« Mascalzone!» disse la signora
rivolta verso Gigino. «Lezioni private di latino, lezioni di matematica, soldi,
sacrifici!» A Gigino vennero le lacrime agli occhi. La signora si protese sopra
la tavola, agguantò Gigino per i capelli e gli sollevò il viso. «Mascalzone!»
ripetè. Si sentì ciabattare la cameriera e la signora si ricompose. Quando la
ragazza se ne fu andata, la signora si rivolse al marito: «Ma cosa fa? Che
mascalzonate combina?». «Niente» spiegò il padre allargando le braccia. «Come
condotta è a posto e nessuno si lamenta.
Quando lo interrogano non risponde,
quando fa i compiti in classe non riesce a scrivere una parola che non sia una
bestialità. I professori non me lo hanno detto ma mi hanno fatto capire che per
loro è un cretino.» «Non è un cretino!» gridò la signora. «È un vigliacco! Ma è
ora di finirla: bisogna trovare il modo di farlo studiare. Sono pronta a
sopportare tutti i sacrifici dell’universo, ma deve andare in collegio.» Le due
sorelle guardarono Gigino con disprezzo. «Per causa sua poi ne dobbiamo
soffrire noi!» esclamò la maggiore che era già all’università. «Dobbiamo
soffrirne noi che non ne abbiamo nessuna colpa» aggiunse l’altra che era una
delle brave del liceo. «Ne soffriamo tutti» disse il padre. «Quando in una
famiglia c’è una disgrazia pesa su tutti. A ogni modo, a costo di scannarmi, lo
metterò in collegio.» Gigino era un ragazzo timido, di quelli che parlano poco:
ma quella volta la disperazione lo prese e parlò. «Non voglio più studiare!»
disse. «Voglio fare il meccanico!»
La signora scattò in piedi e diede uno
schiaffo a Gigino. «Voglio fare il meccanico!» ripetè Gigino. Il padre
intervenne: «Calmati, Maria. Non bisogna far scenate. Lascialo dire: andrà in
collegio e là troveranno il modo di farlo studiare». «Non voglio più studiare!»
insistette Gigino. «Voglio fare il meccanico.» «Vattene nella tua stanza!»
disse il padre. Gigino se ne andò e il consesso riprese la discussione.«È più
che mai necessario chiuderlo in collegio» affermò la signora. «Oramai si
ribella e qui succederebbero scenate d’inferno.» «Provvedere subito» assicurò
il padre. «Oggi sono riuscito a mantenermi calmo, ma in seguito non so se ci
riuscirei più.» «È un ragazzo che ci farà rodere il fegato a tutti» disse la
signora. «D’altra parte non possiamo permettere che, a forza di ripetere le
classi, diventi la favola della città.
Quando si ha un decoro bisogna
mantenerlo a ogni costo.» «Certamente» approvò il padre. «Il figlio del nostro
usciere che ha fatto la prima media con Gigino è già due classi più avanti di
lui.» La signora ebbe una crisi di pianto e le due ragazze guardarono con aria
di rimprovero il padre. Non c’era nessuna necessità, perbacco, di dire una cosa
simile. Ma il padre aveva da tanto quella cosa lì, sullo stomaco, e doveva ben
dirla.
Gigino arrivò con la corriera delle
sei del pomeriggio. Gironzolò per il paese e subito venne sera. Incominciò a
piovigginare e il ragazzo si riparò sotto il porticato in fondo alla piazzetta.
Guardò le vetrine delle tre o quattro bottegucce. Aveva ancora in tasca
duecento lire e avrebbe voluto entrare nel caffè per bere una tazza di latte,
ma non trovava il coraggio di farlo. Traversò la piazza e andò a rifugiarsi
nella chiesa. Si mise nell’angolo più nascosto e, verso le dieci, quando don
Camillo andò a dar la buona notte al Cristo dell’altar maggiore, trovò Gigino
addormentato su una panca.
Il ragazzo, svegliato d’improvviso dall’urlaccio di don Camillo, vedendosi davanti quell’omaccio nero che pareva ancora più colossale nella penombra della chiesa, sbarrò gli occhi. «Cosa fai qui?» domandò don Camillo.
«Scusi signore» balbettò il ragazzo. «Mi sono
addormentato senza volere.» «Ma che signore!» borbottò don Camillo. «Non vedi
che sono un prete?» «Scusi, reverendo» mormorò il ragazzo «vado via subito.»
