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domenica 20 gennaio 2019

La strada della vita - L.Guglielmoni, F. Negri


La strada è come la vita:
sempre uguale per l’annoiato,
sempre diversa per chi ha occhi nuovi;
troppo corta per chi ama viaggiare,
troppo lunga per chi ha fretta;
un labirinto per l’inesperto,
un’avventura per il coraggioso;
la morte per lo spericolato,
un record da battere per il pilota;
un lavoro per lo stradino,
una scuola per l’istruttore;
preoccupazione per chi attende,
l’incontro per chi sta arrivando.




La vita è come il motorino:

se lo usi si logora, se non lo usi si arrugginisce.
La vita è come la moto: ha varie marce, puoi viaggiare a diversi ritmi.
La vita è come la motocross: difficile ma guidare, ma ti porta ovunque.
La vita è come la cilindrata: cominci con poco, poi aumenti.
La vita è come l’acceleratore: più vai forte, più consumi benzina.
La vita è come un viaggio: più vai avanti, più paesaggi scopri.
La vita è come il serbatoio: più è vuoto, meno lontano si va.



Il compagno di viaggio

La mamma chiamò il figlio maggiore e gli disse: Vai, ora puoi partire per il grande viaggio della vita. Ti consiglio il nome di una guida sicura e gli bisbigliò un nome all’orecchio.
Il giovane partì.
Subito incontrò uno che gli chiese di venire con lui. “Come ti chiami?”
- Potere.
“Spiacente, ma non è il nome che mi ha suggerito mia mamma”.
Proseguendo nel cammino si fece avanti un altro. “Chi sei?”
- Il Divertimento, portami con te e ce la spasseremo alla grande.
“No. Io cerco di meglio”.
- Vengo io con te. Sono la Ricchezza.
Si fece sera, quando nel buio si avvicinò qualcuno... “E tu ci sei?”.
- Il Coraggio.
Il giovane lo abbracciò e gli disse: “Vieni con me, ecco il nome che mi ha suggerito mia mamma”.
Il giovane crebbe, fece tanta strada e divenne molto saggio.

E tu ce l’hai il Patentino?

liberamente tratto da L.Guglielmoni, F.Negri, “Patentino per la vita”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005


Buona giornata a tutti. :-)






lunedì 14 gennaio 2019

Il dono più grande è che noi siamo figli di Dio e che egli genera in noi il suo Figlio - Meister Eckhart

