L'alba comincia appena a tingere la
volta del cielo sul monte Sapun; la superficie turchina del mare si è già
scrollata di dosso le tenebre notturne e attende il primo raggio, per
scintillare di un gaio splendore; la baia odora di freddo e di nebbia; non c'è
neve, tutto è buio, ma l'acuto gelo mattutino pizzica il volto e scricchiola
sotto i piedi, e il lontano, incessante mormorio del mare, di quando in quando
interrotto dal fragore degli spari di Sebastopoli, turba da solo la quiete del
mattino.
Sulle navi battono sordamente le quattro. Alla Severnaja l'attività
del giorno comincia a poco a poco a sostituire la quiete notturna: quando passa
il cambio delle sentinelle, facendo tintinnare i fucili; quando già un dottore
si reca frettolosamente all'ospedale; quando un soldatino, uscito strisciando
dal rifugio, si lava il viso abbronzato con acqua ghiacciata e, guardando verso
l'oriente tinto di porpora, si fa rapidamente il segno della croce e rivolge la
propria preghiera a Dio; quando un alto, pesante carro trainato da cammelli si
trascina a stento verso il cimitero, dove si provvederà alla sepoltura dei
cadaveri insanguinati che quasi lo riempiono. Vi accostate all'imbarcadero, vi
colpisce un particolare odore di carbon fossile, di letame, di umidità e di
carne bovina; migliaia di svariati oggetti, legname, carne, gabbioni, farina,
ferro e così via, giacciono ammucchiati vicino al pontile; soldati appartenenti
a diversi reggimenti, con zaino e fucile, senza zaino e senza fucile, vi si ammassano,
fumano, imprecano, trascinano pesi su una nave che, fumando, sta ferma vicino
al ponte; barche private, piene zeppe di gente di ogni specie, di soldati, di
marinai, di mercanti e di donne approdano e salpano dall'imbarcadero.
«Alla
Grafskaja, vostra signoria?», due o tre marinai in congedo vi offrono il loro
servizio alzandosi in piedi nelle scialuppe. Voi scegliete quella che vi è più
vicina, camminate scavalcando il cadavere semi putrefatto di un cavallo baio,
che giace lì nel fango, vicino alla scialuppa, e attraversate l'imbarcazione
fino a raggiungere il timone. Siete salpati dalla riva. Siete circondati dal
mare, già splendente nel sole mattutino, davanti a voi un vecchio marinaio con
un cappotto di cammello e un giovanotto dai capelli biondi si danno un gran da
fare ai remi. Voi osservate anche la mole delle navi dalla chiglia rigata,
disseminate vicino e lontano nella baia, e i piccoli puntini neri delle
scialuppe che si muovono nell'azzurro splendente, e le belle e luminose
costruzioni della città, abbellite dai rosei raggi del sole, la schiumosa linea
bianca del Bon e delle navi colate a picco, dalle quali, qua e là, affiorano
tristemente le cime nere degli alberi, e la lontana flotta nemica, che si
staglia all'orizzonte cristallino del mare, gli schizzi schiumosi, nei quali
saltellano bolle di sale sollevate dai remi; udite i suoni regolari dei colpi
di remi, suoni di voci, che vi raggiungono volando sull'acqua, e i giganteschi
rumori degli spari che vi sembrano intensificarsi a Sebastopoli.
Non è
possibile che, al pensiero di trovarvi anche voi a Sebastopoli, non abbiate
sentito penetrarvi nell'animo il senso di un certo coraggio, di orgoglio, e che
nelle vostre vene il sangue non abbia cominciato a scorrere più rapidamente...
«Vostra signoria! Tenete dritto, verso la Kistentin», vi dice il vecchio
marinaio, voltandosi a controllare la direzione che date alla barca, «virate a
destra!». «Sopra ci sono ancora tutti i cannoni», nota il ragazzo biondo nel
costeggiare la nave ed osservandola attentamente. «Naturalmente: è nuova, vi
abitava Kornilov», fa notare il vecchietto, gettando anche lui uno sguardo alla
nave. «Guarda un po' dove è scoppiata!», dice il giovane, osservando, dopo un
lungo silenzio, una bianca nuvoletta di fumo che si disperde nell'aria, dopo
essere apparsa all'improvviso in alto sopra la baia meridionale, accompagnata
dall'intenso fragore dell'esplosione di una bomba. «Ecco che ora fa fuoco con
una batteria nuova», aggiunge il vecchietto, sputacchiandosi con indifferenza
sulla mano. «Dai, forza, Miška, superiamo la scialuppa». E la vostra
imbarcazione comincia a muoversi più velocemente tra le ampie onde della baia,
riesce a superare una pesante scialuppa, sulla quale sono stati caricati certi
sacchi, e su cui soldati impacciati non remano a tempo, e approda all'attracco
Grafskaja, tra un gran numero di imbarcazioni ormeggiate.
