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venerdì 16 febbraio 2024

da:"Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare" - Franco Nembrini

 "...Che cosa era mancato nell’educazione che avevo ricevuto? Era successo ai miei genitori quel che sarebbe accaduto al padre di una mia alunna qualche anno dopo. Vi racconto brevemente l’episodio.
Una volta è venuto a trovarmi il papà di una mia alunna (un po’ strana, un po’ fuori di testa), molto preoccupato e addolorato per la figlia che lo faceva tribolare. Suonò il campanello quella sera a casa mia, cenammo insieme, e alla fine, affrontando il problema che gli stava a cuore scoppiò a piangere, si tirò su la manica della camicia facendomi vedere le vene e, quasi urlando disperatamente, mi disse (siccome aveva capito che tra me e sua figlia, invece, un po’ di feeling era nato, ci si intendeva, insomma), mi disse, battendosi la mano sul braccio: “Professore, io la fede ce l’ho nel sangue, ma non la so più dare a nessuno. Può farlo lei? Lei può farlo: lo faccia, per carità, perché io ce l’ho nel sangue, ma non la so più comunicare nemmeno a mia figlia”.
Ecco, lì m’è venuta l’idea che il problema della Chiesa fosse il metodo, la strada, che tutta la genialità del contributo che don Giussani offriva alla Chiesa e al mondo era questo: la scoperta che la fede, tornando ad essere un avvenimento presente, fosse finalmente dicibile, comunicabile.
Poi ho capito che tutto il dramma di quel genitore era questo: pensava che tra lui e sua figlia ci fosse una generazione di differenza, e invece s’erano infilati tra lui e sua figlia quattrocento anni, cinquecento anni di una cultura che aveva negato tutta la sua tradizione e le cose di cui lui viveva, e che televisione e scuola – dal secondo dopoguerra in poi – avevano infilato tra lui e sua figlia.
Ecco cosa era mancato ai miei genitori e a quel padre: la consapevolezza di questa distanza e il metodo, la strada per superarla. E la si poteva superare solo riproponendo il cristianesimo nella sua elementare radicalità: una presenza viva, capace di illuminare le contraddizioni dell’esistenza in modo convincente.
Non la soluzione dei problemi ma un nuovo punto di vista da cui affrontarli, non una teoria contrapposta ad altre teorie, ma, per dirla con Guardini “l’esperienza di un grande amore nel quale tutto diventa avvenimento nel suo ambito”

(Franco Nembrini)




“...che i bambini di oggi siano più intelligenti è una menzogna, sono solo iperstimolati dalla televisione e da tante altre cose, ma sono superficiali, non interiorizzano nulla, non hanno giudizi o criteri propri, sono totalmente nelle mani del potere, di chi grida di più, dei giornali che leggono, di quello che ascoltano. Così a trent'anni possono avere una certa opinione al mattino quando si alzano, possono aver cambiato opinione a mezzogiorno e averne un'altra ancora diversa alla sera. 
Il cuore dell'uomo desidera unicamente conoscere la verità, mentre questi ragazzi crescono in un relativismo che fa loro dire: «Beh, in qualunque caso la verità non esiste!». 
Il cuore dell'uomo ha la necessità di costruire qualcosa di buono, e invece questi ragazzi sono come impossibilitati a costruire, non portano a termine nulla, e per questo c'è uno scetticismo terribile e una paura grande ad affrontare la vita.”

- Franco Nembrini - 
"Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare"



"Ci servono amici per sostenere questo impegno, questo sforzo di un «io» che si addentra nel mondo. Se mi chiedessero qual è la ragione per cui Dio è venuto sulla terra, risponderei che è per dare la possibilità dell' amicizia tra gli uomini, qualcosa di apparentemente impossibile che comincia a essere possibile: «Vi ho chiamati amici!» (Gv 15, 15; tra l'altro nel Vangelo l'unico a cui Gesù si è rivolto chiamandolo direttamente «amico» è stato colui che lo ha tradito...).

- Franco Nembrini - 
Da "Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare"



«Le crisi di insegnamento non sono crisi di insegnamento; sono crisi di vita. Una società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima; e questo è precisamente il caso della società moderna»

- Charles Peguy - 




Buona giornata a tutti. :-)


