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domenica 25 agosto 2019

Dio ama ciò che è perduto - Bonhoeffer Dietrich

“Dio non si vergogna
della miseria dell’uomo,
vi entra dentro,
sceglie una creatura umana come suo strumento
e compie meraviglie
lì dove uno meno se le aspetta. 

Dio è vicino alla bassezza,
ama ciò che è perduto,
ciò che non è
considerato,
l’insignificante,
ciò che è emarginato,
debole e affranto;
dove gli uomini dicono ‘perduto’,
lì Egli dice ‘salvato’;
dove gli uomini dicono ‘no!’,
li Egli dice ‘si’!
Dove gli uomini distolgono
con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo,
lì Egli posa il Suo sguardo
pieno di un amore ardente incomparabile.[...]
Dove nella nostra vita
siamo finiti in una situazione
in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio,
dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi,
dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita,
lì Egli vuole irrompere
nella nostra vita,
lì ci fa sentire il Suo approssimarsi,
affinché comprendiamo
il miracolo, del Suo amore,
della Sua vicinanza
e della Sua Grazia”.


- Bonhoeffer Dietrich -




Se i soli cristiani fossero già capaci di tradurre in atto la parola di Pietro: «non ho né oro né argento» non ho riserve, niente di superfluo, il corso di molte evoluzioni storiche sarebbe rovesciato. 
Basterebbe perché si stabilisse sulla terra una maggiore giustizia. 
Le generazioni che salgono si allontanano da noi cristiani che parliamo volentieri di sicurezza in Dio, mentre abbiamo spesso bisogno di tante assicurazioni in oro ed argento.

- Roger Schutz - 



Resta con noi, Signore,

perché viene la notte.
Resta con noi
che siamo così spesso rattristati
da tutte le notizie che vediamo e ascoltiamo.
Resta con noi che non sappiamo
leggere il senso delle cose più semplici,
che abbiamo tra le mani.
Resta con noi
e trasforma in gioia
le nostre amarezze e la nostra sfiducia,
i nostri scetticismi e le nostre paure.
Resta con noi,
tu che sei risorto
e ci doni la grazia del tuo Spirito.
Resta con noi
e insegnaci a trasformare il cuore del mondo.

- Cardinale Carlo Maria Martini -



Buona giornata a tutti. :-)


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sabato 24 agosto 2019

Se smetti di tormentarti ritrovi la gioia di vivere - Dott. Raffaele Morelli

I grandi maestri mi hanno insegnato che purtroppo tutti noi tendiamo spesso a condurre una vita psichica che assomiglia a quella del bruco. 
Come lui, viviamo sulla terra, che diventa il nostro confine. Che cosa accade in natura? 
Un bel giorno il bruco, senza alcun programma e senza sapere perché, emette una sostanza che lo "imprigiona". Diventa un bozzolo e da un piccolo foro, da quella gabbia apparente esce la farfalla. 
Non correggere, contempla! 
Anni fa, alcuni ricercatori, vedendo la fatica con la quale la farfalla fuoriusciva da quel piccolo foro, pensarono di allargarlo per favorirne la nascita. 
Effettivamente, la creatura usciva più in fretta, ma poi non volava. 
Questo ci insegna che le nostre difficoltà, i disagi, i dolori sono analogicamente simili al parto della farfalla e come tali vanno viste. 
Hanno una funzione che va rispettata. 
Quando nasce, la farfalla vola di fiore in fiore, è un altro essere, del tutto differente dal bruco che l'ha generata. 
In ognuno di noi c'è un'altra persona, diversa da quella che mettiamo in campo abitualmente: occorre ricordarlo proprio nelle difficoltà, ogni volta che veniamo abbandonati, nelle crisi coi figli, nei problemi sul lavoro e così via. La vera scommessa è diventare chi sei destinato a essere. 
La partita decisiva di ognuno non ha a che vedere con l'essere una buona moglie o un buon marito, nell'avere rapporti sempre sereni con i figli o in ufficio. 
Non siamo nemmeno al mondo per essere buoni per forza, ma per far nascere la farfalla che siamo destinati a diventare. 
Dobbiamo vivere dimensioni e capacità che il bruco non può conoscere. 
Se una donna si sente distrutta, finita, disperata ma può ancora immaginare o sognare il volto di una vecchia o della mamma o della nonna, quella donna non è perduta, perché sa entrare in contatto con il lato sapiente dell'anima, rappresentato simbolicamente da quei volti. 
Quel lato sa "produrre" la farfalla, la farfalla che sei, unica e irripetibile. 
Dire addio ai tormenti è sempre possibile 
Ogni volta che ci tormentiamo per qualcosa che ci è accaduto, per un trauma subito o una delusione, dovremmo ribaltare il modo di pensare e vedere quel dolore come il segno di una metamorfosi in atto, un processo dove muoia il bruco delle identificazioni con l'esterno ("io sono così perché mi è capitato questo o quello") e nasca la farfalla, che vola solo dove deve andare davvero. 
Sarebbe un vero peccato che noi diventassimo farfalle ma ci imponessimo di non volare perché il bruco, il verme che striscia sulla terra ci sembra più tranquillo e al sicuro... 