Lungo la riva si
muovono rumorosamente schiere di soldati grigi, di marinai neri e di donne
variopinte. Alcune vecchie vendono panini, contadini russi muniti di samovar
gridano «Sbiten' bollente!», e qui, sui primi gradini, sono accatastate palle
arrugginite, bombe, mitraglie e cannoni in ghisa, di calibro diverso. Un po'
più in là si trova la grande piazza, sulla quale giacciono in disordine alcune
travi di grosse dimensioni, supporti di cannoni, soldati immersi nel sonno; vi
si trovano cavalli, carri, pezzi d'artiglieria verdi e casse di munizioni,
cavalletti di fanteria; si muovono soldati, marinai, ufficiali, donne, bambini,
mercanti; passano carri che trasportano fieno, sacchi e botti; qua e là
passeranno un cosacco e un ufficiale a cavallo, un generale su una piccola
carrozza. A destra la strada è cinta da una barricata, sulla quale, nelle
feritoie, stanno ritti alcuni piccoli cannoni, e vicino ad essi siede un
marinaio che fuma la pipa. A sinistra una bella casa con cifre romane sul
frontone, sotto il quale vi sono dei soldati e delle barelle insanguinati -
dovunque vedete i segni spiacevoli di un accampamento. La vostra prima
impressione sarà certamente molto sgradevole: l'insolita commistione di vita da
campo e vita cittadina, di una bella città e di sporco bivacco non solo non è
una cosa piacevole, ma somiglia ad un disordine ripugnante; vi sembrerà inoltre
che tutti siano impauriti, si affaccendino, non sappiano che cosa fare. Ma
osservate più da vicino i volti di queste persone che vi si muovono intorno, e
capirete una cosa del tutto differente. Guardate almeno questo piccolo soldato
del carriaggio, che conduce ad abbeverarsi tre cavalli bai e che con tale
tranquillità canticchia qualcosa tra sé e sé, e che, certamente, non si
confonderà mai in questa massa, che per lui addirittura non esiste, ma adempirà
al proprio dovere - abbeverare i cavalli o trasportare armi - con tale serenità
e coraggio, e indifferenza, come se tutto ciò avvenisse da qualche parte a Tula
o a Saransk.
La medesima espressione leggerete anche nel volto di questo
ufficiale, che vi passa accanto con guanti irreprensibilmente bianchi, e nel
volto del marinaio che sta fumando seduto sulla barricata, e nel volto dei
portantini, che attendono con le barelle all'entrata di servizio di quella che un
tempo era l'Assemblea, e nel volto di questa fanciulla che, temendo di bagnarsi
il vestito rosa, attraversa la strada saltellando da una pietruzza all'altra.
Sì! Indubbiamente proverete una delusione, facendo per la prima volta ingresso
a Sebastopoli. Invano cercherete, almeno in un volto, tracce di irrequietezza,
di smarrimento o addirittura di entusiasmo, di preparazione ad affrontare la
morte, di risolutezza; non v'è nulla di tutto ciò: vedrete persone di tutti i
giorni, dedite tranquillamente alle loro attività quotidiane, così che, forse,
vi rimprovererete l'eccessiva tensione, comincerete a dubitare che l'idea di
«eroismo» dei difensori di Sebastopoli sia legittima, idea che vi siete fatta
in base ai racconti e alle descrizioni sull'aspetto e i rumori provenienti
dalla Severnaja.
Tuttavia, prima di dubitare, recatevi sui bastioni, provate a
guardare i difensori di Sebastopoli proprio sul luogo in cui combattono o,
meglio ancora, andate dritti in quel palazzo di fronte, che un tempo
rappresentava l'Assemblea di Sebastopoli, presso il cui ingresso stanno soldati
con barelle: là vedrete i difensori di Sebastopoli, assisterete a spettacoli
orribili e tristi, grandiosi e grotteschi, ma straordinari, che elevano
l'anima. Entrate nella grande sala dell'Assemblea. Appena entrati, vi
colpiranno improvvisamente la vista e l'odore di quaranta o cinquanta malati,
mutilati o feriti molto gravemente, alcuni sulle brande, in gran parte sul
pavimento. Non date retta all'istinto che vi trattiene sulla soglia della sala
- si tratta di un cattivo istinto -, andate avanti, non vergognatevi, come se
foste venuti a guardare dei martiri, non abbiate ritegno ad accostarvi e a
parlare con loro: i disgraziati amano vedere un volto umano e compassionevole,
amano raccontare il proprio dolore e ascoltare parole d'amore e di
partecipazione. Passate in mezzo alle brande e cercate un volto meno severo e
sofferente, al quale decidete di avvicinarvi per conversare un po'. «Tu dove
sei ferito?», chiedete esitanti e timorosi a un vecchio soldato smagrito che,
seduto sulla branda, vi segue con uno sguardo benevolo e quasi vi invita a
recarvi da lui. Dico "domandate timorosamente" perché le sofferenze,
oltre alla profonda compassione, infondono per qualche motivo il timore di
offendere e incutono un grande rispetto verso chi le sopporta. «Alla gamba»,
risponde il soldato; ma contemporaneamente voi stessi notate, dalle pieghe
della coperta, che la sua gamba non ha più il ginocchio. «Grazie a Dio,
adesso», aggiunge il soldato, «verrò dimesso». «Da molto tempo sei ferito?»
