Visualizzazione post con etichetta racconto. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta racconto. Mostra tutti i post

domenica 9 dicembre 2018

“Fermati, don Camillo!” - Giovannino Guareschi da: “Mondo Piccolo”

Don Camillo andò a letto e lo svegliarono le donnette che venivano per la Messa mattutina e avevano trovato chiusa la porta della chiesa.

Don Camillo immerse la faccia nel catino pieno d’acqua fredda e scese di corsa.
“E tardi, mi dispiace” spiegò alle donnette raccolte davanti alla porta della canonica. “Non so cosa possa essermi successo. Il campanaro non è tornato, ieri sera: è rimasto bloccato in città dalla neve.”
Il gattino bigio gli si strusciò contro una gamba e don Camillo rabbrividì. Si avviò verso la chiesa, ma in quel momento si udì uno schianto.
“Il tetto della chiesa si sfascia!”


***
II colmo del tetto non era più orizzontale, si era abbassato di mezzo metro verso la parte posteriore. Qualche trave doveva aver ceduto, disse qualcuno, ma si fece avanti il Bigio, il capomastro,che, considerata la faccenda, scosse il capo.
“Non si è spaccato niente” disse. “La trave maestra del colmo poggia, davanti, sul culmine del frontale della chiesa e, dietro, su una capriata. Il peso della neve ha fatto sbracare i puntoni dei due capi del tirante. Adesso i puntoni poggiano (sulla trave del tirante e si sono abbassati per quel tanto che il puntone del culmine è più corto. Fin che i puntoni degli spioventi non si sbracano dal puntone del culmine, non c’è nessun pericolo.”
Era un ragionamento complicato per dire una cosa semplice: ma si udì un nuovo schianto e il colmo del tetto si inabissò.
“Si è spaccata la trave del tirante” disse il Bigio.
“Adesso il peso è tutto sulla volta: se la volta cede, a Messa, stamattina, ci va il tetto.”
Don Camillo, che era rimasto a guardare sgomento, pensò all’altare, al Tabernacolo, al Cristo crocifisso.
“Non fate stupidaggini” gli gridarono. Ma oramai aveva aperto la porta della chiesa ed era entrato.
Ma una voce imperiosa si udì:
“Fermati, don Camillo!”.
E don Camillo ristette un istante sulla porta e, proprio in quell’istante, rovinò la volta e la chiesa si riempì di mattoni, di travi, di tegole e di neve.
Don Camillo trovò tra sé e l’altare una montagna di macerie cementate dalla neve: ma l’altare c’era ancora, intatto, perché la cupola non s’era mossa.
Guardò in alto e vide soltanto la neve scendere dal gran rettangolo di cielo che ora stava al posto del soffitto della sua chiesa.
Don Camillo pensò al gatto nero e non capiva come potesse entrarci il gatto nero con la neve che aveva fatto crollare il tetto.
Tutto il paese venne a vedere quella rovina: don Camillo pareva che anche lui fosse un grosso rottame perché, dopo un’ora, stava ancora immobile a guardare sbalordito il mucchio di macerie. E la neve gli si era ammucchiata sulle spalle e non si poteva capire bene se don Camillo avesse il viso bagnato perché la neve gli si scioglieva sulla faccia o perché piangeva.
A un tratto il suo sguardo, occupato fino a quel momento a considerare nel suo impressionante complesso la montagna di macerie, si concentrò su un particolare del mucchio.
Poi, con un balzo, don Camillo fu sul mucchio e, agguantata una grossa trave, la scosse e la tirò fin che non fu riuscito a cavarla fuori dal groviglio.
La gente si fece avanti.
“È la trave del tirante della capriata” disse il Bigio. “Anzi, è una mezza trave del tirante.”
Poi tacque perplesso: anche un orbo avrebbe visto che la trave del tirante era stata segata nel mezzo. Il taglio era fresco.
La trave non era stata segata tutta: segata per tre quarti. L’altro pezzo era spaccato.
Don Camillo pensò ancora al gatto nero e sentì che il suo occhio, adesso, stava guardando una cosa che egli ancora non vedeva.
Poi vide, nella neve mescolata alle macerie, la cosa.
E allora tutti si buttarono sul mucchio e cominciarono a tirar via roba. Dopo un’ora di lavoro furibondo trovarono l’uomo che aveva macchiato col suo sangue la neve. Vicino a lui era un segaccio
L’uomo giaceva bocconi, morto e stramorto, e aveva la faccia affondata nel calcinaccio. E nessuno ebbe il coraggio di rivoltarlo per vedere chi fosse perché tutti avevano paura di conoscerlo.
Lo voltò il maresciallo dei carabinieri.
Tirarono fuori anche l’altro pezzo della trave e studiarono il taglio.
“Aveva pensato di tagliare tre quarti del tirante e andarsene: poi la neve, aumentando di peso, avrebbe fatto il resto. Non si era accorto che la trave, proprio sotto il taglio, aveva una crepa e così tutto è crollato prima che il tipo si fosse messo in salvo. Probabilmente era una sorpresa che aveva preparato per il Natale.”
Non disse chi era il tipo venuto giù assieme al tetto.
“È uno di via, uno di quelli che lavorano per la pace” si limitò a spiegare.
La sera del 23 dicembre, don Camillo pensava con  immenso sgomento che la sera dopo era la Vigilia: “Dove dirò la Messa di Mezzanotte?”.