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mercoledì 14 giugno 2023

Il potere dei Media - Noam Chomsky

 Prima parlavo dello scopo dei media e delle élite opportunamente indottrinate. Ma che dire della maggioranza ignorante e intrigante? 
Essa deve in qualche modo essere distratta. 
Le si possono propinare semplificazioni e illusioni emotivamente potenti, cosicché sia capace di scimmiottare la linea di partito. 
La linea principale è comunque quella di tenerla fuori. 
Le si lasci fare cose prive di importanza, la si lasci urlare per una squadra di calcio o divertirsi con una soap opera. 
Ciò che si deve fare è creare un sistema adatto nel quale ciascun individuo rimanga incollato al tubo catodico. 
E' un noto principio delle culture totalitarie quello di voler isolare gli individui: se ne discute dal secolo XVIII. 
Per la cultura totalitaria è estremamente importante separare tra loro le persone.
Quando la maggioranza "ignorante e deficiente" sta insieme può capitare che si faccia venire strane idee.
Se invece si tengono gli individui isolati, non è interessante se pensano e quello che pensano. Dunque bisogna tenere la gente isolata, e nella nostra società ciò significa incollarla alla televisione. 
Una strategia perfetta. Sei completamente passivo e presti attenzione a cose completamente insignificanti, che non hanno alcuna incidenza.
Sei obbediente. Sei un consumatore. 
Compri spazzatura della quale non hai alcun bisogno. Compri un paio di scarpe da tennis da 200 dollari, perché le usa Magic Johnson. E non rompi le scatole a nessuno.
Se vuoi uccidere quel bambino che sta vicino a casa tua, fallo pure, questo non ci preoccupa. 
Ma non cercare di depredare i ricchi. Uccidetevi fra voi, nel vostro ghetto. Questo è il trucco. 
Questo è ciò che i media hanno il compito di fare. Se si esaminano i programmi trasmessi dalla televisione si vedrà che non ha molto senso interrogarsi sulla loro veridicità. E infatti nessuno si interroga su questo. L'industria delle pubbliche relazioni non spende miliardi di dollari all'anno per gioco. L'industria delle pubbliche relazioni è un invenzione americana che è stata creata all'inizio di questo secolo con lo scopo, dicono gli esperti, "di controllare la mente della gente, che altrimenti rappresenterebbe il pericolo più forte nel quale potrebbero incorrere le grandi multinazionali".
Questi sono i metodi per attuare questo genere di controllo.

Tratto da: Noam Chomsky "Il potere dei media" - Vallecchi


...
I "metodi scientifici di gestione" furono messi a punto - sempre in quegli anni (1930) - anche per interrompere gli scioperi. Si comprese che i media dovevano essere saturati con una serie di convinzioni appropriate: questo sistema fu applicato a Johnstown, in Pennsylvania, durante lo sciopero dei metalmeccanici del 1936-37. L'operazione riuscì. 
Da allora questo metodo prese il nome di "formula di Mohawk Valley" (dove si trovava Johnstown). L'idea fu quella di inserirsi nei gruppi di scioperanti, di saturarli di propaganda attraverso i media - e le chiese - in modo tale che alla fine ognuno di loro avesse chiara in mente l'esistenza di due gruppi contrapposti: noi e loro. 
"Noi" erano i lavoratori che continuavano a lavorare e le loro mogli che si curavano della casa. 
Le schiave che per venti ore al giorno aiutavano i lavoratori. Gli "altri" erano i cani sciolti, i diversi, gli anarchici, gli elementi di disturbo, i leader sindacali, coloro cioè che cercavano di rompere l'armonia e la pace della comunità. Dobbiamo proteggerci, dicevano i "Noi", dobbiamo proteggerci dagli estremisti che cercano di disturbare la nostra armonia. 
Questa strategia ebbe grande successo. E questa è l'immagine dello sciopero che ancora viene propagandata e che la maggioranza condivide: rottura dell'armonia. Si guardino le immagini che delle lotte dei lavoratori danno i media, le soap opera, i film.

Tratto da: Noam Chomsky "Il potere dei media" - Vallecchi 























Buona giornata a tutti. :-)

martedì 6 settembre 2022

I primo giorno di scuola da: "Cuore" (1886) - Edmondo De Amicis

 OTTOBRE 

Il primo giorno di scuola 
17, lunedì 

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s'accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: - Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? - Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signori, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nell'altra, empivan la stanza d'entrata e le scale, facendo un ronzio che pareva d'entrare in un teatro. Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. folla, le maestre andavano e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: - Enrico, tu vai al piano di sopra, non ti vedrò nemmen più passare! - e mi guardò con tristezza. 