Il dono più grande è che noi siamo figli di Dio e che egli genera in noi il suo Figlio. 
L’anima che vuole essere figlia di Dio non deve generare nulla in sé; e niente dev’essere generato in coloro nei quali il Figlio di Dio deve nascere. 
Il più nobile desiderio di Dio è di generare. Egli è insoddisfatto finché non ha generato in noi il suo Figlio. 
Così l’anima non è soddisfatta in alcun modo se il Figlio di Dio non nasce in essa. È allora che scaturisce la grazia.
Quando il tempo fu compiuto, Giovanni, «la grazia», nacque. 
Quando il tempo è compiuto? Quando il tempo non è più. Per colui che, nel tempo, ha posto il suo cuore nell’eternità e nel quale tutte le cose temporali sono morte è la pienezza del tempo. 
Paolo dice: «In ogni tempo, siate lieti in Dio». Colui che è lieto al di sopra e fuori del tempo si allieta in ogni tempo. 
Un testo dice: Tre cose sono di ostacolo all’uomo, sicché egli non può riconoscere Dio in alcuna maniera. 
La prima è il tempo; la seconda è tutto ciò che si ricollega al corpo; la terza è la molteplicità. Finché queste tre cose sono in me, Dio non è in me e non opera veramente in me. 
Agostino dice: L’avidità dell’anima fa sì che essa desideri afferrare e possedere molte cose; così, mira a impadronirsi di tutto ciò che riguarda il tempo, la corporeità e la molteplicità; a causa di ciò, essa perde proprio ciò che possiede. Per tutto il tempo che in te vi sono più e più cose, Dio non può né abitare né operare in te. Tutte queste cose devono incessantemente uscire affinché Dio entri, a meno che tu non le possegga in un modo migliore e più alto, a meno che la molteplicità non sia diventata in te unità. Allora più c’è molteplicità in te più c’è unità, perché l'una si è trasformata nell’altra. L’unità unisce ogni molteplicità, ma la molteplicità non unisce l’unità. Quando siamo elevati al di sopra di tutte le cose e tutto ciò che è in noi è portato in alto, nulla ci opprime. Ciò che è sotto di me, non mi opprime. Se io tendessi unicamente verso Dio, di modo che non ci fosse che Dio al di sopra di me, nulla mi sembrerebbe penoso e non mi rattristerei così facilmente. 
Agostino dice: Signore, quando mi prostro dinanzi a te ogni tristezza, ogni pena, ogni fatica mi è tolta. Quando abbiamo superato il tempo e le cose temporali siamo liberi, sempre lieti; allora è la pienezza del tempo; allora il Figlio di Dio nasce in te. Quando il tempo fu compiuto Dio mandò il suo Figlio. Se in te nasce un’altra cosa al posto del Figlio, tu non hai lo Spirito Santo e la grazia non agisce in te. Origine dello Spirito santo è il Figlio. Se il Figlio non fosse, lo Spirito santo non sarebbe. Lo Spirito Santo non può emanare e sbocciare che dal Figlio. Quando il Padre genera il Figlio gli dà tutto ciò che ha in essenza e in natura. In questo dono scaturisce lo Spirito Santo. 
Il desiderio di Dio è anche quello di darsi totalmente a noi. Avviene lo stesso quando il fuoco vuole attrarre a sé il legno e penetrare in esso. Trova anzitutto che il legno gli è dissimile. Perciò occorre del tempo. Prima rende il legno caldo e ardente, poi questo fuma e scoppietta perché è differente dal fuoco. Ora più il legno brucia, più diventa calmo e tranquillo; più diventa simile al fuoco, più s’acquieta, fino a che esso stesso è diventato totalmente fuoco. Perché il fuoco possa assimilare in sé il legno, bisogna che ogni dissomiglianza sia eliminata.
Per la verità che è Dio: se tu miri a cosa diversa da Dio o se cerchi una cosa diversa da Dio, l’opera che compi non è opera tua né di Dio. Il fine che la tua intenzione ricerca nella tua opera è l’opera. Ciò che opera in me è il mio Padre e io sono a lui sottomesso. 
È impossibile che nella natura ci siano due padri; nella natura non c’è che un solo padre. Quando le altre cose sono uscite e la pienezza è giunta, questa nascita avviene. 
La pienezza tocca ogni limite e non ha bisogno di nulla; essa ha la larghezza e la lunghezza, l’altezza e la profondità. Se avesse l’altezza e non la larghezza né la lunghezza né la profondità, non potrebbe colmare. 
San Paolo dice: «Chiedete di poter comprendere insieme con tutti i santi che cosa è la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità». 

- Meister Eckhart - 



Dio opera maggiormente in un cuore umile, perché è là che trova la maggiore possibilità di operare, trovandovi la maggiore somiglianza con se stesso.

- Meister Eckhart - 




L'anima è fatta per un bene così grande ed alto, che essa non può in alcun modo trovare riposo, ed è sempre infelice, finché non giunge, sopra ogni modo, a quel bene eterno che è Dio, per il quale essa è fatta.