***
E venne la sera della Vigilia e la gente si era tutta chiusa in casa perché la Paura ululava dalle macerie della chiesa sepolta nel buio.
Pareva un paese in guerra: ed era davvero un atto di guerra feroce degli uomini contro il loro Dio. E il mostruoso gatto nero galoppava in tutti i campi deserti, tenendo la statuetta di Gesù Bambino tra le zanne.
Cadde sul paese un silenzio orrendo perché era una meravigliosa notte serena e la neve candida e immacolata copriva la terra nera.
Chi avrebbe infranto il cristallo di quell’insopportabile silenzio?
Ed ecco, improvvisamente, si udirono le campane della chiesa e, poco dopo, apparve a una estremità della lunga strada, ai margini della quale erano allineate le case del borgo, una luce inconsueta.
Su un carro pavesato di damasco e trascinato da otto paia di candidi buoi era l’altare sormontato dal grande Cristo Crocifisso. 
E don Camillo celebrava davanti all’altare la Messa.
Ai lati del carro e dietro era il gruppo dei cantori, uomini e donne, con torce fiammeggianti.
La gente si affacciò, scese e, man mano che il Carroccio avanzava, si accodava. II Carroccio percorse lentamente la lunga strada principale, poi si inoltrò nelle strade secondarie e, da ogni aia, la gente usciva e si univa agli altri.
Poi il ritorno e la sosta per l’Elevazione nella piazza gremita.
“Fratelli!” disse don Camillo “la pacifica armata di Cristo, stretta attorno al suo Carroccio, ha vinto stasera la sua battaglia contro la paura.
La casa di Dio è l’universo senza confini e il soffitto è quell’immenso cielo stellato e nessuno potrà farlo crollare.
Non pensate al soffitto della vostra chiesa: guardate quel cielo eterno e infinito e cantate con gioia le lodi del Signore.”
Don Camillo disse questo e altro e, nel cuore della gente, tornò la serenità.
La gente accompagnò il Carroccio fin davanti alla chiesa. Qui qualcuno gridò che bisognava pensare a rimettere a posto tutto e subito, e depose sul piano del Carroccio del denaro.
E tutti passarono davanti al Carroccio e tutti diedero il loro obolo. 

Don Camillo era sceso e appoggiato al carro, guardava sorridendo la sfilata. Fra gli ultimi si presentò un bambino alto due o tre spanne, non arrivava a mettere il suo danaro sul piano del Carroccio. Allora don Camillo lo sollevò.
Era il figlio di Peppone e don Camillo lo guardò con angoscia pensando al gatto nero e mostruoso che teneva tra le fauci il Bambinello.
Rimise giù il ragazzino.
Riportò lui stesso, scavalcando il mucchio di macerie, il Cristo Crocifisso al suo posto, sull’altar maggiore.
“Gesù” disse “l’altra sera, mentre io Vi parlavo, un uomo sul mio capo stava segando la trave. E se Voi non mi aveste detto “Fermati!” io sarei rimasto travolto da quelle macerie.”
“Perché, don Camillo, parli ancora di travi e di soffitti, quando hai detto tu stesso, poco fa, che il vero soffitto della casa di Dio non ha travi e nessuno lo può far crollare?”
Don Camillo guardò in su e vide il grande rettangolo di cielo stellato.
Ma il mostruoso gatto nero non poteva uscire dalla sua mente, e lo vedeva galoppare per i campi deserti e sull’argine in riva al fiume.

