa la fede del «buon ladrone» che, solo, riconobbe nel suo compagno di sventura un vero re, un re paziente, che pativa ingiustamente misconoscimento e ingratitudine da parte di coloro – noi tutti – che egli non si vergognava di chiamare fratelli. 
E per quella sua fede il ladro ebbe il coraggio, in mezzo alle bestemmie e alle parole irrisorie, di chiamarlo per nome, di riconoscerlo «salvatore» e di rivolgergli un’umile preghiera di supplica: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno», rubando così all’ultimo istante il passaporto per entrare nel più bello di tutti i regni e ricevere in eredità una ricchezza incalcolabile. 
Ebbe, infatti, la grazia di sentirsi dire: «Oggi con me sarai nel paradiso» ( Lc 23,43). Il ladrone entra con il Re nel regno della gloria! Così il Cristo esercita la sua regale autorità. Nell’umiltà del suo amore egli arriva all’estremo sacrificio per dare all’uomo la libertà, la salvezza, la vita nel suo regno glorioso.
Un inno della Liturgia delle Ore così ci fa cantare: «Egli non con stragi, con violenza e terrore ha soggiogato i regni: sollevato sull’alto della croce, tutto ha tratto a sé con forza d’amore».


«Donna, ecco tuo figlio!... Ecco tua madre!»

Tutto il tumulto della più tragica giornata della storia sembra ora placarsi. Sulla vetta del Golgota verso sera spiccano soltanto tre persone, tre esili figure: Gesù agonizzante, la Madre e Giovanni, il discepolo dal cuore vergine, capace di amare con totalità di dedizione, senza paura di morirne. 
Come Maria. 
E si distinguono ormai soltanto alcune brevi parole: brevi ma intense, essenziali, cariche di potenza creatrice, perché cariche d’amore: «Donna, ecco tuo figlio!… Ecco tua madre!». La consegna della Madre al discepolo è il supremo testamento d’amore lasciatoci da Gesù. 
Nelle tenebre del Venerdì Santo una luce rifulge; in un raccapricciante scenario di morte avviene un mirabile atto creativo. Maria rappresenta qui la nuova Eva dalla quale nasce una prole nuova: la stirpe dei figli di Dio. 
Donna, ecco tuo figlio!
Mentre sta presso la croce e consuma nel cuore l’immenso dolore della Passione del Figlio, dal Figlio stesso Maria è investita di una maternità spirituale e universale che la rende davvero grande più di ogni altra creatura. Diventa madre di tutta l’umanità, perché – come dice sant’Agostino – Gesù, in forza del suo amore, essendo unico presso il Padre non ha voluto rimanere solo (cfr. Discorsi, 194,3). 
Ecco tua madre! Quale pegno e quale responsabilità! 
Giovanni la prende con sé per riceverne le cure quale figlio, ma anche per averne cura come di una madre cui è dovuto immenso amore, profonda riverenza e devozione. Da questo momento Maria è la Madre della Chiesa; è la nostra Madre nella misura in cui noi instauriamo con Gesù una relazione vitale, prendendo parte al suo mistero di redenzione come membra del suo stesso corpo. La nostra vita ha quindi le sue radici nella croce di Gesù, nella stabilità di Maria, nella fedeltà di Giovanni. Siamo nati là, in quell’ora, dal cuore trafitto di Cristo e siamo stati affidati da lui al cuore della Madre. 
Così siamo nati quali figli di Dio e siamo nati anche come Chiesa; perciò siamo nati anche come madri, perché Maria è Madre e Figlia della Chiesa, com’è Madre e Figlia del suo Figlio.
Affidati a lei, riceviamo a nostra volta in lei e da lei la santa Chiesa; la riceviamo come Madre da amare, da onorare; la riceviamo per darle ascolto, per obbedire ai suoi suggerimenti, per camminare con la sua guida nella via della luce quali veri figli di Dio.


