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lunedì 16 dicembre 2019

L'abete - Hans Christian Andersen

C'era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli stavan d'attorno a tenergli compagnia. 
Ma egli non aveva che una smania sola: crescere. 
Non gli importava di sole caldo nè di aria fresca; nè si curava dei contadinelli che gli passavano dinanzi chiacchierando, quando venivano al bosco in cerca di fragole e di more. 
Spesso, quando ne avevano colto tutto un panierino, o quando avevan fatto una coroncina di fragole, infilate su di una paglia, venivano a sedere accanto al piccolo abete, e dicevano: «Com'è grazioso, così piccolino!» — Ma all'abete quel complimento poco garbava.
L'anno appresso era cresciuto di un nodo intero, e l'anno dopo ancora, di un altro; perchè negli abeti dal numero dei nodi si può sempre dire il numero degli anni che sono cresciuti.
«Oh, se fossi alto come quell'albero laggiù!» — sospirava il piccolo abete: «Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi superbamente anch'io come i grandi.»
Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini, nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina e sera.
Tal volta, nell'inverno, quando la neve era sparsa per tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto spiano, e saltava pari pari sopra l'abete. Oh, gli faceva una rabbia... 
Ma gl'inverni passarono, uno dopo l'altro; e, quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno.
«Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi! Ecco la sola cosa bella di questo mondo! — pensava il piccolo abete.
Ogni autunno solevano venire i taglialegna a segare gli alberi più alti; e così fecero anche quell'anno. Il piccolo abete, che oramai si era fatto bello alto, rabbrividiva dallo spavento, perchè i grandi alberi maestosi piombavano a terra con fracasso; e poi avevan mozzati tutti i rami, così che rimanevano nudi, lunghi e sottili, da non riconoscerli nemmeno più. E poi erano caricati sui barocci, e i cavalli li trascinavano fuori dal bosco. Dove andavano? che destino li aspettava?
A primavera, quando venivano le rondini e la cicogna, l'alberello domandava loro: «Sapete dove li abbiano portati? Non li avete incontrati per via?»
Le rondini nulla ne sapevano; ma la cicogna, fatta pensosa, scrollava il capo e diceva: «Sì, credo di saperne qualche cosa. Ho incontrato molti bastimenti nuovi, tornando dall'Egitto; e i bastimenti avevano certi alberi alti... M'immagino che fossero quelli. Odoravano di pino. Posso darti la mia parola ch'erano maestosi, molto maestosi.»
«Oh, se fossi grande abbastanza da andar per mare! Che roba è questo mare? A che somiglia?»
«Sarebbe troppo lungo a spiegare...» — e la cicogna se ne andava per i fatti suoi.
«Godi la tua gioventù,» — dicevano i raggi di sole: «Rallegrati della tua nuova altezza, della vita giovanile che è dentro di te.»
E il vento baciava l'alberello, e la rugiada lo bagnava di lacrime; ma il piccolo abete non comprendeva.
All'avvicinarsi del Natale, furono tagliati certi abeti giovani giovani, taluni anche più giovani e più bassi del nostro alberello, il quale era in continua agitazione, dalla gran voglia che aveva di andarsene. 
Questi piccoli alberi, ed erano per l'appunto i più belli, si caricavano intatti, con tutti i loro rami, sopra i barocci, per portarli fuori del bosco.
«Ma dove vanno tutti?» — domandava l'abete: «Non sono più alti di me; uno, anzi, era molto più piccino. E perchè a questi non tagliano i rami? Dove li portano?»
«Noi sì, che lo sappiamo! Noi sì, noi sì!» — pigolarono i passeri. «Laggiù, in città, noi guardiamo dentro dalle finestre. Noi sì, sappiamo dove li portano, noi sì! Oh bisogna vedere come li rivestono, con che lusso, con che splendore! Abbiamo guardato dentro dalle finestre, ed abbiamo veduto come li piantino nel mezzo della stanza calda e li adornino delle cose più belle — mele dorate, noci, dolci, balocchi, e centinaia e centinaia di candeline colorate.»
«E poi? e poi?» domandava l'abete, e tremava persino, dalla vetta alle radici, per la grande ansietà: «E poi? che cosa avviene poi?»
«Poi? non abbiamo veduto altro. Ah, ma era una bellezza!»
«Chi sa ch'io non sia destinato un giorno ad una simile gloria?» — gridò l'albero allegramente: «È ancora meglio che viaggiar per mare. Ah, che struggimento! Vorrei che fosse oggi Natale! Oramai sono grande e grosso come quelli che furono menati via l'anno passato. Ah, mi par mill'anni d'essere sul baroccio! Mi par mill'anni d'essere nella stanza calda, tra tutta quella pompa, tra quello splendore! E poi? Già, deve poi venire qualche cosa di più bello ancora: se no, perchè mi adornerebbero a quel modo? deve venire poi una grandezza, una gloria anche maggiore; ma quale? Oh, che struggimento, che struggimento! Non so nemmen io che cos'abbia per soffrire così!»
«Gioisci e contentati di noi!» — dicevano l'aria e il sole: «Rallegrati della tua fresca giovinezza nella foresta!»
Ma l'abete non si rallegrava punto: non faceva che crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d'un bel verde cupo. 
La gente diceva: «Che bell'albero!» — e, a Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. 
L'ascia andò profonda, sino al midollo, e l'albero cadde a terra con un sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento, non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori ch'erano lì attorno — nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il distacco fu tutt'altro che lieto!
L'albero non tornò in sè che quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e sentì dire:
«Questo sì, ch'è magnifico: non voglio vederne altri. Prendiamo questo.»
Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono l'albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c'erano due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che valevano cento volte cento lire — almeno, così dicevano i bambini. E l'abete fu posto in un grande mastello pieno di sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello, perchè era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel mezzo d'un bel tappeto a colori. 
Ah, come tremava, ora, il nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano qua e là, che parevano nate sull'albero; e più di cento candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami. Bambole, che sembravan vive — l'abete non ne aveva mai vedute, di simili, prima d'allora, — si dondolavano tra mezzo al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell'albero, era inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza, come non se ne vedono.
«Questa sera,» — dicevan tutti: «Questa sera ha da esser bello, tutto illuminato!»
«Ah!» — pensava l'albero: «Mi par mill'anni che venga sera, e che i lumicini sien tutti accesi! Quando sarà? Son curioso di sapere se gli alberi verranno dal bosco per vedermi! E i passeri? Chi sa se voleranno contro ai vetri delle finestre? Chi sa come crescerò, qui, tutto adorno così, estate e inverno!»
Sì, l'aveva per l'appunto inzeccata! Ma, a forza di allungare la vetta e di struggersi dal desiderio, s'era buscato un fortissimo mal di tronco; ed il mal di tronco è cattivo per gli alberi, come il mal di capo per gli uomini. 