Don Camillo vide quei due grandi occhi
pieni di lacrime e agguantò per una spalla Gigino che già s’era avviato verso
la porta. «E dove vai?» domandò. «Non lo so» rispose Gigino. Don Camillo cavò
fuori dall’ombra il ragazzo, lo spinse davanti all’altar maggiore dove c’era
luce, e lo squadrò attentamente. «Oh, un signorino» disse alla fine. «Vieni
dalla città?» «Sì.» «Vieni dalla città e non sai dove vai. Hai del danaro?»
«Sì» rispose il ragazzo mostrando i due biglietti da cento lire. Don Camillo si
avviò verso la porta rimorchiandosi Gigino.
Quando furono arrivati in canonica, don Camillo prese tabarro e cappello: «Seguimi» disse brusco. «Andiamo a sentire cosa pensa di questa storia il maresciallo.» Gigino lo guardò sbalordito. «Non ho fatto niente» balbettò. «E allora perché sei qui?» urlò don Camillo. Il ragazzo abbassò la testa. «Sono scappato da casa» spiegò. «Scappato. E per qual ragione?» «Vogliono per forza farmi studiare, ma io non capisco niente. Io voglio fare il meccanico.»
«Il meccanico?» «Sì, signore.
Tanti fanno il meccanico e sono contenti. Perché non posso essere contento
anch’io?»
Don Camillo riappese all’attaccapanni
il tabarro. La tavola era ancora apparecchiata. Don Camillo frugò nella credenza
e trovò un po’ di formaggio e un pezzettino di carne. Poi si mise a sedere e
stette a guardarsi come uno spettacolo Gigino che mangiava secondo tutte le
regole della buona creanza. «Il meccanico vuoi fare?» domandò a un certo
punto. «Sì, signore.» Don Camillo si mise a ridere e il ragazzo arrossì. Il
letto dell’ospite era sempre pronto, al primo piano, e così non fu difficile
sistemare il ragazzo. Prima di lasciarlo solo nella stanza, don Camillo gli
buttò sul letto il suo tabarro. «Qui non ci sono i termosifoni» spiegò. «Qui fa
freddo sul serio.» Prima di addormentarsi, don Camillo si rigirò nel letto
parecchio. «Il meccanico» borbottava. «Vuole fare il meccanico!»
La mattina don Camillo si alzò come il
solito che era ancor buio, per la prima Messa: ma stavolta si studiò di non
fare baccano per non svegliare il signorino che dormiva nella stanzetta vicina.
E, prima di scendere, aperse cautamente la porta per controllare se tutto
funzionava bene nella camera dell’ospite. E trovò il letto rifatto alla perfezione
e Gigino seduto nella sedia ai piedi del letto. La cosa lo lasciò
sbalordito. «Perché non dormi, tu?» disse di malumore.
« Ho già dormito.» Quella mattina
pioveva e faceva un freddo infame e così l’unico ad ascoltare la Messa di don
Camillo era Gigino. E don Camillo fece anche il suo bravo sermoncino e parlò
dei doveri dei figli, e del rispetto che i figli debbono avere per la volontà
dei genitori, e fu uno dei discorsi nei quali mise maggiore impegno. E il
povero Gigino, solo e sperduto nella chiesa semibuia e deserta dove la voce
tonante del colossale sacerdote rimbombava e ingigantiva, sentendosi dire «voi
ragazzi», aveva l’idea di essere responsabile, davanti a Dio, dei peccati di
tutti i ragazzi dell’universo. « Nome, cognome, paternità, luogo e data di
nascita, luogo di residenza e numero del telefono!» ordinò don Camillo a Gigino
quando ebbero consumata la colazione. Il ragazzo lo guardò impaurito poi disse
tutto quello che doveva dire e don Camillo andò al posto pubblico a telefonare.
Gli rispose la signora. «Vostro figlio è mio ospite. Non datevi pensiero perché
qui è al sicuro da ogni pericolo» spiegò don Camillo dopo essersi qualificato.
Poi sopraggiunse il padre e don Camillo rassicurò anche lui e gli diede un
consiglio: il ragazzo era un po’ scosso.
Si rendeva conto del male che aveva
fatto ed era pentito sinceramente. Lo lasciassero tranquillo qualche giorno da
lui che avrebbe fatto in modo di convincerlo a mettersi di buona volontà a
studiare come intendevano i genitori. Avrebbero, a loro completa sicurezza,
ricevuto dal vescovado conferma di quanto appreso attraverso il telefono.
Telegrafassero se permettevano che il ragazzo rimanesse qualche giorno ospite
di don Camillo. Il telegramma arrivò nel primo pomeriggio.«I tuoi genitori ti
hanno concesso di restare con me un po’ di tempo» disse allora don Camillo a
Gigino.