- Meister Eckhart - 


Buona giornata a tutti. :-)








martedì 27 novembre 2018

..."Ma ho deciso per te: nascerai.", da: "Lettera a un bambino mai nato" - Oriana Fallaci


Non mi hai tirato calci, non mi hai inviato risposte. E come avresti potuto? 
Ci sei da così poco: se ne chiedessi conferma al dottore, sorriderebbe di scherno. 
Ma ho deciso per te: nascerai. 
L'ho deciso dopo averti visto in fotografia. 
Non era proprio la tua fotografia, evidente: era quella di un qualsiasi embrione di tre settimane, pubblicata su un giornale insieme a un reportage sul formarsi della vita. E, mentre la guardavo, la paura m'è passata: con la stessa rapidità con cui m'era venuta. 
Sembravi un fiore misterioso, un'orchidea trasparente. In cima si scorgeva una specie di testa con le due protuberanze che diverranno il cervello. Più in basso, una specie di cavità che diverrà la bocca. A tre settimane sei quasi invisibile, spiega la didascalia. Due millimetri e mezzo. 
Eppure cresce in te un accenno di occhi, qualcosa che assomiglia a una spina dorsale, a un sistema nervoso, a uno stomaco, a un fegato, a intestini, a polmoni. 
Il tuo cuore è già fatto, ed è grande: in proporzione, nove volte più grande del mio. Pompa sangue e batte regolarmente dal diciottesimo giorno: potrei buttarti via? 
Che m'importa se sei incominciato per caso o per sbaglio, anche il mondo in cui ci troviamo non incominciò per caso e forse per sbaglio? 
Alcuni sostengono che in principio non c'era nulla fuorché una gran calma, un gran silenzio immobile, poi si verificò una scintilla, uno strappo, e ciò che non era fu. Allo strappo seguirono presto altri strappi: sempre più imprevisti, sempre più insensati, più ignari delle conseguenze. 
E tra le conseguenze sbocciò una cellula, anche lei per caso, forse per sbaglio, che subito si moltiplicò a milioni, a miliardi, finché nacquero gli alberi e i pesci e gli uomini. 
Tu credi che qualcuno si ponesse un dilemma prima dello scoppio o prima della cellula? Credi che si domandasse se gli sarebbe piaciuto o no? 
Credi che si preoccupasse della sua fame, del suo freddo, della sua infelicità? Io lo escludo. Anche se il qualcuno fosse esistito, ad esempio un Dio paragonabile all'inizio dell'inizio, al di là del tempo e al di là dello spazio, io temo che non si sarebbe curato del bene e del male. 
Tutto avvenne perché poteva avvenire, quindi doveva avvenire, secondo una prepotenza che era l'unica prepotenza legittima. E lo stesso discorso vale per te. 
Mi prendo la responsabilità della scelta.
Me la prendo senza egoismo, bambino: metterti al mondo, lo giuro, non mi diverte. Non mi vedo camminare per strada col ventre gonfio, non mi vedo allattarti e lavarti e insegnarti a parlare. 
Sono una donna che lavora ed ho tanti altri impegni, curiosità: te l'ho già detto che non ho bisogno di te. Però ti porterò avanti lo stesso, che ti piaccia o no. 
Te la imporrò lo stesso quella prepotenza che fu imposta anche a me, e ai miei genitori, ai miei nonni, ai nonni dei miei nonni: su fino al primo essere umano partorito da un essere umano, che gli piacesse o no. Probabilmente, se a costui o a costei fosse stato concesso di scegliere, si sarebbe impaurito e avrebbe risposto non voglio nascere, no. Ma nessuno gli chiese un parere, e così nacque e visse e morì dopo aver partorito un altro essere umano cui non aveva chiesto di scegliere, e costui fece lo stesso, per milioni di anni fino a noi, e ogni volta fu una prepotenza senza la quale non esisteremmo. 
Coraggio, bambino. 
Pensi che il seme di un albero non abbia bisogno di coraggio quando buca la terra e germoglia? 
Basta un colpo di vento a staccarlo, la zampina di un topo a schiacciarlo. Eppure lui germoglia e tiene duro e cresce gettando altri semi. E diventa un bosco. 
Se un giorno griderai "Perché mi hai messo al mondo, perché?" io ti risponderò: "Ho fatto ciò che fanno e hanno fatto gli alberi, per milioni e milioni di anni prima di me, e credevo di fare bene".
L'importante è non cambiare idea ricordando che gli esseri umani non sono alberi, che la sofferenza di un essere umano è mille volte più grande della sofferenza di un albero perché è cosciente, che a nessuno di noi giova diventare un bosco, che non tutti i semi degli alberi generano alberi: nella stragrande maggioranza vanno perduti. 
Un simile voltafaccia è possibile, bambino: la nostra logica è piena di contraddizioni. Appena affermi qualcosa, ne vedi il contrario. E magari ti accorgi che il contrario è valido quanto ciò che affermavi. Il mio ragionamento di oggi potrebbe essere rovesciato così, con uno schiocco di dita. Infatti ecco: mi sento già confusa, disorientata. Forse perché non posso confidarmi con nessuno al di fuori di te. 
Sono una donna che ha scelto di vivere sola. Tuo padre non sta con me. E non me ne dolgo sebbene, ogni tanto, il mio sguardo cerchi la porta da cui egli uscì, col suo passo deciso, senza che io lo fermassi, quasi non avessimo più nulla da dirci.

