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martedì 9 giugno 2020

Il brutto anatroccolo - Hans Christian Andersen (traduzione originale)

Che bellezza, fuori, in campagna! Piena estate: il grano tutto giallo come l’oro, l’avena verde; il fieno ammucchiato già nei prati, e la cicogna dalle lunghe gambe rosse che gli passeggia attorno, chiacchierando in Egiziano... - perchè l’Egiziano è la lingua che le ha insegnato mamma Cicogna. - Di là dai campi e dai prati, ecco i boschi folti e neri; e in mezzo ai boschi, i bei laghi azzurri e profondi. Oh, fuori, in campagna, è una vera bellezza! Sotto al sole caldo, c’era una volta un vecchio castello, circondato da profondi fossati; e dal muro di cinta giù giù sino all’acqua crescevano alte le bardane, così alte e folte, che un bambino sarebbe potuto star ritto sotto alle foglie più grandi. Pareva d’essere nel cuore della foresta, là sotto. E là appunto stava un’anitra, nel nido, a covare i suoi piccoli; ma era già quasi noiata, perchè la faccenda durava da un pezzo, e ben di rado le capitava qualche visita. Le altre anitre preferivano diguazzare lietamente nei fossati, anzi che andarla a trovare e starsene sotto le bardane a chiacchierare con lei.

Finalmente, un ovo si aperse, e poi un altro, e poi un altro: "Pip, Pip!" - fecero; e tutti gli anatrini, belli e vivi, misero fuori il capo.

"Qua, qua!" - fece la mamma. - "Qua qua!" - risposero i piccoli, e scapparono fuori con tutte le forze loro, e cominciarono a guardarsi attorno, tra le foglie verdi; e la mamma li lasciò guardare quanto volevano, perchè il verde fa bene agli occhi.

"Com’è grande il mondo!" - esclamarono gli anitroccoli. Infatti, ora avevano molto più spazio di quando stavano chiusi nell’ovo.

"Credete che il mondo sia tutto qui ?" - disse la madre: "Il mondo è ben più grande: arriva, dall’altra parte del giardino, sino al podere del parroco; là, io non ci sono ancora mai stata... Ci siete tutti? tutti uniti, per benino?" - e fece per alzarsi: "No non siete tutti: l’ovo più grosso è sempre qui. Quanto ci vorrà ancora? Davvero che questa volta ne ho quasi abbastanza!" - E si rimise a covare.

"Dunque, come va?"    domandò una vecchia anitra venuta a farle visita.

"Va, che va per le lunghe con uno di questi ovi!" - disse l’anitra che covava: "Non ci si scorge ancora nemmeno uno screpolo. Ma bisogna tu veda gli altri. Sono i più begli anatrini ch’io abbia mai veduti. Tutti il loro padre, quel mariuolo, che nemmeno è venuto una volta a trovarmi!"

"Lasciami vedere quest’ovo che non vuole scoppiare," - replicò l’altra. "Bada a me, sarà ovo di tacchina. È toccata a me pure una volta, e ti so dire che ho avuto il mio bel da fare con quei piccoli: avevano una paura dell’acqua... Per quanto chiamassi e sbattessi le ali, non ne venivo a capo. Fammi vedere. Sì, sì, è un ovo di tacchina. E tu lascialo fare, e insegna piuttosto a nuotare agli altri piccini."

"Oramai ci starò un altro poco," - rispose la mamma. "Ci sono stata tanto, che poco più, poco meno..."

"Bontà tua!" - fece la vecchia; e se ne andò.

Finalmente, l’ovo grosso si aperse. "Pip, pip!" - disse il figliuolo, e scappò fuori. Era grande grande e bruttissimo. L’anitra lo guardò bene. "È terribilmente grosso," - disse: "Nessuno degli altri è così: fosse mai davvero un piccolo tacchino ? Si fa presto a vedere. Ma nell’acqua ha da andare, dovessi buttarcelo dentro io, dovessi!"   

Il giorno dopo, il tempo era magnifico: il sole splendeva caldo tra il verde. Mamma Anitra fece la sua comparsa al fossato con tutta la famiglia. Plasch! e saltò nell’acqua. "Qua, qua!" - chiamò; e l’uno dopo l’altro gli anatrini saltarono dentro. L’acqua si richiuse sul loro capo, ma ben presto tornarono a galla, e si misero a nuotare: le gambe si movevano da sè, e tutti andavano benone: anche il brutto anitroccolo bigio nuotava con gli altri.

"No, non è un tacchino," - disse la mamma. "Vedete come sa adoprar bene le gambe, come fila diritto! Quello è figlio mio. In fondo, non è poi brutto, a guardarlo bene. Qua qua!" - fece poi: "Venite ora, e imparerete a conoscere il mondo. Vi presenterò alla corte; ma statemi sempre vicini, per non farvi schiacciare, e guardatevi dal gatto!"

E così vennero nel cortile delle anitre. C’era un chiasso tremendo perchè due famiglie si disputavano una testa di anguilla, la quale poi toccò al gatto.