Finalmente le candeline furono accese. Che luccichìo! Che bellezza! L'albero tremava tanto, per tutti i rami, che una delle candele appiccò il fuoco ad un ramoscello verde, il quale n'ebbe una buona sbucciatura.
«Per amor di Dio!» — gridarono le signorine, e si precipitarono a spegnere il fuoco.
Ora l'albero non osava più nemmeno tremare. Ah, che spavento! Stava fermo fermo per non dar fuoco a qualcuno de' suoi bei gingilli... E poi, tutti quei lumi lo stordivano. 
In quella le porte del salotto furono spalancate, ed una frotta di bimbi irruppe correndo, come se volessero rovesciare l'albero ed ogni cosa: i grandi li seguirono, con più calma. I piccini rimasero muti, a bocca aperta... oh, ma per un minuto soltanto: poi, principiarono a fare un chiasso così indiavolato, che la stanza ne rimbombava; e si misero a ballare rumorosamente intorno all'albero, e tutti i regali furono colti dai rami, uno dopo l'altro.
«Che fanno?» — pensava l'albero: «Ed ora, che cosa accadrà?»
Le candele andavano consumandosi, e quando erano tutte bruciate, sino al ramo, si spegnevano. Dopo che furono spente, fu permesso ai bambini di spogliare l'albero. Ah, ci si avventarono sopra con una furia, che tutti i rami scricchiolarono. Se la vetta non fosse stata assicurata al soffitto per mezzo della stellina di similoro, sarebbe certo caduto a terra.
I bambini ballavano per la stanza con i bei balocchi nuovi. Nessuno guardava più l'albero, all'infuori della vecchia bambinaia, che gli si accostò e spiò tra i rami; ma soltanto per vedere se mai un fico od una mela vi fosse rimasta dimenticata.
«Una novella! una novella!» — gridarono i bambini, e strascinavano verso l'albero un piccolo signore grasso; ed egli vi si sedette sotto: «Così saremo in un bel bosco verde,» — disse; «e l'albero avrà la fortuna di sentire la novella. Ma non ve ne posso raccontare che una sola. Volete quella di Ivede-Avede, oppure quella di Zucchettino-Durettino, che cadde giù dallo scalino, ma poi tornò su, e fu rimesso in onore e sposò la Principessa?»
«Ivede-Avede!» — gridarono alcuni. «Zucchettino-Durettino!» — urlarono gli altri; e ci furono strilli e ci furono anche pianti. 
L'abete solo rimaneva zitto zitto e pensava: «O io? Che non ci abbia ad entrare?» Ma egli aveva avuto la sua parte nei divertimenti della serata, ed aveva dato, oramai, quello che da lui si voleva.
E il signore grasso raccontò di Zucchettino, che era caduto giù dallo scalino, ma poi era salito ai più alti onori ed aveva sposato la Principessa. E i bambini batterono le mani e gridarono: «Un'altra! un'altra! Raccontane un'altra!» perchè ora volevano la novella di Ivede-Avede; ma dovettero accontentarsi di quella di Zucchettino. 
L'abete se ne stava zitto zitto, tutto pensieroso: mai gli uccelli del bosco avevano raccontato una storia simile. «Zucchettino era caduto, e pure era tornato in onore, ed aveva sposato la Principessa! Sì, così accade nel mondo!» — pensava l'abete, e credeva che fosse tutto vero verissimo: quegli che aveva raccontato la storia era un signore così per bene!... 
«Dopo tutto, chi può dire mai nulla? Forse che anch'io cadrò, e poi sposerò una Principessa!» Ed in tanto si rallegrava tutto al pensiero d'essere adornato di nuovo, la sera dopo, con tanti lumicini e tanti balocchi, e frutta e lustrini:
«Domani non tremerò mica più!» — pensava: «Sarò, in vece, tutto felice del mio splendore. Domani, sentirò di nuovo la storia di Zucchettino-Durettino, e forse, chi sa? imparerò anche quell'altra, di Ivede-Avede...»
E l'albero rimase fermo tutta la notte, a pensare.