- Giovannino Guareschi - 
da:  “Mondo Piccolo”, “Ciao, Don Camillo”, Biblioteca Universale Rizzoli, ed. Bur, pagg. 347-355


Buona giornata a tutti. :-)




sabato 1 dicembre 2018

La donna con l'agnello - Leggenda attribuita a sant'Ambrogio

Un caldo giorno d'estate, uno studente attraversava la piazza di una grande città, famosa per la bellezza delle sue antiche chiese. 
Stava preparando la tesi in architettura e voleva includervi la storia di quegli splendidi monumenti. 
Proprio quella mattina aveva deciso di visitare una delle cattedrali più importanti quando, un po' per l'afa fattasi insopportabile, un po' per sottrarsi al rumoroso traffico dell'ora di punta, decise di entrare nella chiesa che si affacciava sulla piazza.
Appena entrato, si guardò intorno con l'occhio attento di chi cerca qualcosa di particolare, ma la chiesa gli parve del tutto normale, comunque offriva un po' di frescura e i rumori della città vi giungevano piacevolmente attutiti.
Ai lati della navata centrale si allineavano piccole cappelle, ognuna con la rappresentazione di una figura sacra e un tavolino in ferro su cui brillavano allegri tanti lumini. Non che lo studente fosse particolarmente religioso ma ormai, dopo gli studi fatti, sapeva riconoscere gran parte delle figure rappresentate in ogni nicchia.
La Vergine... san Giuseppe con il suo bastone... san Pietro crocifisso a testa in giù... E questa? Si fermò incuriosito davanti al quadro di una giovanissima donna che reggeva fra le braccia una foglia di palma e un piccolo agnello.
Quella tela lo affascinò a tal punto da non riuscire a staccarne gli occhi. Così si sedette su un banco da cui poterla comodamente osservare. 
Era certamente una giovane dell'antica Roma: lo si notava subito dall'abbigliamento, ma anche dai tratti del volto con il naso diritto e affilato, gli occhi scuri e penetranti soffusi di fierezza e dignità, l'ovale perfetto e le labbra sottili appena increspate da un sorriso.
Il nostro studente si domandava quale artista l'avesse mai ritratta con tanta maestria... o forse la fanciulla stessa, con la sua conturbante bellezza, aveva dato vita e anima a quella tela.
«Non la riconosci?» gli chiese una voce al suo fianco.
Il ragazzo fece un balzo: era talmente intento a osservare il quadro che non si era accorto di non essere più solo. 
Vicino a lui sedeva una donna anziana e sorridente, bella di quella particolare bellezza interiore che solo l'età sa donare quando la vita ha maturato buoni frutti.
«A essere sincero, non la riconosco proprio. Lei sa chi è?»
«Ma certo» rispose la donna: «porto il suo nome e so tutto di lei... Vuoi conoscerne la storia?».
«Ne sarei felice, ma non vorrei farle perdere tempo...» rispose lui, senza sapersi spiegare il perché di quell'insopprimibile desiderio di ascoltare la storia della "ragazza con l'agnello".
«Non ho problemi di tempo, figlio mio. Allora ascolta...» e l'anziana signora si sedette vicino a lui cominciando il suo racconto.
«Si chiamava Agnese e la sua bellezza, come puoi ben vedere, era straordinaria. Chi la incontrava non poteva che fermarsi ad ammirarla, rimanendo calamitato dall'espressione di quel viso. Non era solo la perfezione delle forme che risaltava in Agnese, ma qualcosa di più profondo, come se un fuoco l'abitasse emanando un alone luminoso.
Di lei era pazzamente innamorato il figlio del prefetto che avrebbe dato qualunque cosa pur di essersene ricambiato. 
Più volte l'aveva chiesta in moglie offrendole quello che nessuna donna in Roma avrebbe neanche osato sperare di possedere, ma Agnese pareva non interessarsi né all'amore del giovane né a quanto lui le offriva.
Un giorno le parve però corretto giustificarsi con lui, sperando che di fronte a un'evidenza che non gli lasciava speranze avrebbe smesso di soffrire. 