- Oriana Fallaci -
da: "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli editore, 1975





Ti ho portato dal medico. Più che la conferma, volevo qualche consiglio. 
Per risposta ha scosso la testa dicendo che sono impaziente, non può ancora pronunciarsi, ripassi tra quindici giorni, pronta a scoprire che eri un prodotto della mia fantasia. 
Tornerò solo per dimostrargli che è un ignorante. Tutta la sua scienza non vale il mio intuito, e come fa un uomo a capire una donna che sostiene anzitempo di aspettare un bambino? 
Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: è un vantaggio o una limitazione? Fino a ieri mi sembrava un vantaggio, anzi un privilegio. 
Oggi mi sembra una limitazione, anzi una povertà. V'è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sapersi due anziché uno. 
A momenti ti invade addirittura un senso di trionfo e, nella serenità che accompagna il trionfo, niente ti preoccupa: né il dolore fisico che dovrai affrontare, né il lavoro che dovrai sacrificare, né la libertà che dovrai perdere. Sarai un uomo o una donna? 
Vorrei che tu fossi una donna. 
Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d'accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. 
La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: «Ah, se fossi nata uomo!». Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l'assassinio di un uomo e di una donna. 
Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba: mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell'Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un'incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. 
È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. 
Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che urla d'essere ascoltata. 
Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. 
È solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto ad urlarlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. E per superare quel vuoto devi metterti in viaggio di nuovo, crearti nuovi scopi. 
Sì, spero che tu sia una donna: non badare se ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ciò che dice mia madre. Io non l'ho mai detto.



- Oriana Fallaci -

da: "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli editore, 1975



Buona giornata a tutti. :-)


venerdì 13 luglio 2018

La vita è bella, Signore - Padre Michel Quoist

La vita è bella Signore,
e voglio coglierla
come si colgono i fiori in un mattino di primavera.
Ma so, mio Signore,
che il fiore nasce
solo alla fine di un lungo inverno,
in cui la morte ha infierito.

Perdonami Signore, se a volte,
non credo abbastanza nella primavera della vita,
perché, troppo spesso,
mi sembra un lungo inverno
che non finisce mai di rimpiangere
le sue foglie morte
o i suoi fiori scomparsi.

Eppure con tutte le mie forze
credo in Te, Signore,
ma urto contro il tuo sepolcro e lo scorgo vuoto.

E quando gli apostoli d'oggi mi dicono
che ti hanno visto vivente
sono come San Tommaso,
ho bisogno di vedere e di toccare.
Dammi abbastanza fede,
ti supplico, Signore,
per aspettare la Primavera,
e nel momento più duro dell'inverno,
per credere alla Pasqua trionfante
oltre il Venerdì di passione. (...)