Il Direttore aveva intorno delle donne tutte affannate perché non c'era più posto per i loro figliuoli, e mi parve ch'egli avesse la barba un poco più bianca che passato. 
Trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. 
Al pian terreno, dove già fatte le ripartizioni, dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s'impuntavano come somarelli, bisognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; altri, al veder andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dovevan tornare indietro a consolarli o a ripigliarseli, e le maestre si disperavano. 
Il mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; io dal maestro Perboni, su al primo piano. 
Alle dieci eravamo tutti in classe: cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della seconda, fra i quali Derossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne dove passai l'estate! 
Anche ripensavo al mio maestro di seconda, così buono, che rideva sempre con noi, e piccolo, che pareva un nostro compagno, e mi rincresceva di non vederlo più là, coi suoi capelli rossi arruffati. 
Il nostro maestro è alto, senza barba coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, l'un dopo come per leggerci dentro; e non ride mai. 
Io dicevo tra me: - Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. 
Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche! - Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all'uscita e corsi a baciarle la mano. 
Essa mi disse: - Coraggio Enrico! Studieremo insieme. - E tornai a casa contento. 
Ma non ho più il mio maestro, con quel sorriso buono e allegro, e non mi par più bella come prima la scuola.

 - Edmondo De Amicis -
da: "Cuore" Primo capitolo




"Il primo giorno di scuola? Siamo usciti fuori. Abbiamo cercato il nostro centro. Ci abbiamo messo una lumaca e ci abbiamo costruito intorno e in tondo cerchi di pere selvatiche, di foglie secche, di ghiande e legnetti, di sassolini colorati, di cous cous, di fave e lenticchie, di riso, di stracciabraghe, di mirto odoroso … 
Il nostro universo – che è sempre pluriverso – inizia da qui. 
Dal nostro mandala di semi di terra. 
Da questa armonia. 
Dal tempo che ci prenderemo senza fretta, il tempo che ci serve per imparare e vivere, per la scuola che vogliamo, lenta, profonda e dolce...."

Rosaria Gasparro , maestra





Insegnare è probabilmente la professione più nobile, altruista, difficile e rispettabile del mondo, ma è anche la meno apprezzata, la più sottovalutata, la più malpagata e la meno gratificante professione del mondo.

- Leonard Bernstein - 
direttore d'orchestra



Troppe decorazioni in classe inducono a distrarre gli alunni e ad ottenere un basso livello di attenzione.
Paradossalmente gli alunni delle aule spoglie sono più fortunati degli altri dato che imparano meglio e più facilmente.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Science, le classi troppo decorate danneggiano l’apprendimento degli scolari.
Secondo Anna V.Fisher, Karrie E. Godwin e Howard Seltman, professori all’Università di Carnegie-Mellon di Pittsburgh, disegni, cartelli, fogli appesi, riescono solo a distrarre gli alunni.

“I bambini passano la maggior parte del tempo in una aula scolastica e abbiamo dimostrato che la decorazione di questa influisce molto sul loro apprendimento.” spiega Anna Fisher, autrice dello studio.


Quando noi andavamo a scuola, crescevamo con l’idea che se uno lavorava sodo e bene, poi poteva andare all’università, e trovare un buon lavoro; i ragazzi di oggi non credono più a questo modello, e non si sbagliano del tutto. È vero che è meglio avere una laurea, ma questo non garantisce il fatto di trovare un lavoro, specialmente se il percorso per raggiungerlo ti porta a marginalizzare le cose che tu pensi siano importanti. Si parla così di “alzare gli standard”, tutti parlano di “alzare gli standard”, del resto perché bisognerebbe abbassarli?

- Ken Robinson - 
educatore



Buona giornata a tutti :-)

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venerdì 2 settembre 2022

Gigino di Giovanni Guareschi

Gigino si sentì addosso gli occhi della madre e delle due sorelle, ma non alzò la testa dal piatto. La cameriera tornò in cucina e la signora ripeté: «E allora?». «Ho parlato con tutti i professori e col preside» spiegò il padre. «Hanno detto che va ancora peggio dell’anno scorso.» Gigino aveva quattordici anni ed era in seconda media: ripetente della seconda media, dopo aver fatto per due anni la prima.

« Mascalzone!» disse la signora rivolta verso Gigino. «Lezioni private di latino, lezioni di matematica, soldi, sacrifici!» A Gigino vennero le lacrime agli occhi. La signora si protese sopra la tavola, agguantò Gigino per i capelli e gli sollevò il viso. «Mascalzone!» ripetè. Si sentì ciabattare la cameriera e la signora si ricompose. Quando la ragazza se ne fu andata, la signora si rivolse al marito: «Ma cosa fa? Che mascalzonate combina?». «Niente» spiegò il padre allargando le braccia. «Come condotta è a posto e nessuno si lamenta.