Gli confidò quindi di essere già innamorata di un uomo cui nessun altro poteva essere paragonato, che non le offriva nulla di quanto si potesse immaginare ma qualcosa che valeva molto di più. Lo pregò quindi di non tormentarsi per lei ma di rivolgere il suo amore verso una giovane che potesse ricambiarlo rendendolo felice.
A quelle parole, pronunciate con dolcezza ma anche con determinazione, il giovane tornò al suo palazzo in preda alla disperazione, avendo intuito che non avrebbe mai potuto competere con questo misterioso rivale.
Passò un certo tempo e il prefetto cominciò seriamente a preoccuparsi per lo stato di depressione in cui era caduto il figlio. Decise quindi di scoprire chi fosse l'amante di questa cocciuta fanciulla e, forte del suo potere, sguinzagliò i migliori informatori per tutta Roma.
Uno di loro aveva particolarmente in odio Agnese, essendo a sua volta segretamente innamorato di lei e, come spesso accade agli uomini, non gli parve vero di poter distruggere ciò che non poteva avere.
Si recò quindi dal prefetto e gli raccontò di come Agnese facesse parte della setta dei cristiani e, come molti di loro, fosse esperta in arti magiche tanto da dichiararsi perdutamente innamorata di qualcuno crocifisso a Gerusalemme tanti anni prima. Il suo parere personale era che non si può amare qualcuno che neppure si è conosciuto e che, per giunta, è già morto, senza dar segno di un profondo squilibrio della mente, sicuramente dovuto ai malefici influssi di qualche forza occulta.
In parte rincuorato da questa notizia che non prospettava nessun aitante giovane nella vita di Agnese, il prefetto decise di convocarla al suo palazzo per rendersi personalmente conto della situazione.
Quando la vide ne rimase però stranamente turbato: non solo era bella, ma emanava qualcosa di simile a una calda e fluida corrente che faceva vibrare il cuore. Non riuscì neppure a trattarla troppo rudemente, come era sua abitudine. Cercò invece di allettarla con parole e offerte che la sua esperienza sapeva non avrebbero potuto lasciare indifferente una donna.
Ma Agnese non era una donna come le altre e tutto quello che lui metteva in campo, pensando di far presa sulla sua natura femminile, si scioglieva nella totale indifferenza.
Di fronte a tanto evidente insuccesso non poté che prendere il sopravvento la collera e il prefetto passò a ben altri sistemi per tentare di convincere la ragazza a sposare il figlio, non ultima la prospettiva di terribili torture.
La paura che albergava nel cuore di Agnese, come in quello di chiunque altro, in quel momento irruppe in tutta la sua potenza. Era giovane e amava la vita: come non temere il dolore e la morte? 
Le era stato insegnato che la vita era un grande dono divino, ma anche che il coraggio di difendere ciò in cui si crede la rende veramente degna di essere vissuta.
Agnese era perciò confusa: la mente metteva in campo i suoi soldati, uno da una parte e uno dall'altra, come sempre in contrapposizione. Che fare?
Non rimaneva che scavalcare d'un balzo la mente e tuffarsi nel cuore: così la giovane rimase ferma sul suo tenace rifiuto.
"Se lo è cercato proprio lei" pensò il prefetto, come per alleggerirsi da un peso, e convocò per quello stesso giorno il tribunale che avrebbe dovuto giudicare Agnese in quanto appartenente alla fanatica setta dei cristiani.
Contro di loro tuonò il più agguerrito dei giudici romani: "... non si può ulteriormente tollerare un nido di vipere simile a quello nel cuore della città! I cristiani sono dei pazzi, fautori di pericolose utopie e, come tali, vanno distrutti".
Avrebbero però concesso ad Agnese, in virtù della sua incosciente giovinezza, ancora una scelta: avrebbe avuto salva la vita se fosse entrata a far parte delle vestali del tempio.
Ma come avrebbe potuto inchinarsi di fronte a un vuoto simulacro, quando nel suo cuore ardeva la fiamma dell'unico Dio vivente! Il solo pensiero la faceva rabbrividire: il tempio di Vesta sarebbe stato simile a una nera tomba in cui la sua anima sarebbe lentamente morta.