«Sì, da sei settimane, vostra signoria!» «Ma ti fa male adesso?» «No, adesso
non fa male; provo soltanto qualche dolore alla coscia, quando cambia il tempo,
ma non è niente». «Ma come ti hanno ferito?» «Sul quinto bastione, vostra
signoria, quando c'è stato il primo bombardamento: avevo puntato il cannone,
stavo indietreggiando, così, verso la seconda cannoniera, quand'ecco che lui mi
colpisce alla gamba, come se fossi inciampato in una buca. Guardo, e non c'è
più la gamba». «E non è stato doloroso in quel primo momento?» «No; era solo
come se mi avessero urtato alla gamba con qualcosa di bollente». «Ebbene, e
poi?» «E poi niente; appena si sono messi a tendermi la pelle, ho sentito quasi
un bruciore. La prima cosa da fare, vostra signoria, è non pensarci molto: se
non ci pensi, allora non è niente. Tutto è più doloroso se ci si pensa».
In quel momento vi si avvicina una
donna con indosso un vestito grigiastro a righe, avvolta da uno scialle nero;
si intromette nella vostra conversazione con il marinaio e comincia a
raccontare di lui, delle sue sofferenze, della condizione disperata nella quale
ha versato per quattro settimane; di quando, dopo essere stato ferito, aveva
fatto fermare i barellieri, per controllare la scarica delle nostre batterie,
di quando i granduchi avevano parlato con lui e lo avevano gratificato di
venticinque rubli, e di quando aveva detto loro che voleva tornare di nuovo sul
bastione, per istruire i giovani, se egli non fosse più stato nelle condizioni
di lavorare. Mentre racconta senza prender fiato, questa donna, con gli occhi
splendenti di un particolare entusiasmo, guarda ora verso di voi, ora verso il
marinaio che, voltatosi e quasi senza ascoltarla, sfilaccia il cuscino: «Questa
è mia moglie, vostra signoria!», vi fa notare il marinaio con una tale
espressione, come se volesse scusarsi per lei di fronte a voi, e dicesse:
«Perdonatela. Si sa, è tipico delle donne dire delle sciocchezze». Cominciate a
capire i difensori di Sebastopoli; per qualche ragione, davanti a quest'uomo vi
vergognate di voi stessi. Vorreste dirgli moltissime cose, per esprimergli la
vostra comprensione e ammirazione; ma non trovate le parole e non siete
soddisfatti di quelle che vi vengono in mente e, tacendo, vi inchinate di
fronte a questa silenziosa, inconsapevole grandezza e fermezza d'animo, di
fronte a questo pudore della propria dignità. «Beh, che Dio ti conceda una
pronta guarigione», gli dite, e vi fermate davanti ad un altro malato che giace
sul pavimento e pare attendere la morte fra le più strazianti sofferenze. È
biondo, con un viso gonfio e pallido. Giace supino, con il braccio sinistro
rovesciato all'indietro, in una posizione che esprime un'acuta sofferenza. La
bocca secca, spalancata, a fatica emette un respiro rantolante; gli occhi
azzurri, vitrei, sono stravolti all'insù; da sotto la coperta, scivolata giù,
sporge il braccio destro mutilato, avvolto da fasce. Il puzzo intenso di
cadavere vi colpisce più di ogni altra cosa, e avete l'impressione che la
febbre che divora, penetrandole, tutte le membra dell'agonizzante, si stia
insinuando anche dentro di voi. «Ha perso conoscenza?», chiedete alla donna che
cammina dietro di voi e che vi rivolge uno sguardo affettuoso, come verso un
parente. «No, riesce ancora a sentire, ma è molto grave», aggiunge quella
sussurrando. «Gli ho dato ora del tè; anche se si tratta di un estraneo, bisogna
sempre provare pietà, e non ha bevuto quasi per niente».