La mattina entrarono i domestici e la cameriera.
«Ecco che ora ricomincia il mio splendore!» — pensò l'albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno arrivava un raggio di sole.
«Che significa questa faccenda?» — pensò l'albero: «Che vogliono che faccia qui ? Ed ora, che cosa accadrà?»
E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E tempo n'ebbe sin troppo, perchè passarono i giorni e le notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi casse. Così l'albero rimaneva ora del tutto nascosto: probabilmente, lo avevano dimenticato.
«Fuori è inverno, ora» — pensava l'albero: «la terra è dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non fosse questo buio e questa terribile solitudine!.... Mai che si veda nemmeno un leprattino! Era bello, però, il bosco, quando c'era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì, anche quando mi passava sopra d'un salto... Allora, mi faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!»
«Piip, piip!» — disse a un tratto un topolino, e fece qualche passo avanti; e poi ne venne subito un altro, piccolino piccolino. Fiutarono l'abete, e si ficcarono tra mezzo ai rami.
«Fa tanto freddo...» — dissero i due topolini: «Se non fosse freddo, si starebbe abbastanza comodi quassù; non le pare, vecchio abete?»
«Non son punto vecchio,» — disse l'abete: «Ce ne sono molti e molti più vecchi di me.»
«Di dove viene?» — domandarono i topolini «E che nuove porta?» (Erano terribilmente curiosi.) «Ci racconti, la prego, del più bel paese del mondo. C'è stato lei? È stato nella dispensa, dove ci sono i formaggi sopra gli scaffali, e i prosciutti pendono dalla travatura, dove si può ballare sui pacchi di candele, dove si va dentro magri e si esce grassi grassi?»
«Non conosco questo paese;» — rispose l'abete: «Ma conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano.»
E allora raccontò del tempo della sua giovinezza.
I topolini, che non avevano mai udito nulla di simile, stavano attenti; poi dissero: «Quante cose ha vedute lei, signor abete, e come dev'essere stato felice!»
«Io?» — esclamò l'abete, e ripensò a tutto quello che aveva raccontato: «Sì, davvero che quelli erano tempi felici!» Ma poi raccontò della sera di Natale, quand'era tutto carico di dolci e di candeline.
«Oh!» — disse il topo più piccino: «Come dev'essere stato felice lei, nonno abete!»
«Ma non sono nonno, non sono vecchio io!» — disse l'abete: «Sono uscito dal bosco appena quest'inverno. Sono nel fiore dell'età; gli è soltanto che sono cresciuto un po' in fretta.»
«Che magnifiche novelle sa raccontare lei!» — disse il topolino.
E la notte dopo, vennero con altri quattro topolini a sentire quello che l'albero sapeva raccontare così bene; e più raccontava, e più chiaro gli si riaffacciava il ricordo di tutto, e pensava: «Quelli erano tempi lieti! Ma possono tornare. Anche Zucchettino-Durettino cadde dallo scalino, ma poi sposò la Principessina.» E allora l'abete ripensò ad una graziosa betulla, che cresceva nella foresta; per l'abete, quell'alberella era una vera Principessa.
«Chi è Zucchettino-Durettino?» — domandò il topo più piccolo.
L'abete gliene raccontò tutta la storia. La ricordava parola per parola; e i topolini, dalla gioia, per poco non gli saltarono sino in vetta. 
La notte dopo, vennero addirittura in frotta; e la domenica comparvero persino due ratti; ma questi dissero che la storia non era bella, e ai topolini ciò rincrebbe, perchè ora non piaceva più tanto nemmeno a loro.
«Non ne sa altre, novelle?» — domandarono i ratti.