"È la tua ultima possibilità" replicò il prefetto: "o ti unisci alle vergini che onorano la dea Vesta o sarai portata nella piazza delle meretrici e lì la tua sorte seguirà quella delle altre sciagurate che offrono il loro corpo, non a un degno amore ma solo alla bramosia dei sensi".
"Tu non sai quello che stai dicendo" rispose pacatamente Agnese, sicura delle sue parole come mai lo era stata prima d'allora. "Nulla accade fuori dalla volontà divina e se è questo che Lui vorrà nessuno toccherà il mio corpo".
"Stupida ragazza" pensò indispettito il prefetto, chiedendosi con quale demoniaca fattura i cristiani fossero riusciti a irretire quella giovane mente.
La sentenza fu subito emessa: Agnese doveva essere condotta nella piazza delle meretrici, denudata e lì lasciata per il pubblico piacere. Così, caricata su un traballante carro, la giovane cristiana venne condotta nella malfamata piazza, dove ogni più abominevole desiderio della carne poteva essere appagato.
Fu gettata in una cella aperta sulla strada e lì cominciarono a spogliarla. Ma, a mano a mano che le vesti le venivano tolte, i suoi capelli iniziarono a crescere a dismisura, finché la sua nudità fu ricoperta da una folta chioma, pesante e morbida come un prezioso mantello.
La voce che una giovane e bellissima donna era stata portata fra le meretrici attirò un gran numero di persone, ma chiunque guardasse nella cella di Agnese non vedeva altro che una luce abbagliante davanti alla quale non si poteva fare a meno di inginocchiarsi in deferente silenzio.
Il figlio del prefetto aveva seguito tutta questa vicenda con il cuore in tumulto, diviso fra un accecante amore e un odio altrettanto smisurato. 
Potrà sembrare assurdo che due sentimenti a tal punto contrastanti possano condividere lo stesso cuore, ma questa è l'altalena della luce e dell'ombra.
Così una sera, più che mai in preda all'ansia, cercò la compagnia degli amici più intimi con cui cenare e, soprattutto, spegnere nella coppa del vino il suo tormento. Era già notte fonda quando decisero di recarsi nella piazza delle meretrici per dare una bella lezione a quella sciocca cristiana.
Nella piazza si aggiravano ormai poche persone ciondolanti, più preda dell'alcol che del desiderio. Il luogo si presentava in tutto il suo squallore e le celle si affacciavano sul selciato come tante bocche nere e sdentate.
"Entrate voi e divertitevi quanto volete" disse il figlio del prefetto agli amici, mentre i suoi occhi si riempivano di una rabbia spaventosa.
"Sei sicuro di volerlo?" chiese uno di loro.
"Vi ho detto di entrare!" urlò il giovane.
Tornò il silenzio. Solo qualche ubriaco biascicava parole sconnesse e alcune donne ridacchiavano in un angolo.
Non passò molto tempo prima che il gruppo di giovani ritornasse dall'amico.
"Allora?" chiese questi cupo.
"Allora... niente!" risposero quelli con il volto sbiancato. "Dai retta a noi, andiamocene. Lei non è una donna come le altre. O è una dea o è un demone: certamente non appartiene alla terra ma all'Olimpo".
"Stupide femminucce, vi farò vedere io a chi appartiene!" e così dicendo il ragazzo attraversò di corsa la piazza e sparì nel buio.
Oltre quella soglia stava Agnese, la sua adorata Agnese che aveva osato respingerlo e alla quale ora lui avrebbe strappato dignità e vita. E lei era là, brillante come una stella nell'oscurità e altrettanto lontana. Il giovane si bloccò per un attimo soltanto, poi il solo vederla riaccese in lui una fiamma potente come quelle degli inferi.
Si slanciò su di lei come il lupo sul piccolo agnello, ma come le sue mani si posarono sul corpo di Agnese il giovane cadde a terra fulminato.
Quando lo aveva visto entrare, lei aveva tremato di paura, perché più di ogni altra emozione l'amore può manifestare una potenza dirompente; ma poi, guardando il giovane corpo immobile ai suoi piedi, Agnese provò una profonda pietà. Pensò in quel momento che forse aveva amato quel giovane, anche se non come lui avrebbe voluto.