«Come ti senti?», gli chiedete. Il
ferito volge le pupille verso la vostra voce, ma non vede e non vi capisce. «Mi
brucia il cuore». Un po' più in là vedete un vecchio soldato che si cambia la
biancheria. Il suo viso e il suo corpo sono di color marrone e magri come uno
scheletro. Ha perso completamente un braccio: gli è stato tagliato dalla
spalla. Se ne sta seduto ben diritto, è guarito; ma dallo sguardo smorto,
pallido, dalla magrezza spaventosa e dalle rughe del volto comprendete che
questa è una creatura che ha già consumato nella sofferenza la parte migliore
della propria vita. Dall'altro lato vedrete sulla branda il volto martoriato,
pallidissimo e tenero di una donna, sul quale spicca, lungo tutta la guancia,
un vivo rossore. «Questa nostra marinaia è stata colpita alla gamba il giorno 5
da una bomba», vi dirà la vostra guida, «stava portando il pranzo al marito,
sul bastione». «Che cosa hanno fatto, gliel'hanno amputata?» «L'hanno tagliata
al di sopra del ginocchio». Ora, se i vostri nervi sono saldi, passate la porta
a sinistra: in quella stanza fasciano e operano. Là vedrete dei medici, con le
braccia coperte di sangue sino al gomito, e un aspetto pallido e accigliato,
indaffarati intorno ad una branda, sulla quale, con gli occhi spalancati e
pronunciando, come in delirio, parole prive di senso, talvolta semplici e
commoventi, giace il ferito, sotto l'effetto del cloroformio. I dottori sono
infatti intenti all'opera disgustosa, ma benefica, dell'amputare. Vedrete un
coltello appuntito, ricurvo, penetrare in un bianco corpo sano; vedrete il
ferito riprendere conoscenza all'improvviso con un grido terribile, lancinante,
di imprecazione; vedrete l'aiutante gettare in un angolo il braccio amputato;
vedrete sdraiato, sulla barella, in quella medesima stanza, un altro ferito
che, guardando l'operazione del compagno, si contorce e geme, non a causa del
dolore fisico, ma per le sofferenze morali dell'attesa; vedrete spettacoli
tremendi, che sconvolgono l'anima; vedrete la guerra non nelle sue schiere
ordinate, belle e splendenti, con il rullo dei tamburi, con le insegne al vento
e i generali caracollanti, ma vedrete la guerra nella sua vera espressione, nel
sangue, nelle sofferenze, nella morte... Uscendo da questa casa di patimenti,
proverete certamente un senso di gioia, respirerete più profondamente l'aria
fresca, avvertirete il piacere della consapevolezza della salute, ma, insieme a
ciò, riceverete, osservando queste sofferenze, la consapevolezza della vostra
nullità e serenamente, senza indugi, vi recherete sui bastioni... Che cosa
significano la morte e le sofferenze di un verme così insignificante, come me,
in confronto a tante morti e a tante sofferenze? Ma la vista del cielo limpido,
del sole splendente, della bella città, della chiesa aperta e dei militari che
si muovono in diverse direzioni, ricondurrà presto il vostro animo in un
normale stato di spensieratezza, di preoccupazioni meschine e di interesse per
il solo presente. Vi capiterà di imbattervi, forse, in un corteo funebre
proveniente dalla chiesa, in onore di qualche ufficiale, con un feretro rosa e
la banda, e insegne militari spiegate; forse vi giungeranno i rumori degli
spari dai bastioni, ma ciò non vi riporterà ai pensieri precedenti; le esequie
vi sembreranno uno spettacolo militare molto bello, il rombo un rumore di
guerra delizioso, e non assocerete né a questo spettacolo, né a questi rumori,
il pensiero chiaro, egoisticamente riferito a voi stessi, delle sofferenze e
della morte, così come vi era accaduto nell'infermeria. Oltrepassando la chiesa
e la barricata, entrate nella parte della città più animata di vita interiore.
Da entrambi i lati insegne di botteghe e trattorie; mercanti, donne con
cappelli e piccoli scialli, ufficiali azzimati, tutto vi testimonia la fermezza
d'animo, il coraggio e la sicurezza degli abitanti. Entrate nella locanda a
destra, se desiderate ascoltare le chiacchiere dei marinai e degli ufficiali:
probabilmente già si parla della notte scorsa, di Fen'ka, dell'azione del 24,
di come sono care e di cattiva qualità le polpette, e di come sia stato
ammazzato questo o quel compagno. «Al diavolo, come ce la passiamo male!», dice
con voce bassa un giovane ufficiale della marina, albino, senza baffi, avvolto
da una sciarpa di lana verde. «Dove ce la passiamo male?», gli chiede un altro.
«Al quarto bastione», risponde il giovane ufficiale, e voi, certamente,
nell'udire le parole "al quarto bastione", guarderete l'ufficiale
albino con grande attenzione e con un certo rispetto. La sua eccessiva
disinvoltura, il suo sbracciarsi, il suo riso e la voce stentorea, che vi erano
sembrati arroganti, vi sembreranno ora caratteristici di quel particolare
atteggiamento da provocatore che alcuni giovani assumono dopo il pericolo; ora
penserete che comincerà a raccontarvi che le cose, al quarto bastione, vanno
male a causa delle bombe e delle palle: niente affatto! Va male perché c'è
molto fango.