"Vedete? così va il mondo," - disse mamma Anitra, e si leccò il becco, perchè anche a lei sarebbe piaciuta la testa d’anguilla. "Ed ora, via sulle vostre gambe!" - diss’ella: "Cercate di andare avanti, e chinate il collo dinanzi a quella vecchia anitra laggiù. È il personaggio più ragguardevole della corte. Ha sangue spagnolo nelle vene; epperò è così grave. Vedete? porta un nastrino rosso alla zampa; e quello è il più grande sfarzo, la maggiore onorificenza che possa toccare ad un’anitra. Significa che non la si vuol perdere, e che bestie ed uomini debbono riconoscerla. Qua qua!... Via, non tenete le zampe all’indentro! Un anatrino per bene porta le zampe all’infuori, come il babbo e la mamma. Così, vedete? Chinate il collo, e fate: qua, qua!"

E così fecero. Ma le altre anitre, tutto all’intorno, li esaminarono, e dissero: "Vedete qua! Anche questa truppa ci càpita! Come se non fossimo già troppi! O che è quel brutto coso bigio laggiù! Non possiamo tollerare una simile bruttura!" - E un’anitra gli piombò addosso, e lo beccò sul collo.

"Lasciatelo stare," - disse la madre: "Non fa male a nessuno."

"Sì, ma è così grande e così diverso dagli altri," - disse l’anitra che l’aveva morso, "che bisogna le buschi."

"Avete una bella famiglia, mamma Anitra!" - disse la vecchia col nastrino rosso alla zampa: "Sono tutti bei figliuoli, eccetto quel povero disgraziato lì. Vorrei che poteste rifarlo."

"Ahimè, Eccellenza, questo non è possibile!" - disse mamma Anitra: "Non è bello, ma è di buonissima indole, e nuota magnificamente, come tutti i suoi fratelli; starei quasi per dire che nuota meglio. Credo che col tempo migliorerà, o, almeno, finirà di crescere. È stato troppo nell’ovo, e per questo non è venuto bene." - E la madre gli battè sul dorso ed incominciò a lisciarlo. "Del resto," - continuò, "è un maschio, e quindi poco importa. Prevedo, anzi, che diverrà robusto; se la cava già abbastanza bene..."

"Gli altri anatrini sono molto graziosi," - disse la vecchia: "Fate come se foste a casa vostra; e se per caso trovate una testa d’anguilla, portatemela pure."

E fecero infatti come se fossero a casa loro.

Ma il povero anitroccolo, ch’era uscito ultimo dall’ovo ed era tanto brutto, s’ebbe i colpi di becco, gli assalti e le beffe delle anitre e dei polli. "È troppo grande!" - dicevano tutti; e il tacchino, ch’era nato con gli sproni e perciò s’immaginava d’essere imperatore, si gonfiò come un bastimento che spiegasse le vele, fece la ruota, divenne tutto rosso nel capo e gli si avventò. Il povero anitroccolo non sapeva che fare nè dove scappare. Si sentiva avvilito d’essere tanto brutto da servire di zimbello a tutta la corte.

Così passarono i primi giorni, e poi andò di male in peggio. Il povero anitroccolo era scacciato da tutti, e persino i suoi fratelli gli usavano mille sgarbi, e dicevano: "Magari il gatto t’ingoiasse una buona volta, brutto che sei!" E la madre sospirava: "Ah, fossi tu lontano le mille miglia!" Le anitre lo beccavano, i polli gli si avventavano e la ragazza della fattoria, che veniva a portare il becchime, lo respingeva col piede.

Egli allora scappò davvero, e spiccò il volo al di là della siepe; gli uccelli fuggirono spauriti dai cespugli e s’alzarono nell’aria. "Ecco qua: colpa la mia bruttezza!" - pensò l’ anitroccolo; e chiuse gli occhi, ma continuò sempre a fuggire. E così arrivò alla grande palude, dove stanno le anitre selvatiche; e là si fermò tutta la notte, perchè era tanto stanco e tanto triste.

La mattina, le anitre si levarono e videro il nuovo compagno: "Che razza di contadino sei mai?" - domandarono; e l’anitroccolo si volse da tutti i lati, e salutò meglio che potè.

"Sei di una bruttezza tremenda," - dissero le anitre selvatiche; "ma questo a noi poco importa, pur che tu non prenda moglie nella nostra famiglia." - Povero disgraziato, pensava giusto a prender moglie!... Non domandava altro se non che gli permettessero di occupare un posticino tra i giunchi e di bere l’acqua dello stagno.

Era da due giorni nella giuncaia, quando vennero a trovarlo due anitre selvatiche, o, per dir meglio, due anitroccoli. Erano usciti da poco dall’ovo e perciò erano un po’ monelli.

"Senti, camerata: sei d’una bruttezza così perfetta, che sei quasi bello, e ti abbiamo preso a ben volere. Vuoi venire con noi, e diventare uccello di passo? Poco lontano di qui, in un’altra palude, abitano certe deliziose anitrelle selvatiche, tutte signorine da marito, che sanno dire qua qua! con un garbo, caro mio... Là, tu pure potrai trovare la felicità, per brutto che tu sia..."