«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»

Dopo aver pronunziato il suo «testamento spirituale» e aver consegnato la Madre al discepolo amato, Gesù è ora totalmente spoglio di ogni divina e umana ricchezza; il Figlio di Dio, ridotto all’estrema povertà, grida tutta la sua desolazione e l’angoscia di uomo che sperimenta la dolorosa assenza di ogni sostegno vissuta come assenza di Dio stesso, come stato di abbandono totale: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». 
Il grido lacerante dell’Uomo-Dio attraversa le nostre tenebre; è l’ora culminante dell’agonia in cui il Cristo assume veramente tutta la desolazione, l’angoscia, la paura, il terrore della morte che abitano nel cuore dell’uomo. Con forti grida e lacrime – dice la Lettera agli Ebrei (cfr. 5,7) – Gesù pregò colui che poteva liberarlo da morte. 
Il pianto di tutto il dolore delle generazioni umane passa attraverso il cuore di Cristo, sale dalla terra, penetra nei cieli e ferisce il cuore del Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». «Dio non può averlo abbandonato – spiega sant’Agostino – perché lui stesso è Dio». Eppure il Cristo prova questo abbandono, vive questa estrema desolazione, cade in questo abisso dove le tenebre sono assolute. 
È un mistero. Al grido straziante del Figlio, dell’uomo, Dio non si fa sentire, non interviene. E tuttavia non è un Dio assente; è un Padre che, per folle amore, immola il Figlio della sua compiacenza per i « figli dell’ira»; nel Figlio del suo amore egli immola il proprio cuore, che, tutto donato, diventa puro silenzio. Ma in quel silenzio c’è la più alta risposta, la più sofferta «com-passione». È un’ora buia; è l’ora più buia della storia, ma è anche il grembo del nuovo giorno, per la nascita di un mondo nuovo, per il sorgere di una nuova luce. 
Il lamento di Cristo, infatti, è l’inizio del Salmo 22, che, apertosi con tale lancinante grido di angoscia, si conclude poi – come la stessa Passione – con una consegna fiduciosa, con una parola piena di speranza: «E io vivrò per lui (per Dio), lo servirà la mia discendenza» (vv. 30-31). 
Proprio quest’Uomo che muore avrà una lunga discendenza. L’ora in cui Colui che è la Vita si consegna alla morte è dunque l’ora della massima fecondità: generazione a prezzo della morte. 
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio si fece buio sulla terra… 
Questo è uno spazio di tempo nella giornata, in ogni giornata, che noi dovremmo sempre trascorrere sotto la croce, poiché quell’ora non si è chiusa, ma perdura e abbraccia tutta la nostra esistenza. 
Noi siamo ancora contemporanei all’agonia di Gesù, sempre presenti all’ora della sua suprema offerta. 



«Ho sete» 

Dopo il grido di dolore rivolto al Padre e dopo aver affidato la Madre al discepolo Giovanni, Gesù esprime con un soffio di voce un’umile domanda da mendicante, una domanda che tante volte affiora sulle labbra riarse dei morenti: «Ho sete». 
Il gesto di chi, imbevuta una spugna di aceto, gliela porge è, in mezzo a tante atrocità, un segno di umana compassione, compiuto per alleviare le sofferenze dell’agonizzante. Ma la sete di Gesù non può trovare sollievo soltanto in questo, perché è una sete soprattutto spirituale che lo ha accompagnato lungo tutta la sua esistenza terrena. 
È sete di amore. Già all’inizio della sua missione pubblica, sedutosi, affaticato, presso il pozzo di Sicar, aveva chiesto alla donna samaritana: «Dammi da bere!»; e l’aveva poi lui stesso dissetata rivelandosi come Colui che doveva venire a salvarci. 
Di che cosa, infatti, ha sete Gesù se non di noi, della nostra salvezza, della nostra fede, del nostro amore? La beata Teresa di Calcutta commentava queste ultime parole di Gesù, dicendo: «Ho sete: queste parole di Gesù non riguardano solo il passato, ma sono vive qui e ora, dette a noi... Finché non comprendiamo nel profondo del nostro essere che Gesù ha sete di noi, non potremo cominciare a conoscere quello che egli vuole essere per noi, e ciò che egli vuole che noi siamo per lui». 
La sete di Gesù è dunque una sete divina; ma è pure un bisogno della sua umanità che si mette nella nostra situazione di desolata povertà, di estrema debolezza per condividerla. Scopriamo questa «sete» di Gesù anche prima, nell’orto del Getsemani, quando, quasi come bambino impaurito, egli si rivolge ai tre discepoli prescelti con parole di toccante umanità: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate» ( Mc 14,34); sente il bisogno di non essere lasciato solo. Ed è sempre nel Getsemani che, rivolgendosi al Padre, dice ancora: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» ( Mt 26,39). 
La sete di Gesù è sete di compiere la volontà del Padre, è desiderio della nostra salvezza… Egli ci ama e ha sete dell’amore di ognuno di noi, perché ciascuno di noi conta per lui più di tutto il mondo. 
Perciò, se noi non ricambiamo il suo amore, egli rimane assetato e continua a cercarci. Ma come possiamo ricambiare l’amore se, a causa del peccato, siamo incapaci di amare? 
Gesù stesso, morendo riarso dalla sete, diventa la sorgente inesauribile dell’acqua viva, poiché dal suo cuore trafitto sgorgano sangue e acqua. Da questa sorgente possiamo attingere l’amore e la sovrabbondanza della Vita. 
L’ora della crocifissione e della morte di Cristo è quindi l’ora del trionfo dell’Amore e della sua massima fecondità. 
Nella misura in cui beviamo a questa sorgente, veniamo dissetati e anche dal nostro cuore zampilla una sorgente d’acqua viva offerta a tutti gli assetati di Dio, del Dio che è inesauribile Amore.