«Non è possibile arrivare alla
batteria», dirà uno mostrando gli stivali ricoperti di fango fin sopra il
polpaccio. «Mi hanno ucciso ora il miglior artigliere, dritto alla fronte
l'hanno colpito», dirà un altro. «Chi? Mitjuchin?» «No... ma insomma, me lo
portano o no questo vitello? Guarda un po' che razza di canaglie!», aggiungerà
rivolto al cameriere della trattoria. «No, non Mitjuchin, Abrosimov. Era così
in gamba, aveva preso parte a sei sortite». All'altro capo del tavolo, davanti
a un piattino di polpette con piselli e ad un fiasco di vino acre di Crimea,
chiamato "Bordeaux", siedono due ufficiali di fanteria: uno giovane,
con un bel colletto rosso e le stellette sul cappotto, racconta all'altro,
anziano, con un colletto nero e senza stellette, lo scontro di Al'ma. Il primo
è già un po' brillo e, dalle pause del suo racconto, dallo sguardo indeciso,
che denota il dubbio di non essere creduto, e soprattutto quello di attribuirsi
troppi meriti e di esagerare ogni terribile particolare, si può capire che la
sua narrazione si discosta molto dalla verità. Ma a voi non importa di questi
racconti, che ancora a lungo avrete occasione di udire in tutti gli angoli
della Russia: volete recarvi al più presto sui bastioni, e precisamente al
quarto, a proposito del quale avete udito versioni così contrastanti. Quando
uno dice di essere stato al quarto bastione, lo fa con piacere e orgoglio
particolari; quando uno dice: «Vado al quarto bastione», si nota in lui
inevitabilmente un piccolo turbamento o un'eccessiva indifferenza; quando
vogliono prendere in giro qualcuno, gli dicono: «Ti manderei sul quarto
bastione»; quando incontrano una barella e domandano: «Da dove viene?», per lo
più rispondono: «Dal quarto bastione». Generalmente esistono due opinioni del
tutto opposte riguardo a questo terribile bastione: quella di coloro i quali
non vi sono mai stati e sono convinti che il quarto bastione sia una tomba per
chiunque vi si rechi, e quella di coloro i quali vi abitano, come
l'ufficialetto albino, e che, parlando del quarto bastione, vi diranno se il
terreno sia secco o fangoso, se faccia freddo ecc. Nella mezz'ora che avete
passato in trattoria, il tempo è cambiato: la nebbia, che si stendeva sul mare,
si è raccolta in grigie, tristi e umide nubi, e ha oscurato il sole; una
malinconica brina gelata cade dall'alto e bagna i tetti, i marciapiedi e i
cappotti dei soldati... Scavalcando ancora una barricata, uscite dalla porta a
destra e salite in cima lungo la via principale. Al di là di questa barricata
le case, su entrambi i lati della strada, sono abbandonate, non ci sono
insegne, le porte sono serrate con travi, le finestre sono rotte, qui è
abbattuto l'angolo di un muro, là è stato sfondato il tetto. Le costruzioni
somigliano a vecchi veterani che abbiano provato ogni tipo di sciagura e di
ristrettezza, e sembrano osservarvi con fierezza e con un po' di disprezzo. Per
la strada inciampate in palle di cannone, ammassate disordinatamente, e in
buche piene d'acqua, scavate nel terreno pietroso dalle bombe. Per la via
incontrate drappelli di soldati, esploratori cosacchi, ufficiali; di tanto in
tanto ci si imbatte in una donna o in un ragazzo, ma non più in una donna col
cappellino, bensì in una marinaia con indosso una vecchia pelliccia e ai piedi
stivali da soldato. Proseguendo oltre lungo la via, e dopo essere scesi per un
piccolo declivio, notate intorno a voi non più case, ma strani ammassi di
rovine, di pietre, di tavole, di argilla e di travi; davanti a voi, sopra una
montagna scoscesa, vedete una distesa nera, fangosa, piena di fosse, ed ecco
proprio qui, davanti a voi, il quarto bastione... Qui si incontra sempre meno
gente, donne non se ne vedono, i soldati corrono, per la strada si notano qua e
là macchie di sangue, e sicuramente incontrerete quattro soldati con una
barella e, sulla barella, un volto giallognolo pallido e un mantello
insanguinato. Se proverete a chiedere: «Dov'è ferito?», i barellieri con
stizza, senza voltarsi, diranno: «Alla gamba», oppure: «Al braccio», se la
ferita è leggera, oppure taceranno severi, se dalla barella non spunta la
testa, e il soldato è già morto o ferito gravemente. Vi sconcerterà un fischio
non lontano di palla o di bomba, proprio nel momento in cui vi accingerete a
inerpicarvi sul monte. Comprendete subito, e del tutto diversamente da come lo
intendevate prima, il significato di quel rumore di spari che udivate nella