«Non so che questa;» — rispose l'albero: «La udii nella più bella serata della mia vita: non sapevo, allora, quanto fossi felice.»
«È una storia molto meschina. Non ne sa una di prosciutti e di candele di sego? Non sa storielle di dispensa?»
«No» — disse l'albero.
«E allora, servi devoti!» — dissero i ratti; e tornarono alle loro famiglie. Anche i topolini alla fine se ne andarono; e l'abete sospirò, e disse:
«Era bello, però, quando mi stavano tutti attorno, quei cari topolini così allegri, ed ascoltavano i miei racconti. Ora, è finita anche questa. Ma mi ricorderò di essere contento quando mi levano di qui».
Quando lo levarono? Mah! Fu una mattina che la gente di casa venne su a frugare per tutto il solaio: le grandi casse furono scostate, e l'albero fu scovato fuori: veramente, lo buttarono a terra con certo mal garbo; ma poi un domestico lo strascinò subito sulla scala, alla luce del giorno.
«Ah! la vita ricomincia!» — pensò l'abete.
Sentì la prima aria fresca, i primi raggi di sole, e si trovò fuori, in un cortile. Tutto ciò era accaduto così rapidamente, che l'albero aveva dimenticato di guardare a se stesso: c'era tanto da guardare intorno a lui!... Il cortile confinava con un giardino; e nel giardino, tutto era in fiore: le rose pendevano fresche e profumate al disopra del piccolo steccato; i gigli erano in piena fioritura, e le rondini gridavano «Videvit! Videvit! Viene mio marito-marit!» Ma non intendevano già con questo di parlare dell'abete.
«Ora sì, che vivrò!» — disse l'abete tutto allegro, e distese un po' più le braccia... Ma, ahimè! Erano tutte secche e gialle; ed egli si vide buttato là, in un angolo, tra le ortiche e le male erbacce. Sulla vetta aveva ancora la stella di similoro, che scintillava al sole.
Nel cortile giocavano due di quegli allegri fanciulli che avevano ballato intorno all'albero la sera di Natale, e lo avevano tanto ammirato. 
Il più piccino corse a strappargli la stellina dorata.
«Guarda che cosa c'è attaccato a quel brutto alberaccio!» — disse il bambino; e calpestò i rami, che scricchiolarono sotto alle sue scarpette.
L'albero guardò a tutti i fiori lussureggianti, a tutti gli splendori del giardino, e poi guardò a se stesso, e gli dolse di non essere rimasto nell'angolo buio del solaio: ripensò alla sua fresca giovinezza nel bosco; alla lieta notte di Natale; ai topolini, che avevano ascoltato con tanto piacere la novella di Zucchettino.
«È finita! è finita!» — disse il vecchio albero: «Almeno avessi goduto quando potevo! È finita, finita, finita!»
Venne un domestico, segò l'albero in pezzi, e ne fece una fascina. La fascina mandò una bella fiamma sotto la caldaia che bolliva, e sospirò profondamente; ed ogni sospiro era come un lieve scoppiettìo. 
I bambini, che giocavano lì attorno, corsero a mettersi dinanzi al fuoco; e guardavano, e facevano: «Puff Puff!» Ma ad ognuno di quegli scoppiettii, che era un profondo sospiro, l'albero pensava ad una bella giornata d'estate nel bosco, o ad una notte d'inverno, quando le stelle scintillavano sopra gli abeti; pensava alla sera di Natale ed alla novella di Zucchettino, l'unica novella che avesse mai sentita, l'unica che avesse mai saputo raccontare... E finalmente, l'abete fu tutto finito di bruciare.
Poco dopo i bambini giocavano nel giardino, ed il più piccolo aveva appuntata sul petto una stella dorata, proprio quella che l'abete aveva portata nella più bella serata della sua vita. 
Era finita, ora: finita la vita dell'albero, e finita anche la novella: finita, finita, finita, come accade di tutte le novelle.



