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venerdì 22 dicembre 2023

Il quarto Re Magio - Henry van Dyke

I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.

Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire per Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Re e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s'inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada.

Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l'infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo aprì gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è lì che deve nascere il Messia, che tu vai cercando».

Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell'undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso 10 giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «T'abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto».

Artibano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto.

Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l'oro, l'incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un'altra via.

Il villaggio pareva deserto: gli uomini erano nei campi e i ragazzi al pascolo delle greggi. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall'Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l'avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto.

Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell'Egitto. Egli sperava di raggiungere la Sacra Famiglia nelle oasi del deserto, sotto le palme o i sicomori, ma invano. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menfi; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all'ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla.

Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poterli trovare. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi».

A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l'ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua.

La città santa brulicava di gente, venuta dalle terre più lontane alla festa del Tempio. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un'agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c'è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei».

Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù, nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?».

Così il buon vecchio seguì la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana, riconosciutolo dal costume per suo connazionale, gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà».

Il vecchio, non possedendo che un'unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto.

Improvvisamente si udì un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case si spalancano e crollano; nuvole di polvere riempiono l'aria; soldati e popolo fuggono terrorizzati.

Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime.

La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non così o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!».

Artibano cessò di parlare. Ma un'altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l'hai fatto a me». Un grande respiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi. Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.

- Henry van Dyke - 

The Story of the Other Wise Man


Maria come fiocco di neve


Maria,
buona madre,
come fiocco di neve,
hai viaggiato tutta la notte,
cercando un'improbabile alloggio,
proprio tu che sentivi
il Cristo muoversi in te.
Nell'aria della sera ho sentito
il tuo profumo,
nello zaino la tua fatica,
nello sguardo dei miei anni,
la tua dolcezza.
Le tue mani affaticate,
hanno sorretto le mie pene,
il tuo cuore,
è stato pieno della mia ansia.
Ti ringrazio, Maria,
perché mi hai fatto gustare
il piacere delle piccole cose,
della neve fresca
che si sgretolava sotto i miei piedi,
della gelida carezza del vento,
del fuoco che si è fuso con la mia anima.
Ti ringrazio, perché mi hai dato
qualcuno con cui parlare,
qualcuno a cui pensare.
Ti ringrazio, per le gioie,
ma ancor più per i dolori,
per le speranze,
ancor più per le delusioni,
la sete, la fame,
il freddo, la stanchezza.
Ti dono tutti i momenti
di dolce struggimento
passati davanti ad un fuoco
e le lacrime penose
della mia anima.
Ti ringrazio perché
negli altri
ho ritrovato Dio.

Angelo, Rover di 19 anni


Buona giornata a tutti :-)


www.leggoerifletto.it


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martedì 25 aprile 2023

L'eroismo di Gordio - Dagli Acta Sanctorum

Gordio era un valoroso centurione delle legioni romane. Apparteneva a una nobile famiglia di Palestina, che in segreto, per timore delle persecuzioni, si era convertita al cristianesimo.

I suoi genitori avevano tentato di instillargli l'amore per il Vangelo e avrebbero preferito si dedicasse agli studi, ma lo sfrenato desiderio di onori e vittorie aveva prevalso nel suo cuore su ogni altra aspirazione.

Aveva scelto la vita militare e la sua spiccata intelligenza gli aveva fruttato una fulminea carriera.

Gordio, dopo essersi distinto per il proprio coraggio e le virtù di stratega, aveva raggiunto tutto ciò che desiderava: era onorato dai propri legionari, possedeva terre, schiavi e ricchezze, e aveva anche conosciuto l'amore. Eppure, nonostante le gioie e i privilegi di cui poteva godere, il giovane centurione era tormentato da un'ansia inestinguibile e da un profondo turbamento.

L'insoddisfazione per quella vita agiata generava nella sua anima un perenne conflitto di desideri e sentimenti.

Cominciò a viaggiare. Abbandonò la vita familiare, i lussi, i doveri dell'esercito, e intraprese una vita errabonda. Era certo che la meraviglia di luoghi sconosciuti avrebbe incantato la sua anima e spento le sue ansie interiori. Era sicuro di trovare ciò che cercava, anche se non sapeva ancora che cosa fosse. Viaggiò e viaggiò. Visitò città e paesi, superò montagne, colline e deserti, attraversò fiumi e laghi e navigò per mare per lunghi anni. Ammirò terre lussureggianti. Si lasciò stupire da altri mondi e da altri popoli. Conobbe nuove lingue e nuove culture. Imparò moltissimo dai suoi viaggi. Ma al termine di ogni avventura, raggiunta la mèta che si era prefisso, veniva assalito da un acuto struggimento dell'anima e quell'ansia inestinguibile che gli toglieva il respiro tornava a farsi sentire. Allora, ripartiva verso un nuovo itinerario e una nuova destinazione.

Finché un giorno non incontrò un anziano monaco che viveva con alcuni compagni nel deserto di Qumran. Il monaco lo accolse nella sua comunità, lo rifocillò e si fece raccontare la sua storia.

Dopo qualche giorno, il monaco propose a Gordio di fermarsi per qualche tempo nel deserto, per condurre insieme agli altri monaci la vita povera e contemplativa del monastero.

Gordio accettò. Era stanco di viaggiare e aveva perso le speranze di trovare un briciolo di pace per il proprio cuore.

In quei giorni, riascoltò le parabole evangeliche che nella preghiera venivano lette dai monaci. Le aveva sentite raccontare tante volte dalla flebile voce della propria giovane madre, ma era come se le udisse per la prima volta. Erano come una musica che scendeva nell'anima e restituiva vigore al corpo. Erano come una pioggia fresca sull'arsura insopportabile che gli ardeva nel petto.