Quando lo interrogano non risponde, quando fa i compiti in classe non riesce a scrivere una parola che non sia una bestialità. I professori non me lo hanno detto ma mi hanno fatto capire che per loro è un cretino.» «Non è un cretino!» gridò la signora. «È un vigliacco! Ma è ora di finirla: bisogna trovare il modo di farlo studiare. Sono pronta a sopportare tutti i sacrifici dell’universo, ma deve andare in collegio.» Le due sorelle guardarono Gigino con disprezzo. «Per causa sua poi ne dobbiamo soffrire noi!» esclamò la maggiore che era già all’università. «Dobbiamo soffrirne noi che non ne abbiamo nessuna colpa» aggiunse l’altra che era una delle brave del liceo. «Ne soffriamo tutti» disse il padre. «Quando in una famiglia c’è una disgrazia pesa su tutti. A ogni modo, a costo di scannarmi, lo metterò in collegio.» Gigino era un ragazzo timido, di quelli che parlano poco: ma quella volta la disperazione lo prese e parlò. «Non voglio più studiare!» disse. «Voglio fare il meccanico!»

La signora scattò in piedi e diede uno schiaffo a Gigino. «Voglio fare il meccanico!» ripetè Gigino. Il padre intervenne: «Calmati, Maria. Non bisogna far scenate. Lascialo dire: andrà in collegio e là troveranno il modo di farlo studiare». «Non voglio più studiare!» insistette Gigino. «Voglio fare il meccanico.» «Vattene nella tua stanza!» disse il padre. Gigino se ne andò e il consesso riprese la discussione.«È più che mai necessario chiuderlo in collegio» affermò la signora. «Oramai si ribella e qui succederebbero scenate d’inferno.» «Provvedere subito» assicurò il padre. «Oggi sono riuscito a mantenermi calmo, ma in seguito non so se ci riuscirei più.» «È un ragazzo che ci farà rodere il fegato a tutti» disse la signora. «D’altra parte non possiamo permettere che, a forza di ripetere le classi, diventi la favola della città.

Quando si ha un decoro bisogna mantenerlo a ogni costo.» «Certamente» approvò il padre. «Il figlio del nostro usciere che ha fatto la prima media con Gigino è già due classi più avanti di lui.» La signora ebbe una crisi di pianto e le due ragazze guardarono con aria di rimprovero il padre. Non c’era nessuna necessità, perbacco, di dire una cosa simile. Ma il padre aveva da tanto quella cosa lì, sullo stomaco, e doveva ben dirla.

Gigino arrivò con la corriera delle sei del pomeriggio. Gironzolò per il paese e subito venne sera. Incominciò a piovigginare e il ragazzo si riparò sotto il porticato in fondo alla piazzetta. Guardò le vetrine delle tre o quattro bottegucce. Aveva ancora in tasca duecento lire e avrebbe voluto entrare nel caffè per bere una tazza di latte, ma non trovava il coraggio di farlo. Traversò la piazza e andò a rifugiarsi nella chiesa. Si mise nell’angolo più nascosto e, verso le dieci, quando don Camillo andò a dar la buona notte al Cristo dell’altar maggiore, trovò Gigino addormentato su una panca.

Il ragazzo, svegliato d’improvviso dall’urlaccio di don Camillo, vedendosi davanti quell’omaccio nero che pareva ancora più colossale nella penombra della chiesa, sbarrò gli occhi. «Cosa fai qui?» domandò don Camillo.

«Scusi signore» balbettò il ragazzo. «Mi sono addormentato senza volere.» «Ma che signore!» borbottò don Camillo. «Non vedi che sono un prete?» «Scusi, reverendo» mormorò il ragazzo «vado via subito.»

Don Camillo vide quei due grandi occhi pieni di lacrime e agguantò per una spalla Gigino che già s’era avviato verso la porta. «E dove vai?» domandò. «Non lo so» rispose Gigino. Don Camillo cavò fuori dall’ombra il ragazzo, lo spinse davanti all’altar maggiore dove c’era luce, e lo squadrò attentamente. «Oh, un signorino» disse alla fine. «Vieni dalla città?» «Sì.» «Vieni dalla città e non sai dove vai. Hai del danaro?» «Sì» rispose il ragazzo mostrando i due biglietti da cento lire. Don Camillo si avviò verso la porta rimorchiandosi Gigino.

Quando furono arrivati in canonica, don Camillo prese tabarro e cappello: «Seguimi» disse brusco. «Andiamo a sentire cosa pensa di questa storia il maresciallo.» Gigino lo guardò sbalordito. «Non ho fatto niente» balbettò. «E allora perché sei qui?» urlò don Camillo. Il ragazzo abbassò la testa. «Sono scappato da casa» spiegò. «Scappato. E per qual ragione?» «Vogliono per forza farmi studiare, ma io non capisco niente. Io voglio fare il meccanico.»

«Il meccanico?» «Sì, signore. Tanti fanno il meccanico e sono contenti. Perché non posso essere contento anch’io?»