E Gigino finalmente sorrise. Don
Camillo si mise il tabarro e uscì con Gigino. Arrivarono fino all’estremità del
paese e si fermarono davanti all’officina di Peppone. Peppone stava smontando
pezzo per pezzo un motore d’automobile e, quando vide don Camillo, buttò per
terra la chiave inglese e si mise i pugni sui fianchi. «Qui non si parla di
politica» disse cupo Peppone «qui si lavora.» «Bene» rispose don Camillo
accendendo il suo mezzo toscano. Poi spinse avanti Gigino. «Che roba è?»
domandò Peppone. «Questo è un borghese che è scappato di casa perché lo
vogliono far studiare e invece lui vuol fare il meccanico. Ti interessa?»
Peppone guardò il ragazzo esile ed elegante poi sghignazzò. «Tu vuoi fare il
meccanico?»
« Sì, signore» rispose Gigino. «Qui
non ci sono signori!» urlò Peppone.
E gli occhi di Gigino si riempirono di
lacrime. «Sì, capo» sussurrò Gigino. Peppone grugnì, si volse, raccolse la
chiave inglese e riprese a lavorare accanto al motore. Gigino guardò don
Camillo e don Camillo gli fece cenno di sì. Allora Gigino si tolse il
cappottino e, sotto, aveva la sua brava tuta di tela blu. Peppone buttò via la
chiave inglese e cominciò a lavorare con le chiavi fisse. Svitò quattro dadi
del sedici poi gli serviva la chiave del quattordici. È se la trovò davanti al
naso. Tremava, la chiave del quattordici, perché Gigino aveva una paura
maledetta, ma era una chiave del quattordici e Peppone la agguantò con
malgarbo. Don Camillo allora si avviò; quando fu sulla porta si rivolse a
Gigino: «Giovanotto» disse «qui si lavora, non si fa della politica. Se senti
quel disgraziato lì parlare di politica, lascia tutto e torna a casa». Peppone
levò gli occhi e guardò cupo don Camillo.
Il padre arrivò dopo una decina di
giorni e don Camillo lo ricevette con tutti i riguardi. «Ha messo la testa a
posto?» s’informò il padre. «È un bravo ragazzo» rispose don Camillo.«Dov’è
adesso?» «Sta studiando» rispose don Camillo. «Lo andiamo a trovare.» Quando
giunsero all’officina di Peppone don Camillo si fermò e aperse la porta. Gigino
stava lavorando alla morsa con la lima. Venne avanti Peppone e il padre di
Gigino lo guardò a bocca aperta. «È il padre del ragazzo» spiegò don
Camillo. «Ah!» disse Peppone con aria poco benevola squadrando diffidente il
signore pieno di dignità. «Fa bene?» balbettò il signore. «È nato per fare il
meccanico» rispose Peppone. «Fra un anno non saprò più cosa insegnargli e
bisognerà mandarlo in città a lavorare nella meccanica di alta precisione.» Don
Camillo e il padre di Gigino tornarono in silenzio alla canonica. «Cosa dico a
mia moglie?» domandò sgomento il padre di Gigino.
Don Camillo lo guardò. «Dica la verità:
lei è contento di aver preso una laurea e di essere finito caporeparto in un
ufficio statale?» « Il mio sogno era di diventare specialista di motori a
scoppio» sospirò il padre di Gigino. Don Camillo allargò le braccia: «Dica
questo a sua moglie!». Il padre di Gigino sorrise tristemente. «Preghi per me,
reverendo. Verrò tutte le settimane a trovare Gigino. Se occorre qualcosa mi
scriva. Non a casa però: mi scriva in ufficio.» Poi si fece raccontare come era
andata la faccenda della presentazione a Peppone e, quando seppe il particolare
della chiave del quattordici che era proprio del quattordici e ci voleva quella
del quattordici, gli brillavano gli occhi. «Mio padre» esclamò «era il primo
tornitore della città. Buon sangue non mente!»
Ho sentito che c’è chi propone di innalzare l’età dell’obbligo scolastico a 18 anni e non ho potuto fare a meno di pensare ai miei anni scolastici, ai miei desideri .....
Ricordo i volti di alcuni compagni di classe. Stare seduti in un banco era un “supplizio” e non vedevano l’ora di
conseguire il diploma di 3a Media per entrare nel mondo del lavoro, nell'officina del padre. All'epoca c'erano ancora i tre anni di Avviamento Professionale.
Poi, (se non sbaglio nel 2006) l’obbligo
scolastico è stato innalzato all’età di 16 anni.
Sicuramente al giorno d'oggi abbiamo bisogno di lavoratori laureati preparati ma è più che scontato affermare quanto
siano indispensabili e preziosi, in vari settori, buoni artigiani preparati e
motivati!