Gordio divenne monaco del deserto.

Ogni anno, si celebrava a Cesarea di Palestina una grande festa in onore di Marte, con giochi pubblici e spettacoli nell'anfiteatro. Quell'anno, sarebbe stato presente anche l'imperatore.

Il giorno dell'inaugurazione, tutto il popolo era radunato nello stadio. Nessuno mancava. C'erano giudei e gentili, greci e latini, uomini e donne, giovani e vecchi, soldati e laici. Una folla immensa sedeva scomposta sui gradini marmorei della cavea, in attesa dello spettacolo straordinario che stava per cominciare di lì a poco. Una corsa di cavalli guidati dai più esperti aurighi di Palestina avrebbe dato inizio alle gare.

Ed ecco che, proprio in quel momento di febbrile attesa, apparve Gordio, uscito dalla sua solitudine. Facendosi largo tra la folla, ruvido, la barba incolta, i capelli lunghi, il viso torrefatto dal sole, vestito di pelle caprina, avanzava con passo deciso al centro dell'arena, dove era stato eretto un podio.

Salì su quel palco e con voce alta e sicura si rivolse al pubblico presente: «Sono venuto dal deserto per confessare la mia fede di cristiano, per condannare il culto degli dei bugiardi. Non temo le vostre minacce e non indietreggerò di fronte alla ferocia dei carnefici, se sarà necessario. Quanto più essi saranno crudeli verso di me, tanto maggiore sarà il premio che avrò nel cielo».

Queste parole coraggiose fecero scendere un silenzio assoluto nell'arena. Cessò il rumore dei carri. Si zittì il nitrire dei cavalli. Tacquero le grida degli aurighi e gli accordi di prova degli strumenti musicali. Tutti si alzavano in piedi per vedere quel pezzente, così strano e intrepido, che si proclamava cristiano.

Per ordine del prefetto, Gordio fu interrogato davanti a tutti.

Conosciuta la sua origine nobile, la sua fama e il suo grado di centurione romano, si volle sapere perché aveva abbandonato la carriera militare, le ricchezze e la famiglia.

«Nella mia vita sono stato amato dalle donne e dai miei legionari, ho posseduto terre, schiavi e ricchezze, ma le gioie di questa vita non mi hanno reso un uomo felice. Sono partito in cerca di qualcosa che potesse dare un po' di quiete e di serenità al mio cuore sconvolto, ma dopo aver a lungo viaggiato, non ho trovato il bene prezioso che cercavo. Quando mi sono fermato, ho compreso che nessuno affronta un viaggio tanto lungo e ardimentoso come colui che intraprende il pellegrinaggio all'interno del proprio cuore. Il mio cuore ora è a servizio di un altro Imperatore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e per Lui sono disposto anche a morire, pur di annunciare a tutti il bene prezioso che mi ha elargito.»

Sdegno, proteste e insulti si levarono da ogni parte del pubblico, i giudei presenti si stracciarono le vesti.

Alla presenza dell'imperatore, il prefetto condannò Gordio per direttissima alla decapitazione nello stesso anfiteatro.

Gordio, con il volto radioso e il passo risoluto, si avvicinò ai carnefici, ma nell'istante in cui la sua testa cadde tagliata di netto dalla mannaia, scoppiò in cielo un tuono violentissimo e una tempesta spaventosa obbligò gli spettatori ad abbandonare l'anfiteatro.

La pioggia cadde per sette giorni e sette notti riducendo l'arena a un pantano melmoso. L'imperatore fu costretto a ripartire. Quell'anno i giochi di Marte non furono disputati.

Dagli Acta Sanctorum 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 



25 aprile 

Forse non farò
cose importanti,
ma la storia
è fatta di piccoli gesti anonimi,
forse domani morirò,
magari prima
di quel tedesco,
ma tutte le cose che farò
prima di morire
e la mia morte stessa
saranno pezzetti di storia,
e tutti i pensieri
che sto facendo adesso
influiscono
sulla mia storia di domani,
sulla storia di domani
del genere umano
.

- Italo Calvino - 


Buona giornata a tutti :-)






domenica 16 aprile 2023

Pietro e il mago

San Pietro era per temperamento un uomo focoso e, detto fra noi, anche un po' irascibile ma, proprio per queste sue caratteristiche, dinamismo e iniziativa non gli facevano certo difetto.

Quest'apostolo di Gesù si distinse in ogni occasione per lo spessore della sua figura che non passava mai inosservata, anzi il più delle volte dove c'era Pietro c'era scompiglio.

Alla morte del Maestro il suo zelo si raddoppiò e si narra d'innumerevoli conversioni e miracoli da lui compiuti. Ora voglio raccontarvi di come Pietro sfidò Simone il mago e come coinvolse Satana in quest'impresa.

Simone viveva in un villaggio della Samaria dove era conosciuto come "il mago", per alcuni poteri occulti appresi nei suoi viaggi in Siria. In quelle terre lontane egli aveva studiato su antichi libri l'alchimia delle lettere e dei numeri, così come il complicato cammino delle stelle nei cieli.

Tutti avevano una gran reverenza per lui, considerandolo una sorta di essere sovrannaturale, e il timore suscitato da quel suo "sapere" misterioso aumentava l'alone di magia che lo avvolgeva.

Pietro e Simone si conobbero proprio in terra di Samaria, dove l'apostolo si era recato per portare l'insegnamento di Gesù e soprattutto per predicare ai nuovi battezzati la discesa, per suo tramite, dello Spirito Santo su di loro.