Don Camillo riappese all’attaccapanni il tabarro. La tavola era ancora apparecchiata. Don Camillo frugò nella credenza e trovò un po’ di formaggio e un pezzettino di carne. Poi si mise a sedere e stette a guardarsi come uno spettacolo Gigino che mangiava secondo tutte le regole della buona creanza. «Il meccanico vuoi fare?» domandò a un certo punto. «Sì, signore.» Don Camillo si mise a ridere e il ragazzo arrossì. Il letto dell’ospite era sempre pronto, al primo piano, e così non fu difficile sistemare il ragazzo. Prima di lasciarlo solo nella stanza, don Camillo gli buttò sul letto il suo tabarro. «Qui non ci sono i termosifoni» spiegò. «Qui fa freddo sul serio.» Prima di addormentarsi, don Camillo si rigirò nel letto parecchio. «Il meccanico» borbottava. «Vuole fare il meccanico!»

La mattina don Camillo si alzò come il solito che era ancor buio, per la prima Messa: ma stavolta si studiò di non fare baccano per non svegliare il signorino che dormiva nella stanzetta vicina. E, prima di scendere, aperse cautamente la porta per controllare se tutto funzionava bene nella camera dell’ospite. E trovò il letto rifatto alla perfezione e Gigino seduto nella sedia ai piedi del letto. La cosa lo lasciò sbalordito. «Perché non dormi, tu?» disse di malumore.

« Ho già dormito.» Quella mattina pioveva e faceva un freddo infame e così l’unico ad ascoltare la Messa di don Camillo era Gigino. E don Camillo fece anche il suo bravo sermoncino e parlò dei doveri dei figli, e del rispetto che i figli debbono avere per la volontà dei genitori, e fu uno dei discorsi nei quali mise maggiore impegno. E il povero Gigino, solo e sperduto nella chiesa semibuia e deserta dove la voce tonante del colossale sacerdote rimbombava e ingigantiva, sentendosi dire «voi ragazzi», aveva l’idea di essere responsabile, davanti a Dio, dei peccati di tutti i ragazzi dell’universo. « Nome, cognome, paternità, luogo e data di nascita, luogo di residenza e numero del telefono!» ordinò don Camillo a Gigino quando ebbero consumata la colazione. Il ragazzo lo guardò impaurito poi disse tutto quello che doveva dire e don Camillo andò al posto pubblico a telefonare. Gli rispose la signora. «Vostro figlio è mio ospite. Non datevi pensiero perché qui è al sicuro da ogni pericolo» spiegò don Camillo dopo essersi qualificato. Poi sopraggiunse il padre e don Camillo rassicurò anche lui e gli diede un consiglio: il ragazzo era un po’ scosso.

Si rendeva conto del male che aveva fatto ed era pentito sinceramente. Lo lasciassero tranquillo qualche giorno da lui che avrebbe fatto in modo di convincerlo a mettersi di buona volontà a studiare come intendevano i genitori. Avrebbero, a loro completa sicurezza, ricevuto dal vescovado conferma di quanto appreso attraverso il telefono. Telegrafassero se permettevano che il ragazzo rimanesse qualche giorno ospite di don Camillo. Il telegramma arrivò nel primo pomeriggio.«I tuoi genitori ti hanno concesso di restare con me un po’ di tempo» disse allora don Camillo a Gigino.

E Gigino finalmente sorrise. Don Camillo si mise il tabarro e uscì con Gigino. Arrivarono fino all’estremità del paese e si fermarono davanti all’officina di Peppone. Peppone stava smontando pezzo per pezzo un motore d’automobile e, quando vide don Camillo, buttò per terra la chiave inglese e si mise i pugni sui fianchi. «Qui non si parla di politica» disse cupo Peppone «qui si lavora.» «Bene» rispose don Camillo accendendo il suo mezzo toscano. Poi spinse avanti Gigino. «Che roba è?» domandò Peppone. «Questo è un borghese che è scappato di casa perché lo vogliono far studiare e invece lui vuol fare il meccanico. Ti interessa?» Peppone guardò il ragazzo esile ed elegante poi sghignazzò. «Tu vuoi fare il meccanico?»

« Sì, signore» rispose Gigino. «Qui non ci sono signori!» urlò Peppone.