città. Un ricordo tranquillo e consolante vi riaffiora all'improvviso nella
mente; la vostra persona comincia ad interessarvi più di questo spettacolo;
rivolgete meno attenzione a tutto ciò che vi circonda, e uno spiacevole senso
di indecisione si impadronisce di voi. Sebbene improvvisamente, di fronte al
pericolo, dentro di voi abbia cominciato a farsi sentire questa voce vile, alla
vista di un soldato che scivola veloce lungo la montagna, agitando le braccia, attraverso
il fango liquido, e vi supera di corsa con un sorriso, costringete questa voce
a tacere, raddrizzate con naturalezza il petto, sollevate il capo e vi
arrampicate in cima al monte sdrucciolevole e argilloso. Non appena avrete dato
inizio alla salita, da sinistra e da destra cominceranno a fischiare i colpi
degli Štucer, e voi, forse, vi domanderete se non sia il caso di procedere
lungo la trincea, che conduce parallelamente alla strada; ma questa trincea è
piena di fango molle, giallo e fetido, e arriva fin sopra le ginocchia, così
che preferirete di certo proseguire per la via attraverso il monte, tanto più
che tutti la percorrono. Fatti duecento passi, entrate in uno spazio pieno di
buche, fangoso, circondato su tutti i lati da gabbioni, terrapieni, cave,
piattaforme, rifugi, nei quali si trovano grossi cannoni in ghisa e giacciono,
ammucchiate con ordine, delle palle di cannone. Tutto ciò vi sembra accatastato
senza alcuno scopo, senso oppure ordine. Qui sulla batteria sta seduto un
gruppetto di marinai; là, al centro della piattaforma, affondato fino a metà
nel fango, giace un cannone fuori uso; più oltre un giovane soldato di
fanteria, che cerca con il fucile di passare tra le batterie e a malapena
riesce a tirar fuori le gambe dal fango appiccicoso; dappertutto, in ogni
angolo, vedete schegge, bombe non esplose, palle, tracce dell'accampamento,
tutto sommerso dal fango liquido e vischioso. Vi sembra di udire non lontano da
voi il colpo di una palla, e da ogni parte diversi rumori di proiettili che
ronzano come api, fischiano, veloci e stridenti come la corda di uno strumento,
udite il tremendo rimbombo di una cannonata, che vi scuote tutto e vi appare
come qualcosa di tremendamente terrificante. «Eccolo dunque, il quarto
bastione, eccolo, questo luogo davvero terribile e spaventoso», pensate tra
voi, provando un piccolo senso d'orgoglio e una grande sensazione di paura
soffocata. Ma restate delusi: questo non è ancora il quarto bastione. Si tratta
del ridotto Jazonovskij: un luogo, al confronto, del tutto sicuro e per nulla
terrificante. Per andare al quarto bastione prendete a destra, lungo questa
trincea stretta, per la quale, chinato, si è messo a camminare il giovane soldato
di fanteria. Forse incontrerete di nuovo, lungo questa trincea, una barella, un
marinaio, dei soldati con badili, vedrete veicoli di mine, rifugi nel fango nei
quali, chine, possono entrare solo due persone, e là vedrete i cosacchi
esploratori dei battaglioni del Mar Nero, che vi si cambiano i calzari,
mangiano, fumano la pipa, abitano, e di nuovo noterete ovunque fetido fango,
tracce del campo e ghisa, in ogni forma possibile, buttata qua e là. Trecento
passi più avanti, di nuovo uscite sulla batteria, sulla piazzetta piena di
buche e fortificata tutt'intorno da gabbioni, coperti di terra, da cannoni
sulle piattaforme e da terrapieni. Forse qui vedrete cinque marinai che giocano
a carte sotto il muricciolo e un ufficiale di marina che, avendo notato in voi
un volto nuovo, curioso, con piacere vi mostrerà tutto ciò che ha a sua
disposizione e tutto ciò che vi possa interessare.
Quest'ufficiale, seduto sul
cannone, con tale tranquillità si arrotola una sigaretta di carta gialla, con
tale sicurezza passeggia da una cannoniera all'altra, chiacchiera con voi così
serenamente, senza la minima finzione che, benché le palle vi fischino sopra il
capo più spesso di prima, voi stessi divenite impassibili, rivolgete domande e
ascoltate attentamente i racconti dell'ufficiale. Quest'ufficiale vi parlerà,
ma solo a patto che glielo chiediate, del bombardamento avvenuto il 5, vi dirà
che allora alla sua batteria funzionava solo un cannone, e che, di tutto il
personale di servizio, erano rimaste solo otto persone, ma che tuttavia la
mattina dopo, quella del 6, aveva fatto fuoco da tutti i pezzi; vi dirà che il
5 è caduta una bomba su un rifugio di marinai e ha fatto fuori undici uomini;
dal riparo vi mostrerà le batterie e le trincee nemiche, che da qui non distano
più di trenta o quaranta sagene.