Simone, che era fortemente attratto dalla conoscenza di ogni nuova dottrina, rimase

affascinato dallo spettacolo di quell'uomo possente che, ponendo le mani sulla testa dei battezzati, invocava a gran voce il potere di questo Spirito divino. Il "mago" pensò quindi di avvicinare Pietro e offrirgli del denaro affinché gli insegnasse come ottenere egli stesso quella facoltà.

Potete immaginare la reazione del buon santo a quelle parole. Per prima cosa fulminò Simone già con lo sguardo, poi lo ammonì duramente con queste parole: «Come osi barattare un dono divino con del denaro? Tu non hai nessuna facoltà né volontà personale; Dio elargisce gratuitamente come, dove e quando vuole. Ora vattene e rifletti su quanto ti ho detto, perché vedo in te legami malvagi che ti porteranno soltanto del male».

Come primo incontro non prometteva affatto bene e il futuro non fece che confermare quanto questi due uomini fossero destinati a contrapporsi.

Passato del tempo dal suo incontro con Pietro, Simone si trasferì a Gerusalemme, dove ben presto acquistò grande fama di astrologo e taumaturgo, tanto da farsi chiamare "la prima verità", promettendo ai suoi seguaci addirittura l'immortalità. Si diceva in città che nulla gli fosse impossibile: sia tramutare i metalli in materia animata come dar vita a pietre e statue, sia far parlare gli animali come tramutarne la forma.

Il caso volle che anche san Pietro venne a trovarsi in quella città, cosa che subito giunse alle orecchie di Simone. Così questi fece in modo di incontrarsi con il santo, verso il quale aveva maturato in quegli anni un'avversione sempre più profonda.

Pietro non cercava il contrasto con quell'uomo, ma non era neppure disposto a inchinarsi di fronte al potere di una mente proterva e astuta. Il giorno del loro incontro a Gerusalemme finse quindi di non ricordare l'episodio di Samaria ma, conoscendo ormai l'animo di quell'uomo, già sapeva che il suo precedente atteggiamento aveva scavato fra loro un solco probabilmente incolmabile.

«Pace a voi, fratelli che amate la verità» disse l'apostolo incrociando Simone e i suoi seguaci.

«Noi non abbiamo bisogno della tua pace» rispose pronto il mago «dato che tra due che si combattono la pace nasce quando l'uno è vinto e mi sembra che noi due siamo ancora vivi e vegeti».

«Come mai la parola pace ti spaventa tanto? Le battaglie nascono dagli anfratti oscuri del male, ma dove vi sono una mente chiara e un cuore saldo là vi è la pace» gli rispose Pietro.

«Non sprecare tante parole e guarda ciò di cui sono capace». Così dicendo, Simone mise in atto alcuni dei suoi prodigiosi giochi di magia.

Gli astanti si erano fermati con il fiato sospeso chiedendosi cosa sarebbe successo. Pietro stesso, colto di sorpresa, non poté che ammirare l'abilità di quell'uomo che sapeva servirsi sia della credulità altrui sia dei segreti della natura in modo assai raffinato.

Il potere del santo andava però molto al di là di quanto Simone pensasse, per il semplice motivo che non era lui a operare ma la forza divina che lo attraversava senza trovare ostacoli, così come il vento passava sul deserto.

Pietro non ebbe quindi grandi difficoltà a contrastare il mago né a far sembrare scherzi da nulla i suoi complicati incantesimi finché, sconfitto ancora una volta,

Simone preferì ritirarsi sdegnosamente.

La voce che il vecchio cristiano aveva tenuto testa a Simone il mago fece il giro di tutta Gerusalemme, tanto che l'orgoglioso incantatore di Samaria preferì lasciare la città per trasferirsi a Roma.

Indubbiamente Simone possedeva grande fascino e sapere, egli conosceva l'arte di evocare i corpi sottili dell'uomo e di risvegliare le forze nascoste nella materia inanimata, così come conosceva i nomi e le abitazioni dei demoni, ma non aveva scoperto che ogni conoscenza umana è solo un'illusione che facilmente si frantuma di fronte al mistero di Dio.

Passò ancora del tempo durante il quale il mago stupì tutta Roma conquistando la fiducia dello stesso imperatore Nerone, mente i cristiani combattevano la loro dura battaglia nel tentativo di dar voce all'insegnamento del loro maestro.

Nella grande città della penisola italica giunse un giorno anche Pietro, portandovi la sua autorità di apostolo di Gesù, testimone diretto di fatti incredibili e depositario di insegnamenti segreti.

Il mago e il santo si trovavano di nuovo nello stesso luogo, l'uno forte nella certezza delle proprie illusioni, l'altro pronto ad accogliere ogni accadimento come pura espressione della volontà divina.

L'imperatore aveva trovato in Simone il più straordinario degli indovini, affidandosi ormai completamente a lui per il buon andamento della sua vita e per quella del popolo romano. Ogni mattina quindi il mago scrutava le sue misteriose carte invocando il nome di oscure potenze affinché vegliassero sul palazzo imperiale e sulla città.

Proprio una mattina, mentre era chino su quegli strani segni, Simone intuì la presenza di Pietro. Lo vide chiaramente rientrare nella sua vita come un turbine che scompaginava ogni cosa. Chiese allora alle carte come comportarsi ma, per la prima volta, non riuscì a leggervi alcuna risposta.

Pietro fu ben presto informato del grande potere di cui Simone il mago godeva presso l'imperatore; così, senza pensarci due volte, decise di recarsi a palazzo per smascherare colui che manipolava le ombre facendosi credere simile a Dio.