Pim, pum! A un tratto si sentirono certi tonfi... e i due anitrotti caddero morti nel canneto, e l’acqua divenne rossa di sangue. Pim, pum! risonò di nuovo; e tutto lo stormo delle anitre si levò di tra’ giunchi; e si sentirono altri spari ancora. Era una grande caccia. I cacciatori stavano tutti appostati intorno alla palude: alcuni persino appollaiati tra i rami degli alberi, che sporgevano sopra il canneto. Il fumo azzurrino della polvere passava a fiotti tramezzo ai rami oscuri, e si posava lontano, sull’acqua. I cani penetrarono nella palude. Platsch, platsch! Giunchi e canne si abbattevano da ogni lato. Che spavento fu quello per il povero anitroccolo! Volgeva il capo, per nasconderlo sotto l’ala, quando si vide dinanzi un terribile cane, grosso così, con la lingua che gli pendeva tutta fuor dei denti, e gli occhi che ardevano come carboni accesi. Quando fu lì, che con la coda quasi toccava l’anitroccolo, dischiuse i denti aguzzi e... platsch! - se ne andò senza toccarlo.

"Dio sia ringraziato!" - sospirò quello: "Sono tanto brutto che nemmeno il cane vuol mangiarmi!"

E così rimase quatto quatto, mentre i pallini fischiavano tra le canne e gli spari succedevano agli spari.

Soltanto tardi nel pomeriggio tornò la quiete, ma il povero piccino non osava ancora muoversi. Lasciò passare molte ore prima d’arrischiarsi a guardare attorno; poi, quanto più presto potè, in fretta e furia, lasciò la palude. Correva correva, per campi e per prati; ma era scoppiato un temporale, ed a stento riusciva ad andare innanzi.

Verso sera giunse ad una misera capannuccia, ridotta in uno stato così deplorevole, che rimaneva ritta per non saper da qual parte cadere. Il vento s’era fatto tanto furioso, che l’anatrino dovette accoccolarsi, per non esser portato via. E la furia del temporale cresceva sempre. La povera bestiola osservò che la porta, uscita dall’uno dei cardini, era sgangherata per modo, che dalla fessura egli avrebbe potuto benissimo penetrare nella capanna. E così fece.

Nella capanna abitava una vecchietta, col suo gatto e la sua gallina; il gatto, ch’essa chiamava Figlietto, sapeva far groppone, sapeva far le fusa, e persino mandar scintille, quando, al buio, lo si accarezzava contro pelo; la gallina aveva certe zampine, piccine piccine, e per ciò si chiamava Gambacorta; faceva le ova d’oro, e la vecchia le voleva bene come ad una figlia.

La mattina si avvidero subito del forestiero; ed il gatto incominciò a far le fusa e la gallina a razzolare.

"Che c’è?" - domandò la vecchietta, e si guardò attorno; ma perchè non ci vedeva bene, prese l’anitroccolo per una grossa anitra. "Ecco un buon guadagno!" - disse: "Così, potrò avere ova d’anitra. Pur che non sia un maschio... Bene, staremo a vedere."

E così l’anitroccolo fu preso a prova per tre settimane; ma ova non ne venivano.

Il gatto era il padrone di casa e la gallina la padrona; anzi, parlando, dicevano sempre: "Noi e il mondo," - perchè tra loro due credevano d’essere metà del mondo, e la metà migliore, naturalmente. All’anitroccolo pareva, a dir vero, che si potesse anche avere un’opinione diversa; ma, questo, la gallina non lo poteva tollerare.

"Sai far l’ovo?" - domandava.

"No."

"E allora sta’ zitto!"

E il gatto domandava: "Sai far groppone? sai far le fusa? sai mandar fuori scintille?"

"No."

"E allora tu non puoi avere opinioni, quando la gente savia ragiona."

L’anitroccolo se ne stava in un cantuccio ed era di cattivo umore. Senza volere, pensava all’aria fresca, al sole, e gli veniva una tal voglia di tuffarsi nell’acqua, una tale smania di nuotare, che alla fine non potè resistere e la confidò alla gallina.

"Che ti salta in mente?" - esclamò questa "Non hai niente da fare; epperò ti prendono così strane voglie. Se tu facessi l’ovo o le fusa, vedresti che ti passerebbero."

"Ah, ma nuotare, che delizia!" replicava l’anitroccolo: "Che delizia rinfrescarsi il capo sott’acqua, e saltar giù dalla riva per tuffarsi!"

"Sì, dev’essere proprio una bella gioia!" - disse la gallina ironicamente: "Diventi matto, ora? Domanda un po’ al gatto, ch’è il più savio tra quanti io mi conosca, se gli parrebbe un piacere saltare nell’acqua e nuotare! Di me, non parlo... Domandalo, se vuoi, anche a Sua Eccellenza, la nostra vecchia padrona. Più savio di lei, non c’è alcuno al mondo. Ti pare che le possa venir voglia di nuotare, o di sentirsi richiudere l’acqua al di sopra del capo?"

"Voi altri non mi capite!" - disse l’anatroccolo.

"Se non ti si capisce noi, chi dunque t’ha a capire? Non vorrai già essere più sapiente del gatto e della padrona. Di me, ti dico, nemmeno voglio parlare. Non farmi lo schizzinoso, bambino; non ti mettere grilli per il capo. Ringrazia il tuo Creatore per tutto il bene che ti ha concesso. Non sei capitato in una stanza ben riparata, e in una compagnia, dalla quale non hai se non da imparare? Ma sei un cervello sventato, e non c’è sugo a ragionare con te. A me, tu puoi credere, perchè ti voglio bene; ti dico certe verità che ti feriscono, ma da questo si conoscono i veri amici! Vedi d’imparare a far l’ovo, a buttar fuori scintille e a far le fusa!"