Di una sola cosa ho paura: che, sporgendovi
dalla cannoniera per vedere il nemico, a ciò indotti dal fischio delle palle,
non riusciate a vedere nulla, oppure che, pur vedendo qualcosa, vi stupiate
molto del fatto che questo bianco bastione pietroso, così vicino a voi e dal
quale spuntano fumate bianche, questo bianco riparo è già il nemico, lui, come
dicono soldati e marinai. Anzi, è molto probabile che l'ufficiale della marina,
per vanagloria o semplicemente per togliersi una soddisfazione, vorrà sparare
qualche colpo in vostra presenza. «Mandare l'artigliere e l'aiutante al
cannone», e quattordici marinai, con sollecitudine, allegri, chi ficcandosi la
pipa nella tasca, chi finendo di masticare una galletta, picchiettando con gli
stivali ferrati sulla piattaforma, si recheranno al cannone e lo caricheranno.
Guardateli in volto, osservate il portamento e i movimenti di queste persone:
in ogni ruga di queste facce abbronzate, dagli zigomi sporgenti, in ogni
muscolo, nell'ampiezza di queste spalle, nella grossezza di queste gambe,
infilate in stivali giganteschi, in ogni loro movimento tranquillo, sicuro e
non affrettato, sono visibili le caratteristiche essenziali che costituiscono
la forza del russo: la semplicità e l'ostinazione. Ad un tratto un colpo
assordante, che sconvolge non solo gli organi dell'udito, ma tutto il vostro
essere, vi colpisce al punto da farvi sobbalzare con tutto il corpo. Subito
dopo udite il fischio del proiettile che si allontana, e un fumo denso e
polveroso ricopre voi, la piattaforma e le nere figure dei marinai che vi si
affaccendano. In occasione di questo nostro sparo sentirete diverse voci di
marinai, vedrete la loro animazione e l'espressione di un sentimento che,
forse, non vi sareste aspettati di trovare, e cioè il sentimento dell'odio,
della vendetta contro il nemico, sentimento che si cela nell'anima di ognuno.
«Proprio dritta sulla cannoniera è andata a finire; pare che ne abbia uccisi
due... ecco che li hanno portati via», sentirete le esclamazioni di esultanza.
«Adesso si arrabbia: ora spara verso di noi», dirà qualcuno; e infatti, subito
dopo, vedrete davanti a voi un lampo, del fumo; la sentinella, ritta nel
riparo, griderà: «Ca-a-n-no-ne!».
Un attimo dopo fischia rumorosamente davanti
a voi una palla, si conficca nel terreno e solleva intorno a sé, dalla buca,
schizzi di fango e di pietra. Il comandante della batteria andrà su tutte le
furie, ordinerà di caricare il secondo e il terzo cannone, anche il nemico
comincerà a risponderci e voi proverete delle sensazioni interessanti,
sentirete e vedrete delle cose interessanti. La sentinella griderà di nuovo:
«Can-no-ne!», e voi sentirete lo stesso rimbombo, la medesima esplosione, i
medesimi schizzi; oppure comincerà a strillare «Markela!» e voi allora
sentirete un sibilare uniforme di bomba, abbastanza gradevole e tale che a
malapena vi si possa associare l'idea di terrore, sentirete questo sibilo
avvicinarsi a voi e allontanarsi, poi vedrete una palla nera, un colpo nella
terra, e la bomba esplodere con violenza e fragore. Poi, con sibilo e stridore,
voleranno schegge, nell'aria cominceranno a schizzare le pietre, verrete
sporcati di fango. All'udire questi rumori provate uno strano senso di piacere
e al tempo stesso di terrore. Mentre il proiettile, lo sapete, vola verso di
voi, inevitabilmente pensate tra voi che sta per uccidervi; ma vi sostiene
l'istinto dell'amor proprio, e nessuno può notare la fitta che provate al
cuore. Ma, dopo che il proiettile vi è volato sopra senza colpirvi, tornate a
vivere, e una sensazione gradevole di piacere inesprimibile si impadronisce di
voi, ma solo per un attimo, tanto che trovate un particolare incanto nel
pericolo, in questo gioco tra la vita e la morte; vorreste che sempre più
vicina a voi cadesse una palla o una bomba. Ma ecco che di nuovo la sentinella
grida con la sua voce forte e acuta: «Markela!»; ancora un sibilo, un colpo e
un'esplosione di bomba; ma insieme con questo rumore vi colpisce il lamento di
un uomo.