E gli occhi di Gigino si riempirono di lacrime. «Sì, capo» sussurrò Gigino. Peppone grugnì, si volse, raccolse la chiave inglese e riprese a lavorare accanto al motore. Gigino guardò don Camillo e don Camillo gli fece cenno di sì. Allora Gigino si tolse il cappottino e, sotto, aveva la sua brava tuta di tela blu. Peppone buttò via la chiave inglese e cominciò a lavorare con le chiavi fisse. Svitò quattro dadi del sedici poi gli serviva la chiave del quattordici. È se la trovò davanti al naso. Tremava, la chiave del quattordici, perché Gigino aveva una paura maledetta, ma era una chiave del quattordici e Peppone la agguantò con malgarbo. Don Camillo allora si avviò; quando fu sulla porta si rivolse a Gigino: «Giovanotto» disse «qui si lavora, non si fa della politica. Se senti quel disgraziato lì parlare di politica, lascia tutto e torna a casa». Peppone levò gli occhi e guardò cupo don Camillo.

Il padre arrivò dopo una decina di giorni e don Camillo lo ricevette con tutti i riguardi. «Ha messo la testa a posto?» s’informò il padre. «È un bravo ragazzo» rispose don Camillo.«Dov’è adesso?» «Sta studiando» rispose don Camillo. «Lo andiamo a trovare.» Quando giunsero all’officina di Peppone don Camillo si fermò e aperse la porta. Gigino stava lavorando alla morsa con la lima. Venne avanti Peppone e il padre di Gigino lo guardò a bocca aperta. «È il padre del ragazzo» spiegò don Camillo. «Ah!» disse Peppone con aria poco benevola squadrando diffidente il signore pieno di dignità. «Fa bene?» balbettò il signore. «È nato per fare il meccanico» rispose Peppone. «Fra un anno non saprò più cosa insegnargli e bisognerà mandarlo in città a lavorare nella meccanica di alta precisione.» Don Camillo e il padre di Gigino tornarono in silenzio alla canonica. «Cosa dico a mia moglie?» domandò sgomento il padre di Gigino.

Don Camillo lo guardò. «Dica la verità: lei è contento di aver preso una laurea e di essere finito caporeparto in un ufficio statale?» « Il mio sogno era di diventare specialista di motori a scoppio» sospirò il padre di Gigino. Don Camillo allargò le braccia: «Dica questo a sua moglie!». Il padre di Gigino sorrise tristemente. «Preghi per me, reverendo. Verrò tutte le settimane a trovare Gigino. Se occorre qualcosa mi scriva. Non a casa però: mi scriva in ufficio.» Poi si fece raccontare come era andata la faccenda della presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare della chiave del quattordici che era proprio del quattordici e ci voleva quella del quattordici, gli brillavano gli occhi. «Mio padre» esclamò «era il primo tornitore della città. Buon sangue non mente!»


#scuola #educazione #lavoro

Ho sentito che c’è chi propone di innalzare l’età dell’obbligo scolastico a 18 anni e non ho potuto fare a meno di pensare ai miei anni scolastici, ai miei desideri ..... 

Ricordo i volti di alcuni compagni di classe. Stare seduti in un banco era un “supplizio” e non vedevano l’ora di conseguire il diploma di 3a Media per entrare nel mondo del lavoro, nell'officina del padre. All'epoca c'erano ancora i tre anni di Avviamento Professionale.

Poi, (se non sbaglio nel 2006) l’obbligo scolastico è stato innalzato all’età di 16 anni. 

Sicuramente al giorno d'oggi abbiamo bisogno di lavoratori laureati preparati ma è più che scontato affermare quanto siano indispensabili e preziosi, in vari settori, buoni artigiani preparati e motivati!


Buona giornata a tutti :-)

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giovedì 16 settembre 2021

Studiate! - F. De Berardinis

Studiate!

Per amore del sapere, mai per i voti.

Perché sapere aiuta ad essere.

E sapere tanto aiuta ad essere tanto.

Studiate!

Perché la cultura rende liberi

e niente vale di più della libertà.

Studiate!

Perché siamo le parole che conosciamo,

perché il pensiero crea la realtà.

Studiate!

Perché non conoscerete mai la noia

se amerete un libro, un paesaggio,

un quadro o la settimana enigmistica.

Studiate!

Perché studiando capirete le vostre qualità, le vostre inclinazioni, i vostri punti deboli.

Studiate la storia, perché il passato illumina il presente.

Studiate la geografia perché ogni luogo è anche un fiume, una montagna, un vento.

Studiate la matematica perché nella vita spesso i conti non tornano e bisogna trovare soluzioni alternative.

Studiate le lingue straniere, perché i viaggi sono le lezioni di vita più belle.

Studiate la biologia perché capire come fa a battere il cuore o perché il battito accelera se vi innamorate è meraviglioso.

Studiate la filosofia perché imparerete a ragionare e a guardare il mondo dalle prospettive più originali.

Studiate la letteratura perché vivrete molte vite e vedrete posti incredibili da casa.

Studiate la grammatica perché la differenza tra un accento e un apostrofo non è mai un dettaglio.