"Credo che me n’andrò a girare il mondo," - disse l’anitroccolo.

"Buon pro ti faccia!"   disse di rimando la gallina.

E l’anitroccolo se ne andò. Si tuffò nell’acqua, nuotò; ma per la sua bruttezza tutte le bestie lo scansavano.

Venne l’autunno: nel bosco le foglie diventarono gialle e brune: la bufera le portava via, le faceva turbinare, e su, nell’aria, il freddo diveniva sempre più intenso. Le nubi pendevano gravi di gragnuola e di fiocchi di neve, e sulla siepe c’era un corvo che faceva cra-cra dal freddo. Davvero che c’era da gelare solo a pensarci! E per il povero anitroccolo furono tempi molto duri.

Una sera - il sole tramontava appunto in tutto il suo meraviglioso splendore - sbucò fuori da’ cespugli uno sciame di grandi e magnifici uccelli, così belli come il nostro anitroccolo non ne aveva ancora mai veduti; di una bianchezza abbagliante, con certi colli lunghi e flessuosi. Erano cigni. Mandarono un loro verso speciale, allargarono le grandi splendide ali, e volarono via da tutto quel gelo, verso paesi più caldi, verso mari aperti. Volarono così alto, che il brutto anatrino provò dentro un senso strano, mentre li guardava salire. Si mise a girare e a girare nell’acqua come una ruota; allungò il collo verso gli uccelli, e mandò un grido così forte e così curioso, ch’egli stesso n’ebbe paura. Non poteva cavarsi dal cuore quei magnifici, quei beati uccelli: appena li ebbe perduti di vista, si tuffò giù giù sino al fondo, e tornò a galla, ch’era quasi fuor di sè. Non sapeva come quegli uccelli fossero chiamati, nè dove dirigessero il volo; ma voleva loro un bene, un bene che non aveva ancora voluto a nessuno al mondo. Non provava invidia: come gli sarebbe nemmeno passato per il capo di desiderare per sè una simile bellezza? Abbastanza sarebbe stata felice, la povera brutta bestiola, se le anitre avessero voluto tollerarla!

E l’inverno si fece così freddo, così freddo!... L’anitroccolo doveva nuotare e nuotare senza posa per isfuggire al gelo. Ma ogni notte il buco dove nuotava si faceva più piccino, sempre più piccino. Era così freddo, che la superficie del ghiaccio scricchiolava. L’anitroccolo doveva agitare continuamente le gambe, per impedire che il buco finisse di chiudersi. Finalmente, si sentì esausto, si abbandonò lì, senza muoversi più, e così rimase, quasi gelato, sul ghiaccio.

La mattina dopo, per tempo, venne un contadino, e lo vide; s’accostò, spezzò il ghiaccio con uno de’ suoi zoccoli di legno, e portò l’anitroccolo a casa, a sua moglie; e lì l’anitroccolo rinvenne.

I ragazzi si provarono a giocare con lui. Ma egli credendo che volessero fargli male, dalla gran paura volò nella secchia del latte, così che tutto il latte schizzò per la stanza. La donna, disperata, battè le mani, e l’anitroccolo, più spaurito ancora, via, sul vaso dov’essa teneva in serbo il burro; e di lì, dentro la madia, in mezzo alla farina, e poi fuori di nuovo, e su, in alto, per la camera. Immaginatevi com’era conciato! La donna gridava e gli correva dietro con le molle, i ragazzi saltavano per la casa, ridendo e strepitando e facendo un chiasso indiavolato. Per buona sorte, la porta era aperta; e l’anitroccolo potè mettersi in salvo, scappando a traverso ai cespugli, sulla neve caduta di fresco; e là rimase, così spossato, che pareva fosse per morire.

Ma qui la storia diverrebbe proprio troppo melanconica, se vi avessi a raccontare tutti i patimenti e la miseria, che l’anitroccolo dovette sopportare in quel crudo inverno. Stava accoccolato tra le canne della palude, quando il sole ridivenne caldo e splendente, e le allodole tornarono a cantare.

Venne una magnifica primavera, ed egli potè spiegare di nuovo le ali, ch’erano divenute più forti e lo reggevano ora molto meglio. Prima ch’egli stesso sapesse come, si trovò in un grande giardino, dove i meli erano in piena fioritura, dove i lillà spandevano un dolce odore, allungando le verdi rame pendule sin sopra ai ruscelli ed ai canali che lo traversavano. Che bellezza quel giardino! Che freschezza di primavera! E proprio dinanzi a lui sbucarono di tra il fitto del fogliame tre splendidi cigni candidi, e si accostarono nuotando: con le ali leggermente arruffate, venivano scivolando agili e maestosi sull’acqua... L’anatrino riconobbe gli splendidi animali e fu preso da una strana angoscia.