Il sant'uomo volle portare con sé l'amico Paolo, che da più tempo dimorava in città, e sapeva quindi meglio destreggiarsi tra le complicate burocrazie di palazzo. Insieme chiesero udienza e quindi, giunti al cospetto del grande Nerone, gli spiegarono il motivo della loro presenza.

Se raccontassimo una storia normale, a questo punto l'imperatore avrebbe dovuto scacciare, anzi addirittura arrestare, i due impudenti che osavano interferire nell'operato del suo prezioso indovino, ma nel nostro caso il corso degli eventi doveva prendere una strada inusuale perché così era già stato stabilito.

La curiosità s'insinuò quindi nella mente dell'imperatore, che decise di accontentare quei due "buffoni" e far chiamare il mago.

«Se, come tu affermi, attraverso le sue opere la divinità si manifesta in lui» gli disse Pietro, «allora ordinagli di svelarti quello che io penso e che rivelerò solo a te segretamente».

Dal canto suo Simone si era già preparato a quell'incontro, passando più di una notte in profonda meditazione per permettere alla sua mente di fronteggiare senza

cedimenti l'incontro con l'odiato palestinese. Aveva più volte sfogliato i testi di magia, soffermandosi a lungo sulle pagine dedicate alle invocazioni più potenti, conscio di doversi confrontare con una potenza in parte a lui sconosciuta, della quale non riusciva a decifrare l'origine.

Giunse quindi a palazzo protetto da uno scudo di forza impenetrabile che si palesava nello sguardo cupo e fiero, chinò lievemente il capo in un cenno di saluto per l'imperatore e ignorò l'uomo che lo aveva chiamato in campo.

Nerone si rivolse al mago, sicuro che presto avrebbe avuto un'ulteriore conferma della sua natura divina: «Simone, quest'uomo afferma che nessun potere sovrannaturale opera in te e che solo l'abilità di manipolare forze presenti nella tua mente ti rende capace di plasmare ciò che ti circonda. Ora io ti chiedo di dimostrare che questa non è la verità e che il Dio, per conto del quale quest'uomo afferma di parlare, nulla può contro di te».

Così dicendo, fece cenno a Pietro di avvicinarsi e di bisbigliargli all'orecchio quello che pensava. Il santo formulò allora segretamente questa strana richiesta all'imperatore: «Fammi portare tre pani d'orzo senza che nessuno veda».

La richiesta venne esaudita e un servo chiamò in disparte Pietro dandogli le pagnotte, che lui subito benedisse con un gesto veloce della mano e una breve preghiera, nascondendole poi nell'ampia manica della tunica.

L'apostolo rientrò quindi nella sala e affrontò direttamente il mago: «Dimmi tu adesso quello che ho pensato, detto e fatto».

«Dica prima Pietro quello che ho pensato io» rispose Simone.

«Quello che tu hai pensato non vi è necessità che io lo dica; basterà il mio comportamento per dimostrare che so quello che è passato nella tua mente.»

Allora Simone con voce tonante urlò quest'invocazione: «Per il potere che Dio mi concede vengano i cani e si avventino su costui, sbranandolo all'istante!».

Fra le grida generali apparvero nella sala tre enormi cani neri che ringhiando e sbavando si avventarono su Pietro. Questi fu pronto però a estrarre dalla manica i pani benedetti e a lanciarli verso le fauci delle belve che, con latrati spaventosi, fuggirono scomparendo alla vista degli astanti.

«Ecco come ho dimostrato, non con le parole ma con i fatti, di aver previsto quello che Simone aveva escogitato contro di me» disse Pietro rivolto all'imperatore che, ancora tremante per la spaventosa scena, si aggrappava ai braccioli del suo scranno.

Il mago era livido per la rabbia e l'umiliazione subita. Non voleva a nessun costo ammettere che quell'uomo, contro il quale aveva giurato vendetta, fosse realmente portatore dello Spirito Santo, così come egli predicava quel lontano giorno in Samaria.

Pensò allora di giocare la sua carta più potente rivolgendosi all'imperatore e alla folla radunatasi tutt'attorno: «Ho sempre protetto la città di Roma e il suo imperatore, ma ora voi tutti mi ripagate lasciando che questo sciocco palestinese si faccia beffe di me con qualche misero trucco. La terra non merita la mia divina presenza; quindi domani, nell'ora in cui il sole sarà allo zenit, io la lascerò salendo sulla torre più alta e volando verso il cielo, così voi mi perderete per sempre».

Quella notte Pietro fu assalito dall'angoscia più profonda: avrebbe preferito portare a Dio quell'uomo piuttosto che perderlo, ma lasciò alla divina Saggezza ogni scelta.

Da parte sua il mago non volle ascoltare i molti segni che avevano attraversato la sua vita, preferendo aggrapparsi a quello che credeva il signore supremo: Satana.

Il giorno seguente, l'imperatore e tutta la popolazione romana attesero l'ora stabilita, radunandosi sotto la più alta torre del Campidoglio. Ed ecco che d'improvviso il mago apparve proprio sulla sua cima nel preciso istante in cui il sole si trovava perpendicolarmente sopra di essa.

Abbacinati dallo splendore di quella luce, tutti guardavano verso l'uomo sulla torre, che sembrava davvero l'incarnazione di un dio sfolgorante di gloria. Simone allargò le braccia e si lasciò scivolare nell'aria come in un mare tranquillo. Tra lo stupore di tutti egli cominciò a roteare sopra di loro scrutandoli con occhi rapaci come un'aquila possente sopra dei pulcini.