Il prefetto fu subito informato di quanto era accaduto e si precipitò in preda all'angoscia là dove il figlio giaceva. Abbracciò il corpo senza vita e pianse a lungo.
Agnese lo stava osservando con tristezza quando lui le chiese fra i singhiozzi: "Perché hai colpito proprio lui e non gli altri? Perché proprio il mio ragazzo?".
"Non io l'ho colpito! Chi è entrato qui prima di lui ha percepito la presenza dell'angelo inviato da Dio per proteggere il mio corpo, ma solo tuo figlio, accecato dalla passione, ha teso le sue mani su di me e l'angelo lo ha colpito."
"Ora so che il Dio di cui parli è davvero presente e potente. Ti prego, Agnese, chiedigli di avere pietà e di restituirmi l'unico figlio!"
"Io posso chiedere, ma non è in mio potere cambiare ciò che deve essere. Se Dio lo vorrà, tuo figlio ti sarà restituito". Così Agnese si sedette sulle pietre del pavimento e prese nel suo grembo la testa del giovane romano; poi chiuse gli occhi e pregò.
Piccole gocce di sudore le imperlavano la fronte cadendo sul volto senza vita del ragazzo, mentre un alone di luce pareva giocare, accarezzando ora l'una ora l'altro.
Quando lui riaprì gli occhi, vide il volto pallidissimo di Agnese che lo stava guardando e le sorrise. Un'emozione intensa li unì per un breve attimo e da quel momento non si rividero mai più.
Mentre il giovane si rialzava sostenuto dal padre, un drappello di guardie irruppe nella piazza trascinando via Agnese, né qualcuno ebbe modo di salvarla.
Il prefetto e suo figlio, così come coloro che furono presenti al miracoloso evento, si convertirono al cristianesimo, ma dovettero fuggire in gran fretta da Roma e furono perseguitati per lungo tempo come traditori.
Agnese fu invece portata nella prigione del prefetto Aspasio, che la condannò al rogo. Ma, ancora una volta, l'angelo di Dio giocò un brutto scherzo ai suoi aguzzini. Ogni volta che il fuoco veniva acceso, le rosse lingue ardenti danzavano in ogni dove fuorché intorno al corpo della ragazza.
Il fuggi fuggi intorno alla pira era generale, pareva che ogni brace andasse alla ricerca di una persona prescelta e non la perdesse più di mira... successe un vero parapiglia mentre Agnese non veniva neppure lambita da una fiammella.
Aspasio era furente contro quella cristiana che aveva già portato abbastanza guai, trasformando persino il suo predecessore, insieme al figlio e ai suoi amici, in altrettanti fanatici di quel Dio che metteva scompiglio ovunque arrivasse. Era veramente troppo! Decise così che sarebbe stata sgozzata come un agnello.
Era giunto il suo tempo e così doveva essere. Agnese porse la sua gola al boia come l'agnello al macellaio... ma il sangue non scorre mai invano...»
«Scusa, ragazzo, ma non si viene in chiesa per dormire».
Il nostro studente si scosse intorpidito guardando di traverso il sacerdote che lo stava gentilmente scuotendo per una spalla.
«Ma, veramente, stavo ascoltando la storia di questa santa... Agnese, se non sbaglio...» rispose il ragazzo guardando verso l'altare.
«Sì, certo che è Agnese, ma qui da ore non entra nessuno; quindi non vedo chi possa averti raccontato la sua storia» rispose il prete, cominciando a guardare il ragazzo con più sospetto.
«Ma, reverendo, non ha visto una signora anziana seduta di fianco a me?»
«Assolutamente no; e adesso scusa ma ho da confessare. Se vuoi, fermati, ma fammi il piacere di non rimetterti a dormire!» e così dicendo si affrettò verso la sacrestia.
«Agnese...» bisbigliò il ragazzo e, guardando la splendida creatura che teneva tra le braccia la palma del martirio e l'agnello dell'innocenza, le sorrise. Si guardò subito intorno per accertarsi che nessuno l'avesse visto. 
Ora quel gesto gli sembrava sciocco, ma era stato così spontaneo, quasi familiare. 
Non riusciva a staccarsi da quel luogo, ma era tardi e doveva andare. Prima di uscire la guardò ancora... c'era qualcosa di strano... ma cos'era?