"Voglio volare sin là, presso agli uccelli regali: mi morderanno e mi faranno morire, per avere osato, io così brutto, accostarmi ad essi. Meglio ucciso da loro, che perseguitato dalle anitre, beccato dai polli, respinto dalla ragazza della fattoria, per patire poi tutto quel che ho patito durante l’inverno!" - E volò sino all’acque e poi nuotò verso i candidi cigni, i quali accorsero ad ali spiegate. "Uccidetemi!" - disse la povera bestiola, e chinò il capo verso lo specchio dell’acqua aspettando la morte... Ma che cosa vide mai nell’acqua chiara? Vide sotto di sè la sua propria immagine; e non l’immagine d’un brutto uccello tozzo e grigiastro, orribile a vedersi; ma quella di un candido cigno.

Che importa l’esser nati nel cortile delle anitre, quando si esce da un ovo di cigno?

Ora sì, che si sentiva perfettamente felice, compensato di tutte le miserie e le disgrazie passate. Ora egli comprendeva tutta la sua felicità, e sapeva apprezzare lo splendore che si vedeva d’intorno. E i grandi cigni lo circondavano e lo lisciavano col becco.

Vennero nel giardino alcuni bambini: gettarono pane e grano nell’acqua, ed il più piccolo gridò: "Uno di nuovo! ce n’è uno di nuovo!" E gli altri bambini tutti contenti: "Sì, ecco che n’è venuto un altro!" - E batterono le manine, e si misero a ballare, e corsero a chiamare il babbo e la mamma; e buttavano pane e biscotti nell’acqua, e tutti dicevano: "Il nuovo è il più bello di tutti, così giovane, così maestoso..." - Ed i cigni più vecchi s’inchinavano dinanzi a lui.

Allora la timidezza lo prese: divenne tutto vergognoso, e nascose il capo sotto l’ala; provava un certo che... non sapeva neppur lui quel che provava. Era sin troppo beato; ma nient’affatto superbo, perchè il cuore buono non è mai superbo. Pensava quanto era stato perseguitato e schernito; ed ora sentiva dire da tutti ch’era il più bello tra quei bellissimi uccelli! I rami di lillà si chinavano sull’acqua verso di lui; il sole splendeva caldo e lo ristorava. Arricciò le penne, allungò l’esile collo e si rallegrò dal profondo del cuore: "Non avrei mai sognata una gioia simile, quand’ero ancora un brutto anitroccolo!"

Hans Christian Andersen -
da: Quaranta novelle
(Eventyr og Historier, Kjöbenhavn, C. A. Reitzels Forlag, 1887, Volume I, 237, Novella XXVII: Den Grimme Aelling: "Der var saa deiligt ude paa Landet"...)



Buona giornata a tutti. :-)





                                            