Nerone si voltò verso Pietro e Paolo che osservavano in silenzio: «Guardate! Quest'uomo è nella verità e voi non siete altro che cialtroni al servizio di qualche ingannatrice divinità degli inferi».

Paolo guardò allora l'amico che sembrava indugiare, chiedendosi per quale motivo non ponesse fine a quella terribile situazione in cui cielo e terra pareva stessero rabbrividendo sferzati da una forza maligna.

Solo allora Pietro sembrò scuotersi da un'immobilità simile alla morte. Alzando un braccio e puntando l'indice verso il mago, pronunciò queste parole: «Angeli di Satana che sorreggete nell'aria con le vostre ali quest'uomo, io vi intimo nel nome di Gesù Cristo, scintilla del Principio divino, di ubbidire alla Legge e lasciarlo al suo destino, così come è scritto».

Nell'attimo stesso in cui l'ultima parola fu pronunciata, Simone il mago crollò al suolo e morì.

Quell'istante avrebbe potuto segnare la gloria di Pietro e del popolo cristiano, ma ciò non avvenne perché ancora così non era scritto.

Dalla Leggenda aurea

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


La Disputa tra Simon Mago e san Pietro (Filippino Lippi)

Buona giornata a tutti :-)

lunedì 27 marzo 2023

Una pietra speciale

Tanto tempo fa, in Palestina, viveva - si fa per dire - una piccola pietra aguzza e grigia, una pietra come tante altre in quel paese denso di caldo e polvere.

Da anni la sua vita scorreva monotona, tanto che a volte si chiedeva cosa ci facesse su quella strada assolata e a chi potesse mai servire il suo stare lì, immobile e muta spettatrice di uno spettacolo sempre uguale.

Quanto aveva sognato qualcosa di eccitante e di insolito! Qualcuno che posasse gli occhi proprio su di lei e la trovasse unica, particolare. Che pensieri assurdi per una pietra...

Ma la vita riserva sempre delle sorprese e un giorno la nostra annoiata amica fu scossa da uno schiamazzo inconsueto, soprattutto per quell'ora particolarmente calda in cui tutti cercavano di ripararsi nell'ombra delle case.

«Cosa mai sta succedendo?» si chiese piena di eccitazione. Potendo guardare solo di sotto in su, in un primo momento non vide altro che una selva di gambe. Le sembrarono però particolarmente risolute ed era sicura che non promettessero nulla di buono.

Le vesti svolazzavano e i sandali non si peritavano di sollevare un gran polverone che, in verità, le dava davvero fastidio ricoprendola di sabbia calda.

Trasportati da quelle gambe, arrivarono anche uomini e donne vocianti, tutti intenti a schernire e insultare qualcuno che la piccola pietra non riusciva ancora a vedere.

Giunte di fronte a un basso muro che cingeva un orto assetato, le gambe si fermarono, ma non le voci, che sempre più reclamavano qualcosa che aveva a che

fare con la punizione per una colpa. Dopo i lunghi anni passati a contatto con l'essere umano, la pietra aveva imparato a decifrarne il linguaggio. Anzi, la sua occupazione preferita era proprio stata quella di mettere insieme tutti quei suoni che le giungevano dall'altro, attraverso i discorsi dei passanti.

A un tratto essa vide, malamente spinta contro il muro, una giovane donna. Di lei poté scorgere anche il viso perché, tutta impaurita com'era, il suo corpo si era fatto piccolo ed era scivolato giù sino a terra, quasi trasformato anch'esso in pietra dall'odio della gente.

"Certamente non avrà ucciso, o percosso, o offeso qualcuno" pensò la pietra. "Il suo sguardo è chiaro e limpido, offuscato sì dalla paura, ma non dall'odio. Cosa può aver mai fatto una creatura così giovane e delicata?".

Tese l'orecchio, voleva assolutamente capire.

Poté distinguere solo alcune parole: colpevole, adultera, e poi amante, amore, offesa. "Ma che assurdo connubio!" pensò la pietra. Per quel che ne sapeva lei, amore e colpa non avevano nulla a che spartire, ma... si sa... l'uomo aveva le sue strane leggi, ben diverse da quelle semplici delle pietre.

Proprio in quel momento una voce si alzò sulle altre e cominciò a gridare: «Lapidiamola, lapidiamola!».

Fu come se un filo avesse tirato contemporaneamente dei burattini: il grido di uno divenne il grido di tutti.

La pietra inorridì e cercò di farsi ancora più grigia e piccola. Mai e poi mai avrebbe colpito quella creatura, mai e poi mai avrebbe ferito la vita. Ma come fare, così com'era alla mercè degli altri?

Già qualcuno si era abbassato per raccogliere alcune sue sorelle che la guardavano atterrite, sperando in qualcosa che né lei né loro certamente avrebbero potuto fare, legate com'erano alla loro natura di pietre.

Nella profondità del suo essere le parve di percepire un cuore che batteva all'impazzata; mai avrebbe pensato di assistere a qualcosa di così terribile.

In tutta quella gran confusione la nostra gentile amica non notò neppure l'avvicinarsi di un uomo.

Egli era arrivato con il passo calmo di chi sa che non occorre affrettarsi per mutare ciò che già è scritto.

La prima cosa che vide di lui furono i sandali assai consumati e, essendo grande esperta di calzature umane, pensò subito si trattasse di un pellegrino.

Riflettendo si disse che un uomo pio non si sarebbe mai accomunato allo schiamazzo degli altri; ma cosa avrebbe potuto fare, lui, da solo?