Buona giornata a tutti. :-)


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venerdì 6 dicembre 2019

La bisaccia del cercatore – don Tonino Bello

Se io fossi un contemporaneo di Gesù, se fossi uno degli Undici ai quali Gesù, nel giorno dell'Ascensione, ha detto: "Lo Spirito santo verrà su di voi e riceverete da lui la forza per essermi miei testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea, la Samaria e fino all'estremità della terra" (At 1,8), nell'atto di congedarmi dai fratelli, sapete cosa avrai preso con me?

Innanzitutto il bastone del pellegrino e poi la bisaccia del cercatore e nella bisaccia metterei queste cinque cose: un ciottolo del lago; un ciuffo d'erba del monte; un frustolo di pane, magari di quello avanzato nelle dodici sporte nel giorno del miracolo; una scheggia della croce; un calcinaccio del sepolcro vuoto.

E me ne andrei così per le strade del mondo, col carico di questi simboli intensi, non tanto come souvenir della mia esperienza con Cristo, quanto come segnalatori di un rapporto nuovo da instaurare con tutti gli abitanti, non solo della Giudea e della Samaria, non solo dell'Europa, ma di tutto il mondo: fino agli estremi confini della terra.

Ecco, io prenderei queste cose.

Ma anche il credente che voglia obbedire al comando missionario di Gesù dovrebbe prendere con sé queste stesse cose.



- don Tonino Bello -

Fonte: La bisaccia del cercatore, ediz. La Meridiana



55 ANNI DI SACERDOZIO
8 dicembre 1957 - 2012


Sacerdote per sempre


"Nel Santo Natale di solito si scambia qualche dono con le persone più vicine. 
Talvolta può essere un gesto fatto per convenzione, ma generalmente esprime affetto, è un segno di amore e di stima. 
Nella preghiera sulle offerte della Messa dell’aurora della Solennità di Natale la Chiesa prega così: «Accetta, o Padre, la nostra offerta in questa notte di luce, e per questo misterioso scambio di doni trasformaci nel Cristo tuo Figlio, che ha innalzato l’uomo accanto a te nella gloria». 
Il pensiero della donazione, quindi, è al centro della liturgia e richiama alla nostra coscienza l’originario dono del Natale: in quella notte santa Dio, facendosi carne, ha voluto farsi dono per gli uomini, ha dato se stesso per noi; Dio ha fatto del suo Figlio unico un dono per noi, ha assunto la nostra umanità per donarci la sua divinità. 
Questo è il grande dono. Anche nel nostro donare non è importante che un regalo sia costoso o meno; chi non riesce a donare un po’ di se stesso, dona sempre troppo poco; anzi, a volte si cerca proprio di sostituire il cuore e l’impegno di donazione di sé con il denaro, con cose materiali. 
Il mistero dell’Incarnazione sta ad indicare che Dio non ha fatto così: non ha donato qualcosa, ma ha donato se stesso nel suo Figlio Unigenito. Troviamo qui il modello del nostro donare, perché le nostre relazioni, specialmente quelle più importanti, siano guidate dalla gratuità dell'amore".

Papa Benedetto XVI

Dall’Udienza Generale
Aula Paolo VI

Mercoledì, 9 gennaio 2013



Chi è realmente impegnato con la vita non cessa mai di camminare.