lunedì 16 dicembre 2019

L'abete - Hans Christian Andersen

C'era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli stavan d'attorno a tenergli compagnia. 
Ma egli non aveva che una smania sola: crescere. 
Non gli importava di sole caldo nè di aria fresca; nè si curava dei contadinelli che gli passavano dinanzi chiacchierando, quando venivano al bosco in cerca di fragole e di more. 
Spesso, quando ne avevano colto tutto un panierino, o quando avevan fatto una coroncina di fragole, infilate su di una paglia, venivano a sedere accanto al piccolo abete, e dicevano: «Com'è grazioso, così piccolino!» — Ma all'abete quel complimento poco garbava.
L'anno appresso era cresciuto di un nodo intero, e l'anno dopo ancora, di un altro; perchè negli abeti dal numero dei nodi si può sempre dire il numero degli anni che sono cresciuti.
«Oh, se fossi alto come quell'albero laggiù!» — sospirava il piccolo abete: «Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi superbamente anch'io come i grandi.»
Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini, nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina e sera.
Tal volta, nell'inverno, quando la neve era sparsa per tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto spiano, e saltava pari pari sopra l'abete. Oh, gli faceva una rabbia... 
Ma gl'inverni passarono, uno dopo l'altro; e, quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno.
«Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi! Ecco la sola cosa bella di questo mondo! — pensava il piccolo abete.
Ogni autunno solevano venire i taglialegna a segare gli alberi più alti; e così fecero anche quell'anno. Il piccolo abete, che oramai si era fatto bello alto, rabbrividiva dallo spavento, perchè i grandi alberi maestosi piombavano a terra con fracasso; e poi avevan mozzati tutti i rami, così che rimanevano nudi, lunghi e sottili, da non riconoscerli nemmeno più. E poi erano caricati sui barocci, e i cavalli li trascinavano fuori dal bosco. Dove andavano? che destino li aspettava?
A primavera, quando venivano le rondini e la cicogna, l'alberello domandava loro: «Sapete dove li abbiano portati? Non li avete incontrati per via?»
Le rondini nulla ne sapevano; ma la cicogna, fatta pensosa, scrollava il capo e diceva: «Sì, credo di saperne qualche cosa. Ho incontrato molti bastimenti nuovi, tornando dall'Egitto; e i bastimenti avevano certi alberi alti... M'immagino che fossero quelli. Odoravano di pino. Posso darti la mia parola ch'erano maestosi, molto maestosi.»
«Oh, se fossi grande abbastanza da andar per mare! Che roba è questo mare? A che somiglia?»
«Sarebbe troppo lungo a spiegare...» — e la cicogna se ne andava per i fatti suoi.
«Godi la tua gioventù,» — dicevano i raggi di sole: «Rallegrati della tua nuova altezza, della vita giovanile che è dentro di te.»
E il vento baciava l'alberello, e la rugiada lo bagnava di lacrime; ma il piccolo abete non comprendeva.
All'avvicinarsi del Natale, furono tagliati certi abeti giovani giovani, taluni anche più giovani e più bassi del nostro alberello, il quale era in continua agitazione, dalla gran voglia che aveva di andarsene. 
Questi piccoli alberi, ed erano per l'appunto i più belli, si caricavano intatti, con tutti i loro rami, sopra i barocci, per portarli fuori del bosco.
«Ma dove vanno tutti?» — domandava l'abete: «Non sono più alti di me; uno, anzi, era molto più piccino. E perchè a questi non tagliano i rami? Dove li portano?»
«Noi sì, che lo sappiamo! Noi sì, noi sì!» — pigolarono i passeri. «Laggiù, in città, noi guardiamo dentro dalle finestre. Noi sì, sappiamo dove li portano, noi sì! Oh bisogna vedere come li rivestono, con che lusso, con che splendore! Abbiamo guardato dentro dalle finestre, ed abbiamo veduto come li piantino nel mezzo della stanza calda e li adornino delle cose più belle — mele dorate, noci, dolci, balocchi, e centinaia e centinaia di candeline colorate.»
«E poi? e poi?» domandava l'abete, e tremava persino, dalla vetta alle radici, per la grande ansietà: «E poi? che cosa avviene poi?»
«Poi? non abbiamo veduto altro. Ah, ma era una bellezza!»
«Chi sa ch'io non sia destinato un giorno ad una simile gloria?» — gridò l'albero allegramente: «È ancora meglio che viaggiar per mare. Ah, che struggimento! Vorrei che fosse oggi Natale! Oramai sono grande e grosso come quelli che furono menati via l'anno passato. Ah, mi par mill'anni d'essere sul baroccio! Mi par mill'anni d'essere nella stanza calda, tra tutta quella pompa, tra quello splendore! E poi? Già, deve poi venire qualche cosa di più bello ancora: se no, perchè mi adornerebbero a quel modo? deve venire poi una grandezza, una gloria anche maggiore; ma quale? Oh, che struggimento, che struggimento! Non so nemmen io che cos'abbia per soffrire così!»
«Gioisci e contentati di noi!» — dicevano l'aria e il sole: «Rallegrati della tua fresca giovinezza nella foresta!»
Ma l'abete non si rallegrava punto: non faceva che crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d'un bel verde cupo. 
La gente diceva: «Che bell'albero!» — e, a Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. 
L'ascia andò profonda, sino al midollo, e l'albero cadde a terra con un sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento, non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori ch'erano lì attorno — nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il distacco fu tutt'altro che lieto!
L'albero non tornò in sè che quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e sentì dire:
«Questo sì, ch'è magnifico: non voglio vederne altri. Prendiamo questo.»
Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono l'albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c'erano due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che valevano cento volte cento lire — almeno, così dicevano i bambini. E l'abete fu posto in un grande mastello pieno di sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello, perchè era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel mezzo d'un bel tappeto a colori. 
Ah, come tremava, ora, il nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano qua e là, che parevano nate sull'albero; e più di cento candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami. Bambole, che sembravan vive — l'abete non ne aveva mai vedute, di simili, prima d'allora, — si dondolavano tra mezzo al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell'albero, era inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza, come non se ne vedono.
«Questa sera,» — dicevan tutti: «Questa sera ha da esser bello, tutto illuminato!»
«Ah!» — pensava l'albero: «Mi par mill'anni che venga sera, e che i lumicini sien tutti accesi! Quando sarà? Son curioso di sapere se gli alberi verranno dal bosco per vedermi! E i passeri? Chi sa se voleranno contro ai vetri delle finestre? Chi sa come crescerò, qui, tutto adorno così, estate e inverno!»
Sì, l'aveva per l'appunto inzeccata! Ma, a forza di allungare la vetta e di struggersi dal desiderio, s'era buscato un fortissimo mal di tronco; ed il mal di tronco è cattivo per gli alberi, come il mal di capo per gli uomini. 