Tra la folla si fece silenzio, mentre egli sedette tranquillamente nella polvere, proprio vicino alla giovane donna.

«Maestro» chiese uno tra i tanti, «questa donna è un'adultera e la legge prescrive che sia lapidata».

"Lo chiamano Maestro" pensò la pietra, "ma chi sarà, da dove verrà? Pare tanto giovane!".

Ognuno nella piccola assemblea voleva intanto dire la sua: chi si appellava alla legge, chi chiedeva un duro esempio, chi pensava addirittura di conoscere il volere divino.

La pietra non riusciva più a star dietro a tutto quel vociare né riusciva a comprendere come mai quegli uomini avessero in sé tanta sicurezza da poter emettere un giudizio inappellabile.

Chi conosceva il fine di ogni cosa o l'insondabile mistero celato dietro l'effimera apparenza di una forma?

La pietra si sentiva profondamente indispettita. Aveva accettato per lunghi anni la sua condizione, cercando di assecondare ciò che la natura le chiedeva. Come mai la mente umana creava solo inutili problemi?

Il caldo si era fatto opprimente e lei avrebbe voluto che tutto finisse al più presto. Come avrebbe potuto il pellegrino risolvere un pasticcio così complicato! Gli conveniva piuttosto riprendere la sua strada e lasciare agli abitanti del villaggio la responsabilità dei loro gesti.

L'aria era immobile, quell'attimo pareva eterno: quando era iniziato e quando sarebbe finito?

Ogni sentimento sembrava sul punto di esplodere, ma una strana magia lo aveva fissato lì, nell'animo di ognuno. Paura, collera, odio, ipocrisia, superbia, compassione, dubbio parevano attendere un misterioso comando. Fu solo allora che la voce del pellegrino ruppe quell'incantesimo.

«Bene» disse, «se è questo che volete, sia. Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la sua pietra».

Nessuno si mosse. Si stavano interrogando, presi alla sprovvista da quelle parole? Avevano realmente compreso o si era solo dissolta la forza della loro sicurezza?

Fatto sta che si guardarono l'un l'altro; poi, uno alla volta, in silenzio lasciarono la piazza.

Il giovane pellegrino si appoggiò al muretto con un sospiro e, allungando una mano nella polvere, raccolse proprio la nostra piccola amica, facendola scherzosamente rotolare fra le dita. Incredibile! Il suo sogno si era avverato. Qualcuno si era accorto di lei, l'aveva raccolta e ne aveva fatto una pietra davvero speciale!

- Racconto popolare francese - 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


Prima o poi nella vita potrebbe capitarvi di essere vittime di un' ingiustizia: accuse prive di fondamento, giudizi errati da parte di persone che vogliono nuocervi e distruggervi.

Sappiatelo e preparatevi ad affrontare queste situazioni per evitare, quando vi capiteranno, che in voi abbiano il sopravvento il turbamento, il dolore o il desiderio di vendicarvi. L' unico buon atteggiamento da tenere in questi casi è quello di continuare a lavorare su voi stessi.

Ditevi che tutto ciò che è ispirato dal mondo divino resterà e brillerà un giorno in tutto il suo splendore, mentre i colpi bassi, gli intrighi e i complotti anche se hanno successo per un po', sono condannati prima o poi alla sconfitta.

Lasciate perciò che le persone ingiuste e cattive affondino, se vogliono, nella propria palude: non faranno altro che indebolirsi e impoverirsi, perché non sanno quanto siano terribili le leggi nei confronti di chi è servo della gelosia, della menzogna e dell'odio.

La potenza del cielo è infinita: lavora impercettibilmente, ma inesorabilmente, e tutto finisce per volgersi a favore di coloro che hanno messo al centro della loro vita un ideale sublime di bellezza e di amore, per l' avvento del Regno di Dio e la fratellanza nel mondo.

- Omraam Mikhaël Aïvanhov - 




Buona giornata a tutti :-)


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martedì 21 marzo 2023

La leggenda di Proserpina e la nascita delle stagioni

In un tempo che tempo non è, gli dei dell’Olimpo popolavano il pianeta dal cielo alla terra, per mari e per monti, fino al regno dell’aldilà.

Sovrano indiscusso dell’Olimpo era il potente Zeus, un Dio pieno di sé che non amava essere disobbedito né contraddetto.

Come tutti i potenti sovrani, Zeus, aveva gusti difficili, non solo riguardo al cibo ma anche in amore. Il sogno di tutte le dee era quello di essere la prescelta sposa del sovrano, ma Zeus sembrava non decidersi mai. Fino a ché un bel giorno una dea bellissima catturò la sua attenzione e conquistò il suo amore. La dea si chiamava Demetra ed era figlia di Crono, re dei Titani, e di sua moglie Rea.

Zeus rimasto estasiato da tanta bellezza chiese la mano di Demetra e la ottenne in sposa.

Nell’Olimpo Zeus e Demetra regnavano felici e contenti. Demetra era ben voluta da tutti gli dei e anche particolarmente amata dagli uomini della Terra. Era la dea dell’agricoltura e della semina, proteggeva i campi, faceva maturare i frutti e biondeggiare il grano, ricopriva la terra di fiori e di erbe. Durante i primi mesi di nozze trascorse il suo tempo a fare quello che sapeva fare meglio, così sulla terra i frutti abbondavano e deliziavano il palato degli uomini, mentre i fiori coloravano e profumavano l’atmosfera, dandole un tocco magico.