Studiate la musica, l’arte e la poesia!

Perché la bellezza è emozione e terapia.

Studiate la fisica e la chimica perché nell’atomo e nelle molecole si celano energie potentissime.

Studiate!

Perché quando smetti di imparare smetti di vivere.

Studiate ció che vi piace ma anche ció che ora vi sembra inutile.

Perché un giorno, quando meno ve lo aspettate, ne capirete il senso.

Studiate!

Senza pretendere troppo da voi stessi e senza rinunciare mai allo svago, allo sport e alle emozioni.

Perché lo studio viene sempre dopo il vostro benessere!

Studiate!

Senza temere di dimenticare qualcosa.

Perché i buchi di memoria servono a fare spazio.

Perché la scuola serve a trasformare specchi in finestre, non a giudicarvi.

 - F. De Berardinis



Mio Dio,
ti ringrazio di tutti i doni che mi fai. Concedimi di usarne sempre per la Tua gloria, per la mia santificazione, per il bene degli altri.
Dammi un cuore lieto, benedici la mia famiglia, proteggi i miei studi, illumina i miei insegnanti, assisti i miei compagni.

Per i meriti e l'intercessione di san Giuseppe da Copertino che, pur provando la fatica dello studio e l-ansia degli esami, ebbe la gioia della premiazione invocando la materna assistenza della Madonna, guida la mia mente, rendi tenace la mia volontà e generoso il mio impegno perché adempia il mio dovere e meriti promozioni.

Amen.


Buona giornata a tutti :-)




sabato 15 maggio 2021

Com’è difficile essere padri - Franco Nembrini

1)"La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, 
si burla dell'autorità e non ha alcun rispetto degli anziani.
I bambini di oggi sono dei tiranni, non si alzano 
quando un vecchio entra in una stanza, 
rispondono male ai genitori, in una parola; sono cattivi."

2)"Non c'è più alcuna speranza 
per l'avvenire del nostro paese 
se la gioventù di oggi prenderà il potere domani, 
poiché questa gioventù è insopportabile, 
senza ritegno, terribile."

3)"Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, 
i ragazzi non ascoltano più i loro genitori:
la fine del mondo non può essere lontana."

4)"Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore.
I giovani sono maligni e pigri,
non saranno mai come la gioventù di una volta;
quelli di oggi non saranno capaci 
di mantenere la nostra cultura."

La prima è di Socrate (470 a.C.),
la seconda è di Esiodo (720 a.C.), 
la terza è di un sacerdote dell’antico Egitto (2000 a.C.) 
e l’ultima è un’incisione su un vaso di argilla 
dell’antica Babilonia (3000 a.C.). 
_____________________________________
È solo per dire: piantiamola di farci del male; 
l’educazione è in questa situazione da mò!!!


- Franco Nembrini -
in “Com’è difficile essere padri” 
Centro culturale di Milano 

Franco Nembrini



"...e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli."
"Il problema coi figli o con gli alunni non può essere farli diventare cristiani, farli pregare, farli andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le distanze.
Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano: quando giocano non giocano mai soltanto, qualsiasi cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.
Lieto e forte non perché sei perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male) ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere ogni giorno di essere perdonato.
Così tra l’altro con loro sei libero, anche di sbagliare, libero dall’angoscia di dover far vedere una coerenza impossibile, perché il tuo compito di padre è semplicemente quello di guardare un ideale grande, sempre, e loro ti tentano, loro tendono l’elastico, ti mettono alla prova sempre: sono tutti figliol prodighi."

- Franco Nembrini - 
da: "Di padre in figlio. Conversazioni sul rischio di educare"




A un concorso di 10 posti di impiegato si presentano a volte in 200.000. Quanto studio! Quanto impegno e fatica! Per il corso matrimoniale, niente o quasi: ci si sposa senza aver letto, neppure per mezz’ora, un libro sull’educazione o aver discusso su di essa. Per costruire un ponte si richiedono titoli e onestà professionale. E per impiantare un uomo? E’ incredibile la leggerezza con cui vengono affrontate la maternità e la paternità ai nostri giorni! Si è fatto tanto per il controllo delle nascite, e per il controllo dei genitori? 

- Pino Pellegrino - 




"Ma pensiamo che le prime vittime, le vittime più importanti, le vittime che soffrono di più in una separazione sono i figli. 
Se sperimenti fin da piccolo che il matrimonio è un legame “a tempo determinato”, inconsciamente per te sarà così. In effetti, molti giovani sono portati a rinunciare al progetto stesso di un legame irrevocabile e di una famiglia duratura. Credo che dobbiamo riflettere con grande serietà sul perché tanti giovani “non se la sentono” di sposarsi. C’è questa cultura del provvisorio … tutto è provvisorio, sembra che non c’è qualcosa di definitivo”.