Finalmente le candeline furono accese. Che luccichìo! Che bellezza! L'albero tremava tanto, per tutti i rami, che una delle candele appiccò il fuoco ad un ramoscello verde, il quale n'ebbe una buona sbucciatura.
«Per amor di Dio!» — gridarono le signorine, e si precipitarono a spegnere il fuoco.
Ora l'albero non osava più nemmeno tremare. Ah, che spavento! Stava fermo fermo per non dar fuoco a qualcuno de' suoi bei gingilli... E poi, tutti quei lumi lo stordivano. 
In quella le porte del salotto furono spalancate, ed una frotta di bimbi irruppe correndo, come se volessero rovesciare l'albero ed ogni cosa: i grandi li seguirono, con più calma. I piccini rimasero muti, a bocca aperta... oh, ma per un minuto soltanto: poi, principiarono a fare un chiasso così indiavolato, che la stanza ne rimbombava; e si misero a ballare rumorosamente intorno all'albero, e tutti i regali furono colti dai rami, uno dopo l'altro.
«Che fanno?» — pensava l'albero: «Ed ora, che cosa accadrà?»
Le candele andavano consumandosi, e quando erano tutte bruciate, sino al ramo, si spegnevano. Dopo che furono spente, fu permesso ai bambini di spogliare l'albero. Ah, ci si avventarono sopra con una furia, che tutti i rami scricchiolarono. Se la vetta non fosse stata assicurata al soffitto per mezzo della stellina di similoro, sarebbe certo caduto a terra.
I bambini ballavano per la stanza con i bei balocchi nuovi. Nessuno guardava più l'albero, all'infuori della vecchia bambinaia, che gli si accostò e spiò tra i rami; ma soltanto per vedere se mai un fico od una mela vi fosse rimasta dimenticata.
«Una novella! una novella!» — gridarono i bambini, e strascinavano verso l'albero un piccolo signore grasso; ed egli vi si sedette sotto: «Così saremo in un bel bosco verde,» — disse; «e l'albero avrà la fortuna di sentire la novella. Ma non ve ne posso raccontare che una sola. Volete quella di Ivede-Avede, oppure quella di Zucchettino-Durettino, che cadde giù dallo scalino, ma poi tornò su, e fu rimesso in onore e sposò la Principessa?»
«Ivede-Avede!» — gridarono alcuni. «Zucchettino-Durettino!» — urlarono gli altri; e ci furono strilli e ci furono anche pianti. 
L'abete solo rimaneva zitto zitto e pensava: «O io? Che non ci abbia ad entrare?» Ma egli aveva avuto la sua parte nei divertimenti della serata, ed aveva dato, oramai, quello che da lui si voleva.
E il signore grasso raccontò di Zucchettino, che era caduto giù dallo scalino, ma poi era salito ai più alti onori ed aveva sposato la Principessa. E i bambini batterono le mani e gridarono: «Un'altra! un'altra! Raccontane un'altra!» perchè ora volevano la novella di Ivede-Avede; ma dovettero accontentarsi di quella di Zucchettino. 
L'abete se ne stava zitto zitto, tutto pensieroso: mai gli uccelli del bosco avevano raccontato una storia simile. «Zucchettino era caduto, e pure era tornato in onore, ed aveva sposato la Principessa! Sì, così accade nel mondo!» — pensava l'abete, e credeva che fosse tutto vero verissimo: quegli che aveva raccontato la storia era un signore così per bene!... 
«Dopo tutto, chi può dire mai nulla? Forse che anch'io cadrò, e poi sposerò una Principessa!» Ed in tanto si rallegrava tutto al pensiero d'essere adornato di nuovo, la sera dopo, con tanti lumicini e tanti balocchi, e frutta e lustrini:
«Domani non tremerò mica più!» — pensava: «Sarò, in vece, tutto felice del mio splendore. Domani, sentirò di nuovo la storia di Zucchettino-Durettino, e forse, chi sa? imparerò anche quell'altra, di Ivede-Avede...»
E l'albero rimase fermo tutta la notte, a pensare.
La mattina entrarono i domestici e la cameriera.
«Ecco che ora ricomincia il mio splendore!» — pensò l'albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno arrivava un raggio di sole.
«Che significa questa faccenda?» — pensò l'albero: «Che vogliono che faccia qui ? Ed ora, che cosa accadrà?»
E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E tempo n'ebbe sin troppo, perchè passarono i giorni e le notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi casse. Così l'albero rimaneva ora del tutto nascosto: probabilmente, lo avevano dimenticato.
«Fuori è inverno, ora» — pensava l'albero: «la terra è dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non fosse questo buio e questa terribile solitudine!.... Mai che si veda nemmeno un leprattino! Era bello, però, il bosco, quando c'era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì, anche quando mi passava sopra d'un salto... Allora, mi faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!»
«Piip, piip!» — disse a un tratto un topolino, e fece qualche passo avanti; e poi ne venne subito un altro, piccolino piccolino. Fiutarono l'abete, e si ficcarono tra mezzo ai rami.
«Fa tanto freddo...» — dissero i due topolini: «Se non fosse freddo, si starebbe abbastanza comodi quassù; non le pare, vecchio abete?»
«Non son punto vecchio,» — disse l'abete: «Ce ne sono molti e molti più vecchi di me.»
«Di dove viene?» — domandarono i topolini «E che nuove porta?» (Erano terribilmente curiosi.) «Ci racconti, la prego, del più bel paese del mondo. C'è stato lei? È stato nella dispensa, dove ci sono i formaggi sopra gli scaffali, e i prosciutti pendono dalla travatura, dove si può ballare sui pacchi di candele, dove si va dentro magri e si esce grassi grassi?»
«Non conosco questo paese;» — rispose l'abete: «Ma conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano.»