Zeus era felice del suo matrimonio e amava profondamente la sua sposa, per questo dopo pochi mesi le chiese di avere un figlio da lei. Il nascituro sarebbe stato il frutto del loro amore e il futuro sovrano dell’Olimpo. Dopo qualche mese la vita matrimoniale di Zeus e Demetra fu allietata dalla nascita di una bambina alla quale diedero il nome di Proserpina, dal latino “ proserpere” (emergere) a simboleggiare la crescita del grano. Il padre Zeus, nonostante avesse desiderato un figlio maschio, alla vista della bambina si innamorò subito di quella piccola creatura che era il riflesso della madre.

Gli anni passavano e Proserpina cresceva bella, forte e sana. Anche lei come la madre era ben voluta da tutti gli dei dell’Olimpo e dalle piccole ninfe che facevano a gara per poter giocare con lei. Fin da piccolissima intraprese varie attività come voleva la tradizione di corte, infatti tutte le principesse affiancavano ai normali studi classici lezioni di arte, musica, dipinto, ricamo e quant’altro fosse di loro gradimento. 

Proserpina amava molto dipingere e trascorreva parte delle sue giornate a raffigurare sulla tela tutti i magnifici paesaggi dell’Olimpo. Tra le altre cose le piaceva molto disegnare abiti che poi la madre faceva realizzare dalla sarta di corte e che lei indossava nelle serate danzanti organizzate dal padre o in quelle dove andavano ospiti. La madre le aveva trasmesso la passione per i gioielli e gli ornamenti vari e lei l’aveva coltivata ottenendo, anche in questa, discreti risultati. 

Crescendo la sua curiosità iniziò a spostarsi verso la terra e tutto ciò che ne faceva parte. La madre negli anni le aveva parlato di paesaggi bellissimi e fiori dai mille colori, che lei aveva sempre immaginato e provato a raffigurare nelle sue tele, sognando il giorno in cui avrebbe finalmente potuto vederli. Sognava di passare pomeriggi immersa nel verde a dipingere paesaggi e a raccogliere fiori che avrebbe usato da ornamento per i suoi abiti, o per creare collane e gioielli. Gli anni passavano ma i genitori non le permettevano di scendere sulla terra poiché temevano potesse essere pericoloso, finché un giorno, con grande stupore della madre e della ragazza, Zeus acconsentì a mandarla con alcune ninfe sulla terra. La madre, che non voleva contraddire il marito, non si oppose alla scelta di Zeus né provò a convincere la figlia a non andare, poiché sapeva che questa volta non l’avrebbe ascoltata.

Era ormai divenuta una fanciulla soave, sempre sorridente, con i capelli biondi e due occhi grandi e profondi.

<< Ora è grande abbastanza per poter scendere con le altre ninfe sulla terra. >> Disse Zeus, mentre guardava la moglie che aveva un’aria preoccupata.

<< Non si è mai abbastanza grandi per incorrere in qualche pericolo, ma non discuterò la tua decisione, poiché so che non metteresti mai a repentaglio la vita di nostra figlia. >> Rispose Demetra.

Davanti all’affermazione di Demetra, Zeus, si sentì come in colpa, ma non lo diede a vedere per non insospettire la moglie.

Preoccupata Demetra chiese al marito di poter essere lei ad accompagnare la figlia nel suo primo viaggio sulla terra, ma questo non acconsentì e con aria adirata le disse che era arrivato il tempo che permettesse alla figlia di vivere come a tutte le ragazze della sua età. Prima di andar via disse a Demetra di stare tranquilla, perché anche se Proserpina non si era mai allontanata dall’Olimpo, con lei ci sarebbero state le ninfe, che conoscevano bene la terra, dove si recavano quasi ogni giorno.

Arrivò il giorno successivo. Il sole quel mattino era più radioso che mai. Proserpina non stava più nella pelle all’idea di scendere finalmente a visitare la terra. Mise uno dei suoi abiti più belli e insieme ad altre ninfe sue amiche andò a fare una passeggiata sulle sponde del lago di Pergusa, nel cuore della Sicilia. Giunti lì si misero a raccogliere rose, giacinti e viole che sarebbero serviti per fare delle ghirlande che avrebbero adornato le loro vesti. Mentre ridevano e si divertivano improvvisamente udirono un forte boato che lacerò l’aria. Le fanciulle iniziarono a gridare e provarono a fuggire, ma la terra si spaccò e dai sottofondi uscì, su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli neri, un Dio bello ma dallo sguardo triste. Era Plutone, Dio delle tenebre, che si era innamorato di Proserpina e aveva chiesto a Zeus di poterla sposare. Quel giorno, dopo aver ottenuto il consenso di Zeus, era salito sulla terra per portarla con sé.

La ninfa Ciane nel tentativo di salvarla si aggrappò al cocchio di Plutone cercando di trattenerlo dal tornare sottoterra, ma non poté impedirlo. Questo suo gesto scatenò la collera di Plutone che la percosse con il suo scettro e la trasformò in una sorgente.

Attirato dalle urla arrivò sul posto il giovane Anapo, innamorato della ninfa Ciane, che vedendosi liquefatta la fidanzata si fece trasformare anch’egli in un fiume. Questo ancora oggi al termine del suo percorso si unisce alle acque del fiume Ciane, per poi sfociare con lui nel Porto Grande di Siracusa.

A nulla servirono le grida disperate di Proserpina e la richiesta d’aiuto al padre Zeus, che non poté far nulla dopo che aveva acconsentito a Plutone di sposarla. Prima di sprofondare sottoterra la fanciulla levò un ultimo grido alla madre, le montagne tremarono e i boschi fecero eco alla sua voce, permettendo a Demetra di udirle.