«Tutto è compiuto!» 

Le braccia distese sul legno, le mani inchiodate, Gesù è fisicamente del tutto impotente, agli occhi di tutti appare uno sconfitto. Ma le vie di Dio non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri… 
In realtà, questa è proprio l’ora che egli ha ardentemente desiderato, e alla quale si è preparato come all’ora culmine, all’ora della pienezza, in cui – superate tutte le tentazioni e le insidie – poter dire al Padre: «Consummatum est, tutto è compiuto, la missione affidatami è stata portata a compimento secondo il tuo volere». 
La preghiera di Gesù per noi ha raggiunto il suo culmine nell’offerta che egli ha fatto di se stesso al Padre nell’ora della croce, nel grido: «Tutto è compiuto» ( Gv 19,30). «Tutte le angosce dell’umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato.
Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo.
Così si compie e si consuma l’evento della preghiera nell’Economia della creazione e della salvezza...» 
(Catechismo della Chiesa cattolica, n. 26069
Tutto è compiuto. Tutto è avvenuto secondo le profezie, tutto è avvenuto secondo il disegno del Padre. L’ora dell’offerta iniziata con la nascita di Gesù a Betlemme si compie sul Calvario: là era nato nella estrema povertà, qui muore nell’estrema spogliazione e umiliazione. 
È la scelta di Dio, è la scelta dell’Amore che, volendo ricuperare i miseri, si fa Misericordia, si abbassa, si svuota di se stesso per riversarsi in noi come sorgente di vita. 
Tutto è compiuto: è questo «l’istante immobile»; il tempo si ferma, l’ora batte sul cuore di Gesù e si riparte da zero. 
È l’ora zero della storia, l’ora in cui comincia il Giorno nuovo, il tempo nuovo, tempo della salvezza e della grazia. Tutto il dolore della Passione sembra ora acquietarsi, come la terra che, dopo aver accolto il seme nel solco, attende nella pace che esso germogli. È l’ora del «grande silenzio». 
È l’ora in cui, come discepoli di Cristo, più nulla possiamo fare, nulla dire, ma solo «rimanere nel suo amore», rimanere in preghiera presso di lui, inchiodati alla croce insieme con Maria, la Madre, formando un’unica grande supplica che, passando attraverso il cuore trafitto del Cristo, si versa nel seno del «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione» ( 2Cor 1,3). 
A quest’ora della Passione di Gesù si può riferire quanto diceva il poeta Claudel: il dolore è come una mandorla amara che si getta sul ciglio della strada; ripassando per la medesima via, vi troviamo un mandorlo in fiore.


«Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito»

Quando tutto è compiuto, quando il sacrificio di amore è pienamente consumato, quando non c’è più un «oltre» nell’offerta e nel dolore, ecco l’ultimissima parola di Gesù: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Grido di fiducia erompente dal cuore di un Povero che, percosso, disprezzato, senza via di salvezza umana, si rifugia in Dio, getta in lui ogni suo affanno. 
E in questa totale consegna di sé trova la pienezza della pace, si ritrova figlio. La Passione di Gesù non si conclude con un «perché» rivolto a un Dio sentito lontano, assente, ma con un atto di abbandono filiale: «Nelle tue mani consegno il mio spirito». 
Gesù spira riconsegnandosi alle mani del Padre, a cui aveva sempre obbedito, la cui volontà era stata tutto il suo desiderio, la sua unica gioia. 
Per questo la sua agonia è come una notte che sfocia nell’alba della risurrezione. 
Dalla cattedra della Croce, il Giusto, che si è caricato di tutte le nostre sofferenze perché ha preso su di sé tutte le nostre colpe, ci insegna a sperare contro ogni speranza, a sentire che le mani di Dio sono più forti di qualsiasi mano potente degli uomini, più forti di ogni tentazione che possa sopraggiungere e abbattersi su di noi. 
Perciò anche quando la prova è dura, terribile e angosciosa, noi dobbiamo gridare: nelle tue mani, Signore, sono al sicuro. Tuttavia, il grido di Gesù esprime pure lo sgomento di un figlio che sa di dover ancora compiere un viaggio nell’oscurità per poter ritornare a casa. 
Dopo la sua consegna, infatti, il Verbo della vita, Colui che il Padre ha mandato a parlare direttamente all’umanità per rivelarle il suo amore, si immerge nel silenzio della morte. E con il calar della sera, dopo gli ultimi atti compiuti dall’umana pietà, un profondo silenzio avvolge anche il monte delle croci e penetra nei cuori. 
Noi, che siamo entrati con Gesù in quest’ora, crediamo davvero che solo apparentemente le tenebre stanno prevalendo, poiché in esse già si fa strada la luce? 
Noi, che conosciamo la morsa dell’angoscia, crediamo che nel grido di Gesù morente si fa strada la speranza della Vita? 
Noi, che pure facciamo l’esperienza del turbamento per tanti sconvolgimenti che avvengono nel mondo, ne sappiamo trarre motivo di pentimento per convertirci a una più grande fede e soprattutto a un più grande amore? 
Mentre il velo del tempio dell’antica Legge si squarcia, che cosa avviene in noi? Se viviamo davvero il mistero della Croce, si può finalmente squarciare il nostro vecchio mondo, il nostro vecchio uomo, il velo della nostra sufficienza; si può spaccare la roccia del nostro cuore per lasciar scaturire da essa una sorgente d’acqua viva. Presi da santo timore, allora gridiamo con il centurione: «Costui è veramente il Figlio di Dio!»; poi, insieme con le pie donne, continuiamo a sostare presso la croce e presso il sepolcro, sicuri che Gesù, caduto nel silenzio della morte, non è perduto per noi, perché l’Amore è il più forte e ha vinto.

- Madre Anna Maria Cànopi -
da: "Le sette parole di Gesù in croce. Meditazione e preghiera" ed. Paoline

un po di biografia: http://leggoerifletto.blogspot.it/2010/08/madre-anna-maria-canopi-biografia.html






Buona giornata a tutti. :-)

mercoledì 14 febbraio 2024

Riflessioni sul Mercoledì delle ceneri

 