Vi accostate con i barellieri al ferito che, immerso nel sangue e nel
fango, ha un aspetto un po' strano, disumano. Al marinaio è stata forata una
parte del petto. Nei primi istanti, sul suo volto inzaccherato di fango, si
vedono uno sbigottimento ed una prematura espressione simulata di sofferenza,
caratteristica di chi si trova in tale situazione; ma, mentre gli portano la
barella ed egli stesso vi si sdraia dalla parte del fianco sano, notate che
quest'espressione viene sostituita da un'altra, di esaltazione, di pensiero
nobile e inesprimibile: gli occhi ardono, i denti si serrano, la testa si
solleva a stento e, nel momento in cui lo sollevano, egli fa fermare la barella
e a fatica, con voce tremante, dice ai compagni: «Addio, fratelli!»; vorrebbe
aggiungere qualcosa, certamente qualcosa di commovente, ma riesce solo a
ripetere ancora una volta: «Addio, fratelli!». In quel momento gli si avvicina
un compagno marinaio, si pone sul capo il berretto che il ferito gli porge e
tranquillamente, con indifferenza, agitando le braccia, ritorna al suo cannone.
«Ecco, ogni giorno è così, sette o otto uomini», vi dice l'ufficiale della
marina, rispondendo all'espressione di terrore che si delinea sul vostro volto,
sbadigliando e arrotolandosi una sigaretta di carta gialla... E così avete
visto i difensori di Sebastopoli, nel luogo stesso in cui la difendono, e
tornate indietro senza rivolgere alcuna attenzione, chissà perché, alle palle e
ai proiettili che continuano a fischiare, lungo tutta la strada, fino al teatro
distrutto - passeggiate con animo tranquillo, rinfrancato.
La più importante e
gradita convinzione che ne avete tratto è l'impossibilità che Sebastopoli venga
presa, anzi, non solo che Sebastopoli venga presa, ma addirittura che in
qualche modo sia fatta vacillare la forza del popolo russo, e questa
impossibilità voi l'avete vista non in questa gran massa di traverse, ripari,
trincee intelligentemente collegate, mine e cannoni, ammucchiate le une sopra
gli altri, dei quali non avete capito proprio niente, ma l'avete vista negli
occhi, nelle parole, nei movimenti, in quello che viene definito l'animo dei
difensori di Sebastopoli. Quello che essi fanno, lo compiono con tale
semplicità, con così poca tensione e sforzo, che voi siete convinti che essi
siano in grado di farlo cento volte di più... tutto possono fare.
Capite che il
sentimento che li costringe ad agire non è quel senso di meschinità, di vanità,
di smemoratezza che voi stessi avete provato, ma qualche altro sentimento, più
potente, che ha fatto di loro uomini capaci di vivere sotto il fuoco delle
palle con tanta tranquillità, di fronte a centinaia di probabilità di morire
invece di quell'una alla quale sono soggetti tutti gli uomini, e in grado di
vivere in queste condizioni, tra incessanti fatiche, veglie, e nel fango. Non
si possono accettare tali tremende condizioni solamente per ottenere una croce,
una promozione, o per effetto di una minaccia: ci dev'essere un'altra
motivazione, nobile e stimolante.
E questa motivazione è un sentimento che
raramente e con pudore si manifesta nel russo, ma che è situato nel profondo
dell'anima di ciascuno: l'amore per la patria. Soltanto adesso i racconti sui
primi tempi dell'assedio di Sebastopoli, quando non c'erano fortificazioni, non
c'erano truppe, non c'erano possibilità materiali di mantenerne il possesso, e
tuttavia non v'era il minimo dubbio che la città non sarebbe stata ceduta al
nemico, quando quest'eroe, degno della antica Grecia, Kornilov, passando le
truppe in rassegna, esclamava: «Moriremo! Urrà! Ma non cederemo Sebastopoli!»,
e i nostri, incapaci di costruire delle frasi, rispondevano: «Moriremo! Urrà!»,
solo adesso i racconti su quei tempi hanno finito di rappresentare per voi una
stupenda leggenda storica, e sono invece divenuti autenticità, fatto.
Capirete
bene, rivedrete in quegli uomini, che poc'anzi avete visto, quegli eroi che in
tali difficili momenti non sono caduti nello sconforto, ma si sono esaltati
nell'animo e con gioia si sono preparati a morire, non per la città, ma per la
patria. A lungo questa epopea di Sebastopoli lascerà in Russia tracce profonde,
ed eroe di questa epopea è stato il popolo russo... Si fa già sera.
Il sole,
sul far del tramonto, si è ritirato dietro nuvole grigie che oscurano il cielo,
e d'un tratto ha illuminato di luce purpurea le nuvole lilla, il mare verdastro
che, coperto di navi e di scialuppe, si culla in onde ampie e regolari, i
bianchi edifici della città, e la gente che cammina per le strade.
Sull'acqua
si diffondono le note di un vecchio valzer, che la banda del reggimento esegue
sul viale, e i rumori degli spari provenienti dai bastioni fanno loro da eco in
modo strano.
Sebastopoli, 25 aprile 1855
da: I racconti di Sebastopoli - Lev Nicolaevic Tolstoj
Buona giornata a tutti :-)
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