Demetra dall’Olimpo accorse sulla terra in aiuto della figlia. Poco prima di giungere sul lago incontrò le altre ninfe che scappavano e le fermò. Queste le raccontarono di essere fuggite via dopo un forte boato che aveva lacerato la terra e di non avere idea di dove fosse finita Proserpina. A quel punto ritenendole colpevoli della scomparsa della figlia, per non aver fatto nulla, le trasformò in sirene e andò via. Sconvolta cercò ovunque l’adorata figlia, vagando in un lungo e largo per nove giorni. Chiese all’Aurora e al tramonto, ai fiumi e ai mari, ma nessuno le rivelò cosa fosse accaduto alla figlia. All’alba del decimo giorno, dopo le vane ricerche, interrogò il sole nella speranza di ricevere una risposta su quanto accaduto. Il sole nel vederla così triste le rivelò che a rapirla era stato Plutone, dio delle tenebre, per farla sua sposa. Prima che Demetra andasse via, per provare a consolarla, aggiunse che ora Proserpina con il suo sorriso rallegrava il triste mondo degli inferi.

Demetra disperata andò via e si rifugiò a Eleusi, in un tempio a lei consacrato, dimenticandosi della terra.

I giorni passavano e sulla terra i campi iniziarono ad ingiallire, i frutti marcirono, i fiori appassirono e le spighe si seccarono. La terra divenne spoglia e brutta. Gli uomini iniziarono a lamentarsi e a buttare al cielo e agli dei maledizioni di ogni sorta. Non avevano più nulla, i loro campi ormai erano aridi e non davano più alcun frutto. Molte famiglie di contadini non avendo più di che vivere caddero in una profonda disperazione. Gli animali da pascolo andarono in sofferenza per la mancanza di erba da poter mangiare e anche il loro latte ne risentì, al punto che alcune mucche e alcune capre non riuscirono a sfamare i loro cuccioli, alcuni dei quali denutriti morirono. La situazione sulla terra ormai era critica. Occorreva fare subito qualcosa per bloccare la carestia che da lì a poco avrebbe finito per uccidere tutti, animali e uomini.

A quel punto Zeus, avendo compassione degli uomini per tutto quello che stava accadendo sulla terra, mandò la dea Iride da Demetra per chiederle di tornare tra gli dei, ma questa non ottenne risposta. Nei giorni successivi tutti gli dei dell’Olimpo si recarono da Demetra a supplicarla di tornare sulla terra, ma questa rispose loro che sarebbe tornata solo se avesse riavuto sua figlia.

A quel punto per impedire una catastrofe sulla terra, Zeus, mandò Mercurio dal re degli inferi Plutone, per dirgli di restituire la figlia, poiché solo il suo ritorno avrebbe potuto salvare la terra.

Plutone acconsentì e lasciò che Mercurio riportasse Proserpina da sua madre, anche se in cuor suo non voleva perderla per sempre. Mentre la fanciulla si apprestava a salire sul carro,  Mercurio, escogitò un modo per far si che questa dovesse tornare di tanto in tanto agli inferi. Le offrì dei chicchi di Melograno che la fanciulla mangiò, ignara del fatto che secondo un’antica legge divina chiunque mangiasse i chicchi rossi di quel frutto sarebbe rimasto legato al mondo degli inferi per sempre.

Proserpina era felicissima all’idea di riabbracciare la madre e con Mercurio si recò a Eleusi.

Appena Demetra vide arrivare la figlia si rincuorò e corse ad abbracciarla. Madre e figlia, che finalmente si erano ritrovate, parlarono a lungo. Dai racconti della figlia Demetra comprese che ormai il suo legame con Plutone era indissolubile, poiché lei era legata agli inferi e di conseguenza al loro Dio. Non potendo accettare di perdere di nuovo sua figlia, invitò Proserpina ad andare un po’ a riposare, dopo di che si recò da Zeus per convincerlo a fare qualcosa. Giunta da Zeus gli chiese di poter tenere con sé la figlia almeno una parte dell’anno e lui acconsentì, per amore della moglie, della figlia e per far ritornare la terra al suo splendore. 

Da quel giorno, ogni volta che Proserpina torna dalla madre, i prati si ricoprono di fiori, i frutti cominciano a maturare e il grano a germogliare. 

Quel periodo è quello che sulla terra chiamiamo la primavera. Nei restanti mesi dell’anno, invece, quando Proserpina si ricongiunge con Plutone, la terra inizia a sfiorire. Questo periodo ha inizio con l’autunno e dura fino al ritorno della primavera, quando Proserpina e la madre si ricongiungono. La leggenda, difatti, narra che le stagioni nascono proprio dal rapimento di Proserpina.

Il giorno seguente quando Demetra e la figlia fecero ritorno all’Olimpo, in loro onore, ci fu una grande festa. In cielo e in terra finalmente tutto tornò al suo posto e uomini e Dei ricominciarono a vivere felici.


Una luce c’è in primavera

Una luce c’è in primavera
non presente nel resto dell’anno
in qualsiasi altra stagione –
Quando marzo è appena arrivato
un colore appare fuori
sui campi solitari
che la scienza non può sorpassare
ma la natura umana sente.
Indugia sopra il prato,
delinea l’albero più lontano
sul più lontano pendio che tu sappia
quasi sembra parlarti.
Poi come orizzonti arretrano
o il mezzogiorno trascorre,
senza formula di suono
esso passa e noi restiamo –
e una qualità di perdita
tocca il nostro sentimento
come se a un tratto il guadagno
profanasse un sacramento.

(Emily Dickinson)


Buona primavera 2023 (nonostante i venti di guerra....)!!!


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