Mercoledì delle ceneri è l'inizio di un cammino in cui io mi prendo sul serio e decido di uscire dalla mediocrità, da quello stare a mezza strada, né santo né peccatore, né caldo e né freddo... e questo non per paura di Dio, nel modo più assoluto, ma per amore di Dio e per amore della mia vita, perché Dio è buono. Se io gli sto lontano è a me che faccio male, e insieme con me anche tutti quelli che mi sono vicini. Il segno è quello delle ceneri, che ovviamente non hanno un potere magico ma sono il segno esteriore di una consapevolezza: c'è qualcosa che è cenere e Qualcuno che invece è vita eterna. 
Le frasi che il messale suggerisce per l'imposizione delle ceneri sono due: la più gettonata "convertiti e credi al Vangelo" e la più tremenda "polvere sei e polvere tornerai". 
In realtà sono le due facce della stessa medaglia: io, sempre io, quello che sento, quello che provo, quello che mi emoziona, quello che temo e desidero... ecco tutto questo è la polvere! Addirittura? Penso proprio di sì: è polvere e cenere, cose che un colpo di vento spazza via e non rimane niente, se mi ostino a riempire la vita di queste cose, di polvere si riempie la mia vita (ricordate "vanità delle vanità"?). Per questo "convèrtiti (= riorientati, rivolgiti a, fissa lo sguardo su) e credi al Vangelo di Dio": tu sei figlio suo e Lui, immeritatamente e altrettanto immensamente, ti vuole bene, senza se e senza ma. Questo è il segno delle ceneri.

da: www.omelie.org



La teologia biblica rivela un duplice significato dell’uso delle ceneri: 

1 – Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell’uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere…” (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: “Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere” (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell’uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).

2 – Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: “I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere” (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: “Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore” (Gdt 4,11).

da: www.omelie.org


Nel rito ambrosiano, in cui la quaresima è posticipata di quattro giorni e inizia la domenica immediatamente successiva (e in cui pertanto il carnevale termina con il "sabato grasso"), l'imposizione delle ceneri avviene o in quella stessa prima domenica di quaresima oppure, preferibilmente, il lunedì seguente. 
Il giorno di digiuno e astinenza viene invece posticipato al primo venerdì di quaresima.
Mentre la tradizione popolare meneghina fa risalire il proprio carnevale prolungato, o "carnevalone", a un "ritardo" annunciato dal vescovo di Milano sant'Ambrogio, impegnato in un pellegrinaggio, nel tornare in città per celebrare i riti quaresimali, in realtà la diversa datazione della festa mobile delle Ceneri dipende da un consolidato e più antico computo cronologico dei quaranta giorni della quaresima, conservato peraltro anche nel rito bizantino.



Siamo sulla piazza di un paese del Nord, brulicante di figure come spesso accade nelle tele dei fiamminghi. La scena è di fatto divisa a metà. A sinistra di chi guarda c’è il Carnevale, un uomo grasso, a cavalcioni di un barile, con in mano uno spiedo coi polli infilzati; dietro di lui si nota una tavola imbandita; a terra sono resti di cibo.
Il grassone (immagine a lato) viene spinto da due personaggi in maschera diritto contro una figura femminile magra, rifinita, che fronteggia lo spiedo del rivale con una pala, tenuta a mo’ di lancia, sulla quale sono due aringhe. 
È la Quaresima, su un carro trainato da un frate e da una monaca. 
A sinistra si vede un’osteria, a destra una chiesa. 
I seguaci del Carnevale mangiano, recitano, suonano; quelli della Quaresima sono tristi, vestiti di scuro, votati al sacrificio, soffrono. 
Al centro della scena un buffone guida una coppia di spalle: lei porta legata in vita una lanterna spenta. I critici suggeriscono che nella coppia si visualizzi la condizione del credo cristiano, sia cattolico (la Quaresima), sia luterano (il Carnevale).
In tutto il quadro sono sparsi poveri mendicanti, nell’indifferenza generale. 
E sono forse le figure più vere. In basso a destra una madre riceve l’elemosina da un uomo uscito di chiesa: è vestito di rosso e di azzurro. 
Quell’abito simboleggia il peccato di chi compie ipocritamente un atto di carità, davanti a tutti, per sentirsi a posto.



Pieter Bruegel il Vecchio, La battaglia fra il Carnevale e la Quaresima, 1559
(Kunsthistorisches Museum di Vienna).

Ci ottenga, la Vergine Santissima, la grazia di fidarci di Cristo, per proseguire con gioia il cammino quaresimale e rivedere sinceramente la nostra vita alla luce del Vangelo.

- San Giovanni Paolo II, papa - 


Buona giornata a tutti. :-)