Papa Francesco, Udienza Generale, mercoledì 29 aprile 2015



Buona giornata a tutti. :-)


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giovedì 11 marzo 2021

Segui il tuo sogno - Jack Canfield

"Ho un amico di nome Monty Roberts che possiede una tenuta con allevamento di cavalli a San Ysidro. Mi lascia usare la sua casa per organizzare manifestazioni volte a raccogliere fondi per programmi a favore dei giovani a rischio.
L'ultima volta che ero lì mi presentò dicendo: "Voglio spiegarvi perché lascio che Jack usi la mia casa." 
Tutto risale alla storia di un giovane che era figlio di un addestratore di cavalli itinerante, il quale andava di stalla in stalla, di pista in pista, di fattoria in fattoria e di allevamento in allevamento per addestrare i cavalli.
Di conseguenza la frequenza scolastica del ragazzo alle superiori era continuamente interrotta. Quando fu all'ultimo anno gli fu assegnato un compito su cosa volesse fare da grande.
Quella sera scrisse un tema di sette pagine descrivendo il suo obiettivo di possedere un giorno un allevamento di cavalli. Descrisse con dovizia di particolari il suo sogno e addirittura disegnò lo schema di una tenuta di ottanta ettari, indicando l'ubicazione di tutti gli edifici, delle stalle e della pista.
Poi disegnò la pianta dettagliata di una casa di 400 metri quadri da inserire nella tenuta di sogno di ottanta ettari. Elaborò con passione il progetto e il giorno successivo lo consegnò all'insegnante.
Due giorni dopo il compito gli fu riconsegnato. Sulla prima pagina vi era in rosso una insufficienza con un appunto che diceva: "Vieni da me dopo la lezione."
Il ragazzo che aveva il sogno andò dall'insegnante dopo la lezione e domandò: "Perché ho preso un'insufficienza?" 
L’insegnante rispose:
"È un sogno irrealistico per un ragazzo come te. Non hai soldi. Provieni da una famiglia itinerante. Non hai risorse. Possedere un allevamento di cavalli richiede un sacco di soldi.
Devi acquistare il terreno. Devi pagare le fattrici e poi spendere molti soldi per gli stalloni. Non hai nessuna possibilità di farcela."
Poi l’insegnante aggiunse: "Se riscrivi il compito con un obiettivo più realistico, rivedrò il tuo voto."
Il ragazzo andò a casa e ci pensò su a lungo. Domandò a suo padre cosa fare. Il padre rispose: "Guarda, figliolo, devi decidere tu da solo. Tuttavia penso che sia una decisione importante per te."
Infine, dopo una settimana di riflessione, il ragazzo riconsegnò lo stesso compito, senza alcun cambiamento, dichiarando: "Può tenersi l'insufficienza, IO MI TERRO' IL MIO SOGNO."

Monty si rivolse poi al gruppo riunito e disse: "Vi racconto questa storia perché voi vi trovate nella mia casa di 400 metri quadri in mezzo alla mia tenuta di ottanta ettari. Ho ancora quel compito di scuola incorniciato sopra il caminetto."
Aggiunse: "La parte più bella della storia è che due estati fa quello stesso insegnante portò trenta ragazzi in campeggio nella mia tenuta per una settimana. Nell'andarsene, l'insegnante mi disse:
"Vedi, Monty, adesso posso dirtelo.Quando ero il tuo insegnante ero una specie di ladro di sogni. In quegli anni ho rubato molti sogni ai ragazzi.
Fortunatamente tu hai avuto abbastanza fegato da NON RINUNCIARE al tuo." 

Non lasciate che vi rubino i sogni. Seguite il vostro cuore, accada quel che accada." 

- Jack Canfield & Mark Victor Hansen -
Fonte: “Brodo caldo per l'anima” di  Jack Canfìeid e  Mark Victor Hansen,  Armenia Edizioni, 2004



Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro.
Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone.
Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore.
E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione.
In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario. 

- Steve Jobs - 




Arrendersi e prendersela con Dio, con la vita o con gli altri non richiede alcuno sforzo. 
Rimettersi in piedi assumendosi la responsabilità della propria vita e della propria felicità spesso ne richiede uno grosso, ma questa è la differenza fra vivere e sopravvivere.

- Claudia Rainville - 
da "Cambia la Tua Vita"


E allora impara a vivere. 
Tagliati una bella porzione di torta con le posate d’argento. 
Impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. 
Apri gli occhi. 
Impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di Natale. Apri le narici. Annusa la neve. Lascia che la vita accada. 

- Sylvia Plath -