- dott. Raffaele Morelli -
psichiatra, psicoterapeuta
da Riza psicosomatica Luglio 2019



La vita è un’enorme tela: rovescia su di essa tutti i colori che puoi. 

- Danny Kaye - 



Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto. 

- Oscar Wilde -





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venerdì 23 agosto 2019

Risolutezza - Martin Buber

Un chassid del Veggente di Lublino decise un giorno di digiunare da un sabato all’altro. 
Ma il pomeriggio del venerdì fu assalito da una sete così atroce che credette di morire. 
Individuata una fontana, vi si avvicinò per bere. Ma subito si ricredette, pensando che per un’oretta che doveva ancora sopportare avrebbe distrutto l’intera fatica di quella settimana. Non bevve e si allontanò dalla fontana. 
Se ne andò fiero di aver saputo trionfare su quella difficile prova; ma, resosene conto, disse a se stesso: “E' meglio che vada e beva, piuttosto che acconsentire a che il mio cuore soccomba all’orgoglio”. 
Tornò indietro, si riavvicinò alla fontana e stava già per chinarsi ad attingere acqua, quando si accorse che la sete era scomparsa. 
Alla sera, per l’apertura del sabato, arrivò dal suo maestro. 
“Un rammendo!”, esclamò lo zaddik appena lo vide sulla soglia. 
Quando da giovane ascoltai per la prima volta questa storia, fui addolorato per la durezza con la quale il maestro aveva trattato quel discepolo zelante. Questi si impegna al massimo per realizzare una difficile ascesi, si sente tentato di romperla e supera la tentazione, e con tutto ciò non miete altro che un giudizio sfavorevole dal suo maestro. 
Indubbiamente il primo inciampo veniva da un potere del corpo sull’anima, cioè da un potere che bisognava spezzare, ma il secondo nasceva dalla più nobile delle motivazioni: meglio fallire che soccombere all’orgoglio per amore del successo! 
Com’è possibile essere rimproverati per una simile lotta interiore? 
Non significa esigere troppo dall’uomo? 
E stato solo molto più tardi (ma già un quarto di secolo fa ... ), cioè all’epoca in cui mi ero messo a narrare a mia volta questo racconto della tradizione, che ho capito che qui non si tratta assolutamente di esigere qualcosa dall’uomo. Lo zaddik di Lublino, per l’appunto, non aveva la reputazione di essere un sostenitore dell’ascesi, e il suo discepolo non aveva certo intrapreso quello sforzo con l’intenzione di fargli cosa gradita, ma piuttosto perché sperava di raggiungere così un grado più elevato dell’anima; d’altronde non aveva forse ascoltato, dalla bocca del Veggente stesso, che il digiuno può servire a questo fine nella fase iniziale dello sviluppo personale e nei successivi momenti critici? 
Le parole che il maestro rivolge ora al discepolo, dopo aver chiaramente osservato l’evolversi dell’azzardato tentativo con autentica comprensione, significano senza alcun dubbio questo: “In questo modo non è possibile raggiungere un grado più elevato”. Mette in guardia il discepolo su una cosa che inevitabilmente gli impedisce di realizzare il suo progetto; e questa ci appare chiaramente: oggetto del biasimo è il fatto di avanzare e poi indietreggiare; è l’andirivieni, il procedere a zigzag dell’azione che è opinabile. L’opposto del “rammendo” è il lavoro fatto di getto. Come realizzare un lavoro in un sol getto? Non in altro modo che con un’anima unificata. Ma di nuovo ci si presenta l’interrogativo di sapere se questo alle volte non significhi trattare con eccessiva durezza un uomo. Le cose infatti vanno così nel nostro mondo: uno possiede - “per natura” o “per grazia”, secondo come preferiamo esprimerci - un’anima unitaria, un’anima d’un sol getto e, di conseguenza, realizza opere unitarie, d’un sol getto, proprio perché la sua anima, così fatta, gliele ispira e gliele rende possibili; un altro invece possiede un’anima molteplice, complicata, contraddittoria, che naturalmente determina la sua azione: gli impedimenti e gli inciampi dell’agire dipendono dagli impedimenti e gli inciampi dell’anima, l’inquietudine di questa si manifesta nell’inquietudine di quello. 
Un uomo di questo genere cosa può mai fare se non sforzarsi di superare le tentazioni che gli si presentano sul cammino verso la meta prefissata? 
Cosa può fare se non, appunto, ogni volta, nel corso dell’azione, “riprendersi” - come si usa dire -, cioè raccogliere la propria anima sfilacciata in tutte le direzioni, concentrarla e indirizzarla sempre nuovamente verso la meta, pronto inoltre - com’è il caso del chassid del nostro racconto -, nel momento in cui l’orgoglio lo tenta, addirittura a sacrificare la meta pur di salvare l’anima? 
Se riesaminiamo ancora una volta il nostro racconto a partire da queste domande, scopriamo finalmente l’insegnamento contenuto nella critica del Veggente. E l’insegnamento secondo il quale l’uomo è in grado di unificare la propria anima. 
L’uomo che ha un’anima molteplice, complicata, contraddittoria non è ridotto all’impotenza: il nucleo più intimo di quest’anima - la forza divina che giace nelle sue profondità - è in grado di agire su di essa e trasformarla, può legare le une alle altre le forze in conflitto e fondere insieme gli elementi che tendono a separarsi, è in grado di unificarla. 
Questa unificazione deve prodursi prima che l’uomo intraprenda un’opera eccezionale. Solo con un’anima unificata sarà in grado di compierla in modo tale che il risultato sia non un rammendo ma un lavoro d’un sol getto. 
E proprio questo che il Veggente rimprovera al chassid: di aver corso l’azzardo con un’anima non unificata; nel corso dell’opera, infatti, l’unificazione non riesce. Ma non bisogna nemmeno immaginarsi che l’ascesi possa provocare l’unificazione: può purificare, può anche concentrare, ma non può far sì che il risultato così ottenuto si mantenga fino al conseguimento della meta, non può proteggere l’anima dalla sua propria contraddizione. 
C’è tuttavia un aspetto che bisogna tenere ben presente: nessuna unificazione dell’anima è definitiva. Come l’anima più unitaria per nascita è pur tuttavia assalita a volte da difficoltà interiori, così anche l’anima più accanita nella lotta per la propria unità non può mai raggiungerla pienamente. 