Il coraggio è anche questo. La consapevolezza che l’insuccesso è dietro l’angolo ma è comunque il frutto di un tentativo.
Che talvolta è meglio perdersi sulla strada di un viaggio impossibile che non partire mai...ecco un altro giorno donato a noi spesso “paralizzati” in cammini impeccabili. 
Il coraggio di tentare un cambiamento in quello che non va? 
Mettersi in viaggio comunque? 





Buon giorno e un abbraccio a tutti. :-)

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sabato 30 novembre 2019

La vita – Kahlil Gibran

La vita è un'isola in un oceano di solitudine: le sue scogliere sono le speranze, i suoi alberi sono i sogni, i suoi fiori sono la vita solitaria, i suoi ruscelli sono la sete. 
La vostra vita, uomini, miei simili, è un'isola, distaccata da ogni altra isola e regione. 
Non importa quante siano le navi che lasciano le vostre spiagge per altri climi, non importa quante siano le flotte che toccano le vostre coste: rimanete isole, ognuna per proprio conto, a soffrire le trafitture della solitudine e sospirare la felicità. Siete sconosciuti agli altri uomini e lontani dalla loro comprensione e partecipazione.
Fratello mio, ti ho visto, seduto sulla tua montagnola d'oro, bearti delle tue ricchezze; eri orgoglioso dei tuoi tesori e ben saldo nella certezza che ogni manciata d'oro accumulata fosse un invisibile anello di collegamento tra i tuoi desideri e pensieri e quelli degli altri uomini.


Ti ho visto con gli occhi della mente, come un grande conquistatore alla guida dei suoi eserciti, impegnato nella distruzione dei fortilizi nemici. Ma guardando una seconda volta, non ho visto altro che un cuore solitario appeso al fondo dei suoi stessi forzieri, un uccello assetato in una gabbia d'oro con la vaschetta vuota.

Ti ho visto, fratello mio, seduto nel trono della gloria, circondato dai sudditi che acclamavano alla tua maestà, cantavano le lodi delle tue grandi gesta, osannavano la tua saggezza, contemplandoti come se fossero in presenza di un profeta; l'esultanza sollevava gli spiriti fino alla volta dei cieli. E mentre abbassavi lo sguardo sui tuoi sudditi, ho letto nel tuo volto i segni della felicità e del potere e del trionfo, quasi tu fossi l'anima del loro corpo. Ma guardando una seconda volta, ecco ti ho scoperto solo nella tua solitudine, ritto al lato del trono; esule, tendevi la mano in ogni direzione, come nell'atto di chiedere pietà e misericordia a fantasmi; imploravi che qualcuno ti offrisse rifugio, non foss'altro il rifugio del calore dell'amicizia.

Ti ho visto, fratello mio, innamoratissimo di una bellissima donna, deporre il cuore sull'altare della sua grazia, E quando ho visto lei contemplarti con tenerezza e materno amore, ho detto a me stesso: 

"viva l'Amore che ha posto fine alla solitudine di quest'uomo e ha congiunto il suo cuore a un altro cuore".

E tuttavia, guardando una seconda volta, ho scorto nel tuo cuore amante un altro cuore, solitario, che gridava invano per rivelare i suoi segreti a una donna; e dietro la tua anima piena d'amore, un'altra anima, sola, vagava come una nuvola, sospirando invano di potersi sciogliere in lacrime negli occhi dell'amata…

La tua vita, fratello mio, è una dimora solitaria, separata dalle dimore degli altri uomini. E' una casa nel cui interno non può spingersi lo sguardo del vicino. Se piombasse l'oscurità, la lanterna del vicino non potrebbe illuminarla. Se fosse svuotata da ogni provvista, non potrebbero riempirla le scorte dei vicini. Se si ergesse in un deserto, non potresti trasportarla nei giardini degli altri uomini, coltivati da altre mani. Se si ergesse sulla vetta di una montagna, non potresti trasportarla nella valle calpestata dai piedi di altri uomini.

La vita del tuo spirito, fratello mio, è avvolta dalla solitudine; se non fosse per questa solitudine, tu non saresti tu, e io non sarei io. Non fosse per questa solitudine, crederei forse, udendo la tua voce, di sentire la mia stessa voce; vedendo il tuo volto, crederei di vedere me stesso in uno specchio.



- Kahlil Gibran -
da: "La voce del Maestro", Newton e Compton editori




Non esiste il caso, ne la coincidenza. 
Noi, ogni giorno, 
camminiamo verso luoghi e persone che ci aspettano da sempre. 

- G. Dembech 




Onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di tenerlo con me tutto l'anno.