-  Leggenda attribuita a sant'Ambrogio - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


Buona giornata a tutti. :-)






giovedì 29 novembre 2018

Il re assetato

Un re, che andava a caccia, arrivò assetato ai piedi di una rupe da cui filtrava, a gocce, un po' d'acqua. 
Scese da cavallo e staccò dalla sella una coppa d'oro gemmata. Voleva bere. Sul braccio che teneva la coppa stava appollaiato un bel falco: il preferito del re.
Adagio adagio la coppa si riempì; ma quando il re l'avvicinò avidamente alle labbra, il falco scattò, come per lanciarsi in volo, e procurò al braccio che lo sosteneva una tale scossa che l'acqua si rovesciò...
Il re dopo aver accarezzato il falco prediletto, ritornò a raccogliere l'acqua a goccia a goccia; ma quando avvicinò di nuovo la coppa alle labbra, il falco dette uno strido, batté le ali, e il re sobbalzando, rovesciò nuovamente il liquido che aveva raccolto con tanta pazienza. 
Fece un atto più di dispetto che di rammarico. Pure si contenne, e iniziò la raccolta dell'acqua per la terza volta. Ma quando, per la terza volta, avvicinò la coppa alle labbra, il gioco del falco si ripeté. L'acqua si versò.
Allora il re proruppe in un gesto d'ira furioso. 
Afferrò il falco e lo scaraventò contro la roccia. Il volatile cadde morto con le ali aperte, come fosse ancora in volo. Intanto la gocciolina, che filtrava lenta dalla rupe, aveva smesso di scorrere. E il re, ora con la rabbia ora con il dispiacere nel cuore, aveva più sete che mai.
Mandò i servi a vedere se sopra la roccia si trovava la polla che dava acqua alla sorgente. 
La trovarono, ma si fermarono inorriditi: era uno stagno in cui galleggiavano i cadaveri putrefatti di parecchi animali. 
Certamente quell'acqua, bevuta, avrebbe avvelenato il re. Disse uno dei servi al ritorno: «Sire, se tu avessi bevuto quell'acqua saresti morto».
Il re guardò il falco che gli giaceva ai piedi e chinò la testa. Umilmente chiese perdono al fedele amico che si era sacrificato per lui e inutilmente rimpianse il suo impulsivo gesto d'ira.



È da tutti e facile adirarsi: ma farlo con chi si deve, nella misura giusta, al momento opportuno, con lo scopo e nel modo convenienti, non è più da tutti, né facile. Ed è per questo che il farlo bene è cosa rara, degna di lode e bella.

- Aristotele -
Etica nicomachea, IV secolo A.C.



Di solito gli uomini quando sono tristi non fanno niente: si limitano  a piangere sulla propria situazione. Ma quando si arrabbiano, allora si danno da fare per cambiare le cose.

- Philip Roth -


Buona giornata a tutti. :-)


martedì 20 novembre 2018

Dipendere da un altro essere umano per raggiungere la felicità - Padre Anthony De Mello

L' amore perfetto 

Tutti noi dipendiamo gli uni dagli altri per ogni genere di cose, non è vero? Dipendiamo dal macellaio, dal fornaio, dal fabbricante di candele. Interdipendenza. Benissimo! 
Abbiamo organizzato la società in questo modo e assegniamo funzioni diverse a persone diverse per il benessere di ciascuno, così da funzionare meglio e vivere in modo più efficiente - o almeno speriamo che sia così. 
Ma dipendere da un altro psicologicamente - dipendere da un altro emotivamente - cosa comporta? Significa dipendere da un altro essere umano per raggiungere la felicità.
Pensateci sopra. 
Perché se dipendete da altre persone, il passo successivo, ne siate coscienti o meno, sarà esigere che altre persone contribuiscano alla vostra felicità. 
Poi ci sarà un ulteriore gradino, paura, paura della perdita, paura dell'alienazione, paura di essere respinti, controllo reciproco.
L'amore perfetto esclude la paura. Dove c'è amore non ci sono pretese, aspettative, dipendenza. 
Io non esigo che voi mi facciate felice; la mia felicità non alberga in voi. 
Se mi doveste lasciare, non mi sentirei dispiaciuto per me stesso; godo immensamente della vostra compagnia, ma non mi abbarbico a voi.
Godo della vostra compagnia sulla base del non-abbarbicamento. Non siete voi, ciò di cui godo; è qualcosa di più grande di voi e di me.
E’ qualcosa che ho scoperto, una sorta di sinfonia, una sorta di orchestra che suona alla vostra presenza, ma quando voi ve ne andate, l'orchestra non smette. 
Quando incontro qualcun altro, suona un'altra melodia, altrettanto deliziosa. E quando sono solo, continua. Ha un grande repertorio, e non cessa mai di suonare.
Il risveglio è tutto qui.