Però ogni opera che compio con un’anima unificata agisce di rimando sulla mia anima, agisce nel senso di una nuova e più elevata unificazione; ognuna di queste opere mi conduce, anche se con diverse deviazioni, a un’unità più costante di quella antecedente. 
Alla fine si giunge così a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo grado di unità è ormai cosi elevato che essa supera la contraddizione come per gioco. Anche allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena.

In uno dei giorni di Chanukkà, Rabbi Nahum, figlio del Rabbi di Rizin, entrò all’improvviso nella ieshivà e trovò gli studenti che giocavano a dama, com’è d’uso in quei giorni. Quando videro entrare lo zaddik, si confusero e smisero di giocare; ma questi scosse benevolmente la testa e chiese: “Ma conoscete anche le leggi del gioco della dama?”. E siccome essi non aprivano bocca per la vergogna, si rispose da sé: “Vi dirò io le leggi del gioco della dama:

Primo: non è permesso fare due passi alla volta.
Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro.
Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole”.

Ma significherebbe fraintendere completamente il significato di “unificazione dell’anima” il tradurre il termine “anima” diversamente da “l’uomo intero”, corpo e spirito fusi insieme. L’anima è realmente unificata solo a condizione che tutte le forze, tutte le membra del corpo lo siano anch’esse. 
Il versetto della Scrittura: “Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con tutte le tue forze!” il Baal-Shem lo interpretava così: “quello che si fa, va fatto con tutte le membra”, cioè: bisogna coinvolgere anche tutto l’essere corporale dell’uomo, nulla di lui deve restare fuori. Quando l’uomo diventa una simile unità di corpo e di spirito insieme, allora la sua opera è opera d’un sol getto.
  