- Charles Dickens -





La vita è un'isola in un oceano di solitudine: le sue scogliere sono le speranze, i suoi alberi sono i sogni, i suoi fiori sono la vita solitaria, i suoi ruscelli sono la sete. 
La vostra vita, uomini, miei simili, è un'isola, distaccata da ogni altra isola e regione. 
Non importa quante siano le navi che lasciano le vostre spiagge per altri climi, non importa quante siano le flotte che toccano le vostre coste: rimanete isole, ognuna per proprio conto, a soffrire le trafitture della solitudine e sospirare la felicità. 
Siete sconosciuti agli altri uomini e lontani dalla loro comprensione e partecipazione.

- Kahlil Gibran -





Buona giornata a tutti :-)

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venerdì 29 novembre 2019

Agonia - Cesare Pavese

Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.

Son lontani i mattini che avevo vent'anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato.

E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d'esser io: gettando un'occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.

- Cesare Pavese -


"Cara Connie, volevo fare l’uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. 
Il pensiero di te e un ricordo o un’idea indegni, brutti, non s’accordano. 
Ti amo. 
Cara Connie, di questa parola so tutto il peso -l’orrore e la meraviglia- eppure te la dico, quasi con tranquillità. 
L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me. […] Amore, il pensiero che quando leggerai questa lettera sarai già a Roma - finito tutto il disagio e la confusione del viaggio -, che vedrai nello specchio il tuo sorriso e riprenderai le tue abitudini, e dormirai da brava, mi commuove.
Sei una cosa più dolce e più terribile, e a pensarci mi tremano i polsi."
  
- Cesare Pavese -

Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile [...] siamo una bellissima coppia discorde. 

(dal carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi)





“Passo la giornata come chi ha urtato uno spigolo con la rotula interna del ginocchio: tutta la giornata come quell’istante intollerabile. 
Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un’enorme ferita. 
Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani avrò una rapida felicità, e poi di nuovo i brividi, la stretta, lo squarcio. 
Non ho più fisicamente la forza di star solo.”

- Cesare Pavese  -
(Il mestiere di vivere)



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giovedì 28 novembre 2019

Il cuore più bello del mondo

C'era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone: diceva di avere il cuore più bello del mondo, o quantomeno del suo paese. 
Tutti quanti glielo ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto. 
Erano tutti concordi nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane si insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso. 
All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse: "Beh, a dire il vero.. il tuo cuore è molto meno bello del mio." 
Quando lo mostrò, aveva puntati addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo. 
Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. 
C'erano zone dove dalle quali erano stati asportati dei pezzi e rimpiazzati con altri, ma non combaciavano bene - così il cuore risultava tutto rattoppato. 
Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi. 
Così tutti quanti osservavano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello. 
Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: "Starai scherzando!", disse. "Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime." 
"Vero", ammise il vecchio. "Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai cambio col mio. 
Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel'ho dato, e spesso ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore. 
Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi – e così ho qualche rattoppo, a cui sono affezionato, però: ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso. 
Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini. 
Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che provo anche per queste persone.. e chissà? Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro. 
Comprendi, adesso, che cosa sia la VERA bellezza?" 
Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto. Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e glielo offrì con le mani che tremavano. 
Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane. 
Ci entrava, ma non combaciava perfettamente. 
Il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava più meraviglioso che mai: perché l'amore del vecchio ora scorreva dentro di lui. 




E quando siete tristi, guardate ancora nel vostro cuore
e saprete di piangere per ciò che ieri è stato il vostro godimento.

- Kahlil Gibran -




Ma avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore.


- Ernest Hemingway -

"Padrone, lascialo ancora quest'anno, 
finchè gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 
Vedremo se porterà frutti per l'avvenire, 
se no, lo taglierai". 
Luca 13, 8-9

La vita è un'opportunità da cogliere per scoprire chi è Dio e chi siamo noi e il deserto è il luogo in cui esercitiamo la nostra libertà.   
Fermiamoci davanti agli eventi tristi della vita senza incolpare Dio, né scuotere la testa e tirare innanzi, ma guardiamoli come un monito che la vita stessa ci rivolge per giocare bene la nostra partita. 
Dio, da parte sua, è un Dio che conosce, che interviene, ma che rispetta, trattandoci da adulti, le nostre scelte, anche se catastrofiche e schiavizzanti.

- Padre Mino Arsieni - 


Buona giornata a tutti. :-)


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