E allora raccontò del tempo della sua giovinezza.
I topolini, che non avevano mai udito nulla di simile, stavano attenti; poi dissero: «Quante cose ha vedute lei, signor abete, e come dev'essere stato felice!»
«Io?» — esclamò l'abete, e ripensò a tutto quello che aveva raccontato: «Sì, davvero che quelli erano tempi felici!» Ma poi raccontò della sera di Natale, quand'era tutto carico di dolci e di candeline.
«Oh!» — disse il topo più piccino: «Come dev'essere stato felice lei, nonno abete!»
«Ma non sono nonno, non sono vecchio io!» — disse l'abete: «Sono uscito dal bosco appena quest'inverno. Sono nel fiore dell'età; gli è soltanto che sono cresciuto un po' in fretta.»
«Che magnifiche novelle sa raccontare lei!» — disse il topolino.
E la notte dopo, vennero con altri quattro topolini a sentire quello che l'albero sapeva raccontare così bene; e più raccontava, e più chiaro gli si riaffacciava il ricordo di tutto, e pensava: «Quelli erano tempi lieti! Ma possono tornare. Anche Zucchettino-Durettino cadde dallo scalino, ma poi sposò la Principessina.» E allora l'abete ripensò ad una graziosa betulla, che cresceva nella foresta; per l'abete, quell'alberella era una vera Principessa.
«Chi è Zucchettino-Durettino?» — domandò il topo più piccolo.
L'abete gliene raccontò tutta la storia. La ricordava parola per parola; e i topolini, dalla gioia, per poco non gli saltarono sino in vetta. 
La notte dopo, vennero addirittura in frotta; e la domenica comparvero persino due ratti; ma questi dissero che la storia non era bella, e ai topolini ciò rincrebbe, perchè ora non piaceva più tanto nemmeno a loro.
«Non ne sa altre, novelle?» — domandarono i ratti.
«Non so che questa;» — rispose l'albero: «La udii nella più bella serata della mia vita: non sapevo, allora, quanto fossi felice.»
«È una storia molto meschina. Non ne sa una di prosciutti e di candele di sego? Non sa storielle di dispensa?»
«No» — disse l'albero.
«E allora, servi devoti!» — dissero i ratti; e tornarono alle loro famiglie. Anche i topolini alla fine se ne andarono; e l'abete sospirò, e disse:
«Era bello, però, quando mi stavano tutti attorno, quei cari topolini così allegri, ed ascoltavano i miei racconti. Ora, è finita anche questa. Ma mi ricorderò di essere contento quando mi levano di qui».
Quando lo levarono? Mah! Fu una mattina che la gente di casa venne su a frugare per tutto il solaio: le grandi casse furono scostate, e l'albero fu scovato fuori: veramente, lo buttarono a terra con certo mal garbo; ma poi un domestico lo strascinò subito sulla scala, alla luce del giorno.
«Ah! la vita ricomincia!» — pensò l'abete.
Sentì la prima aria fresca, i primi raggi di sole, e si trovò fuori, in un cortile. Tutto ciò era accaduto così rapidamente, che l'albero aveva dimenticato di guardare a se stesso: c'era tanto da guardare intorno a lui!... Il cortile confinava con un giardino; e nel giardino, tutto era in fiore: le rose pendevano fresche e profumate al disopra del piccolo steccato; i gigli erano in piena fioritura, e le rondini gridavano «Videvit! Videvit! Viene mio marito-marit!» Ma non intendevano già con questo di parlare dell'abete.
«Ora sì, che vivrò!» — disse l'abete tutto allegro, e distese un po' più le braccia... Ma, ahimè! Erano tutte secche e gialle; ed egli si vide buttato là, in un angolo, tra le ortiche e le male erbacce. Sulla vetta aveva ancora la stella di similoro, che scintillava al sole.
Nel cortile giocavano due di quegli allegri fanciulli che avevano ballato intorno all'albero la sera di Natale, e lo avevano tanto ammirato. 
Il più piccino corse a strappargli la stellina dorata.
«Guarda che cosa c'è attaccato a quel brutto alberaccio!» — disse il bambino; e calpestò i rami, che scricchiolarono sotto alle sue scarpette.
L'albero guardò a tutti i fiori lussureggianti, a tutti gli splendori del giardino, e poi guardò a se stesso, e gli dolse di non essere rimasto nell'angolo buio del solaio: ripensò alla sua fresca giovinezza nel bosco; alla lieta notte di Natale; ai topolini, che avevano ascoltato con tanto piacere la novella di Zucchettino.
«È finita! è finita!» — disse il vecchio albero: «Almeno avessi goduto quando potevo! È finita, finita, finita!»
Venne un domestico, segò l'albero in pezzi, e ne fece una fascina. La fascina mandò una bella fiamma sotto la caldaia che bolliva, e sospirò profondamente; ed ogni sospiro era come un lieve scoppiettìo. 
I bambini, che giocavano lì attorno, corsero a mettersi dinanzi al fuoco; e guardavano, e facevano: «Puff Puff!» Ma ad ognuno di quegli scoppiettii, che era un profondo sospiro, l'albero pensava ad una bella giornata d'estate nel bosco, o ad una notte d'inverno, quando le stelle scintillavano sopra gli abeti; pensava alla sera di Natale ed alla novella di Zucchettino, l'unica novella che avesse mai sentita, l'unica che avesse mai saputo raccontare... E finalmente, l'abete fu tutto finito di bruciare.
Poco dopo i bambini giocavano nel giardino, ed il più piccolo aveva appuntata sul petto una stella dorata, proprio quella che l'abete aveva portata nella più bella serata della sua vita. 
Era finita, ora: finita la vita dell'albero, e finita anche la novella: finita, finita, finita, come accade di tutte le novelle.



Buona giornata a tutti. :-)


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