- Martin Buber -
da: Il cammino dell'uomo, Qiqajon, 1990


Buona giornata a tutti. :-)









giovedì 22 agosto 2019

Il cinghiale e la formica

Le grida si sentivano sino al limitare della foresta. 
C'era pure una musica assordante che infastidiva parecchio. Martina la formica decise che ne aveva abbastanza e chiese il permesso di smettere di lavorare per andare a vedere che cosa stava succedendo.
Non fu difficile per lei capire da dove proveniva tutto quel rumore e anche indovinare chi poteva esserne il responsabile.
Grugno, il cinghiale nero più arrogante del Bosco, stava festeggiando il suo compleanno con altri animali di cui, stando a quanto riferiva la Talpa Cesira - nota ai più per essere sempre la prima a sapere tutte le novità - era meglio diffidare.
Spiedini, avanzi di cibo e bottiglie di bibite erano rovesciati ovunque.
"Ma come ti permetti di fare tutto questo baccano!" urlò la piccola formica con tutto il fiato che aveva in gola.
Grugno, infastidito da quella brusca interruzione, alzò un sopracciglio con fare superiore e ringhiò: "Piccolo, insignificante animale che non sei altro! Come osi interrompere la MIA festa! Non vedi che ho ospiti? Io non ho bisogno del permesso di nessuno per divertirmi", e così dicendo scagliò con una zampa una lattina vuota verso Martina.
La formichina la scansò per un pelo e rispose: "Tu non hai rispetto per niente e nessuno ma ricorda che un po' di umiltà sta bene anche in casa degli animali più grossi!" e così dicendo se ne andò imprecando a bassa voce.
Passò il tempo, Martina continuò a lavorare incessantemente con le sue colleghe per garantirsi un inverno abbondante di cibo.
Un giorno venne a sapere (sempre dalla solita Cesira la Talpa) che Grugno, durante una delle sue scorribande, si era rotto una zampa.
Il cinghiale si diceva fosse a letto, solo e impossibilitato a procurarsi il cibo, e data la scarsa simpatia che nutriva tra gli animali del Bosco, non c'era da meravigliarsi che nessuno fosse andato a trovarlo.
Martina pensò e ripensò, e infine decise di preparare una bella teglia di maccheroni e di portarla  a Grugno.
Lo trovò mesto, dimesso e nei suoi occhi tutta la superbia era sparita. Non appena si accorse della formichina una lacrima scese silenziosa sulle sue ispide guance: "Io - cominciò - non sono cattivo. Volevo dimostrare a tutti di essere il più forte e il più importante fra gli animali del Bosco.
Ho mancato di rispetto a te, Martina, e a tutti gli altri e ti chiedo scusa".
"Non solo ci hai deriso e trattato male - replicò la formica - ma durante tutte quelle feste che hai fatto hai sprecato un sacco di cibo che ti sarebbe potuto tornare utile in questo momento. Ora mangia, rimettiti in forma e spero che questa lezione ti sia servita a qualcosa".
E così dicendo pensò di averlo redarguito abbastanza e con un mezzo sorriso gli porse la teglia, certa che a volte la vita insegna più di mille discorsi.


 Arroganza

Caro Dio,
liberami dal falso orgoglio;
liberami dall'arroganza
che accompagna un'immagine di sé gonfiata.
Preservami dall'alterigia,
da un ego sovraccarico
derivante da un io vuoto.
Fa' che impari a essere soddisfatto di me stesso;
che non senta mai il bisogno
di sminuire qualcuno
per acquisire valore e importanza,
per sentirmi
stimato e degno.

- Rabbi Nachman di Brazlav -


Buona giornata a tutti. :-)




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martedì 20 agosto 2019

Io sono io. Tu sei tu - Friedrich Salomon Perls

. Il qui e adesso: bisogna vivere e sentire il presente.
. Essere consapevoli: solo se prendiamo atto di una situazione, possiamo modificarla.
. Non cercare idoli, né accettare un “dover essere” imposto da altri .
. E’ importante la differenza tra la realizzazione del sé e la realizzazione dell’immagine del sé. Se per proteggere la nostra immagine recitiamo continuamente un ruolo, il messaggio implicito è che non abbiamo il  diritto di esistere così come siamo.
. Il dolore è un campanello d’allarme, indicatore fisico o emozionale di un danno. L’organismo ci segnala che ha bisogno di cambiare perché non è in equilibrio.
. L’unica costante dell’Universo è il cambiamento.
. Siamo tutti connessi, l’organismo non termina con la sua dimensione fisica, esiste un ritmo nell’universo, tutti vi siamo soggetti solamente per il fatto di esserci ed esistere.