- Padre Anthony De Mello -
da: "Messaggio per un’aquila che si crede un pollo", p. 60-61, Ed.Piemme





Pensate alla vostra solitudine. 
La compagnia umana potrebbe mai eliminarla? 
Servirebbe solo da distrazione. 
Dentro c’è un vuoto, non è vero? E quando il vuoto viene alla superficie, cosa si fa? 
Si fugge, si accende la televisione, si accende la radio, si legge un libro, si cerca la compagnia umana, il divertimento, la distrazione. 
Lo fanno tutti. È un gran business, oggi, un’industria organizzata per distrarci e intrattenerci.

- Padre Anthony De Mello -

Il testo è di F. L. Sully - Prudhomme , 1839-1907, premio Nobel per la Letteratura nel 1901



Buona giornata a tutti. :-)




domenica 18 novembre 2018

In quel momento fu come se il tempo si fermasse …. – Paulo Coehlo

In quel momento fu come se il tempo si fermasse, e l'Anima del Mondo sorgesse con tutta la sua forza davanti al ragazzo.

Quando guardò gli occhi di lei, un paio di occhi neri, le labbra indecise fra un sorriso e il silenzio, egli comprese la parte più importante e più saggia del Linguaggio che parlava il mondo e che chiunque, sulla terra, era in grado di capire con il proprio cuore.

E si chiamava Amore, una cosa più antica degli uomini e persino del deserto, che tuttavia risorgeva sempre con la stessa forza dovunque due sguardi si incrociassero come si incrociarono quei due davanti a un pozzo.

Le labbra della giovane, infine, decisero di accennare un sorriso: era un segnale, il segnale che il ragazzo aveva atteso per tanto tempo nel corso della vita, che aveva ricercato nelle pecore e nei libri, nei cristalli e nel silenzio del deserto.

Ed era là, il linguaggio puro del mondo, senza alcuna spiegazione, perché l'universo non aveva bisogno di spiegazioni per proseguire il proprio cammino nello spazio senza fine.

Tutto ciò che il ragazzo capiva in quel momento era che si trovava di fronte alla donna della sua vita e anche lei, senza alcun bisogno di parole, doveva esserne consapevole.

Ne era certa più di quanto lo fosse di ogni altra cosa al mondo, anche se i genitori, e i genitori dei genitori, le avevano sempre detto che, prima di sposarsi, bisognava frequentarsi, fidanzarsi, conoscersi, e avere del denaro. Ma, forse, chi lo affermava non aveva mai conosciuto il linguaggio universale: perché, una volta che vi si penetra, è facile capire come nel mondo esista sempre qualcuno che attende qualcun altro, che ci si trovi in un deserto o in una grande città.

E quando questi due esseri si incontrano, e i loro sguardi si incrociano, tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza.

Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano: la Mano che risveglia l'Amore e che ha creato un'anima gemella per chiunque lavori, si riposi e cerchi i propri tesori sotto il sole.

Perché, se tutto ciò non esistesse, non avrebbero più alcun senso i sogni dell'umanità.


- Paulo Coelho -
 Fonte: L’Alchimista di Paulo Coelho, Bompiani, Milano 1988



"Non possiamo stare insieme, siamo troppo diversi"
"Certo che possiamo"
"Perché?"
"Perché non si completa un puzzle con pezzi uguali!" 

- C.M. Schulz -




Non so esattamente cosa spinga due persone a legarsi.

Forse la sintonia, forse le risate, forse le parole.

Probabilmente, l’incominciare a condividere qualcosa in più, a parlare un po’ di se, a scoprire pian piano quel che il cuore cela.

Imparare a volersi bene, ad accettarsi per i difetti, i pregi, per le arrabbiature e le battute.

O forse accade perché doveva accadere.
Perché le anime sono destinate a trovarsi, prima o poi.