- Friedrich Salomon Perls -





Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative.
Io faccio la mia cosa. 
Tu fai la tua cosa.
Se ci incontreremo sarà bellissimo;
altrimenti non ci sarà stato niente da fare.

- Fritz Perls - 



Sarò con te.
Sarò con te con il mio interesse,
la mia noia, la mia pazienza, 
la mia rabbia, la mia disponibilità.
Sarò con te [...] ma non ti posso aiutare.
Sarò con te. Tu farai quello che riterrai necessario.

- Fritz Perls - 



Manco di amore per me
quando nell'intento di compiacerti mi tradisco.
Manco di amore per te
quando ti chiedo di essere come io voglio
piuttosto che accettare come sei veramente.
Tu sei Tu e Io sono Io.

- Fritz Perls - 




Buona giornata a tutti. :-)





domenica 18 agosto 2019

Una sbarra tra i ricchi e i poveri (3) - don Primo Mazzolari

Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell'uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che "oggi sono e domani non sono" (cfr. Matteo, 6, 30) e che anche quando sono "ingombrano invece di saziare", si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.

Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità. Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male. "Ecco l'Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo" (cfr. Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'"eguaglianza" e i vasi comunicano. E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il "bicchiere va lavato dal di dentro", il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri:  ai ricchi che fanno del possedere il "mammona", ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato "a predicare la buona novella ai poveri" (cfr. Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio. 

Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano:  e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli. 

I ricchi dicono:  è coi poveri contro di noi:  adula i poveri per averli in mano contro di noi. I poveri dicono:  tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d'accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr. Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover'uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati. 
"I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore". 
"I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei...".
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt'altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell'inganno:  con loro contro i poveri. 


D'onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono. 


Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote:  crocifisso tra due ladroni, uno buono l'altro un po' meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l'uno contro l'altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra. 

Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi. 
Oscilla soltanto, ed è per grande carità:  ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa. 
E così perde anche l'onore. 
(Fine)
- don Primo Mazzolari -

Estratto dall' antologia Il prete di "Adesso" (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.
(dal periodico "Adesso", n. 5, 1° marzo 1953)
(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)



Il dolore è l'unica cosa nostra. 
E' sui segni dei chiodi, che non sono pochi nella nostra vita, su cui si fermerà l'attenzione del Padre celeste, il quale darà pace a questa sofferenza che s'acquieta soltanto nel gran porto della misericordia di Dio!

- don Primo Mazzolari -


Buona giornata a tutti. :-)





sabato 17 agosto 2019

Una sbarra tra i ricchi e i poveri (2) - don Primo Mazzolari

Gesù disse al paralitico:  "Alzati e cammina" (Matteo, 9, 5). 
Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge:  "E va' in Chiesa" e molto meno: "Vota questa lista".

Neanche un "grazie" si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un'azione "superogatoria", "un di più". 

Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova:  "Amerai il tuo prossimo come te stesso", è un fondamentale dovere, non un consiglio. Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s'adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l'olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr. Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il "ministero dei poveri".
La Parola è predicata ai poveri:  la Grazia è per i poveri. (Chi più povero di un peccatore?). 

Tutto è per il "povero", poiché basta essere uomo per essere "povero", sostanzialmente e irrimediabilmente "povero". 
Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de' Paoli:  che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri. 

La povertà è l'unica condizione dell'uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione:  e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere:  e l'altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo. 


Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente. E davanti all'altare prega come il fariseo:  "O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini..." (cfr. Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c'è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l'imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero - così ragionano nella loro disperazione - che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza "che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano" (Matteo, 7, 20). 

E se non c'è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte:  "Stolto, questa notte tu morirai" (Luca, 12, 20).
(continua...)

- don Primo Mazzolari -
Estratto dall' antologia Il prete di "Adesso" (Roma, Rogate, 2009, pagine 141,) a cura di Leonardo Sapienza.





Cristo fa paura al mondo soprattutto per i poveri che rappresenta.

- Don Primo Mazzolari -




Buona giornata a tutti:-)


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