Signore tu sei risorto!
Dal sepolcro, grazie a Te,
la Vita è uscita trionfante.

La sorgente d'ora in poi non si prosciugherà mai,
Vita nuova, offerta a tutti,
per ricrearci per sempre
figli di un Dio che ci attende,
per le Pasque di ogni giorno
e di una gioia eterna.

Era Pasqua ieri, Signore,
ma è Pasqua anche oggi
ogni volta che accettando di morire in noi stessi,
con Te apriamo una breccia
nella tomba dei nostri cuori,
perché zampilli la Fonte
e scorra la Tua Vita.

E se tanti uomini,
nel loro sforzo umano
purtroppo, non sanno che sei già lì,
lo scopriranno più tardi
alla tua luce.

Era Pasqua ieri,
ma è Pasqua anche oggi,
quando un bambino divide le sue caramelle,
dopo avere in segreto lottato
per non tenersele tutte lui.

Quando marito e moglie si abbracciano di nuovo
dopo una discussione o una penosa rottura.
Quando i ricercatori scoprono
il rimedio che guarisce
e il medico riaccende la vita
che senza di lui si spegneva.

Quando le porte della prigione si aprono,
perché la pena è terminata,
e quando già nella sua cella
il carcerato divide le sigarette con i compagni.
Quando l'uomo dopo un lungo sforzo
trova lavoro
e porta a casa un po' di denaro guadagnato. (...)

Sì, Signore, la vita è bella,
poiché è tuo Padre che l'ha donata.
La vita è bella,
poiché sei Tu che ce l'hai ridata
quando l'avevamo perduta.
La vita è bella,
perché è la tua stessa Vita offerta per noi...
ma dobbiamo farla fiorire.
E per offrirtela ogni sera
devo raccoglierla
sulle strade degli uomini
come quel bimbo che passeggiando,
raccoglie i fiori dei campi
per farne un mazzo
da offrire ai suoi genitori.
Oh sì Signore,
fammi scoprire ogni giorno, sempre di più,
che la vita è bella!

- Padre Michel Quoist -


Il predicatore era in ritardo. Nella cappella del convento, le suore in attesa erano arrivate al quindicesimo mistero del Rosario, quando suonò il campanello della portineria. 
Trafelato, il predicatore si scusò imbarazzato dicendo alla superiora che l’attendeva: “ Mi dispiace, Madre, ma non sono riuscito a prepararmi …. “

“Non importa” rispose cortesemente la superiora. “ Parli pure a vanvera “.


La lingua più parlata nel mondo è “a vanvera “. 

Miliardi di parole, ogni giorno, ci investono, ci trafiggono, ci soffocano. 
Saper parlare è un gran dono. 
Perchè l’uomo non dica troppi spropositi Dio gli ha donato dieci dita perchè possa ricordare i suoi saggi consigli: 
“Che la tua prima parola sia buona... 
Che la tua seconda parola sia vera.... 
Che la tua terza parola sia giusta... 
Che la tua quarta parola sia generosa.... 
Che la tua quinta parola sia coraggiosa.... 
Che la tua sesta parola sia tenera.... 
Che la tua settima parola sia consolante....
Che la tua ottava parola sia accogliente....
Che la tua nona parola sia rispettosa....
E la tua decima parola sia saggia . 

Poi.... taci! ”.



- don Bruno Ferrero -
Fonte: La Vita è tutto quello che abbiamo di Bruno Ferrero, casa editrice ElleDiCi


Buona giornata a tutti. :-)




mercoledì 16 maggio 2018

da: "Un cappello pieno di ciliege" - Oriana Fallaci

Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. 
Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io. Naturalmente sapevo bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio. 
Espediente mai capito e mai accettato. Però non meno bene sapevo che le altre si nascondevano nella memoria di quel passato, negli eventi e nelle creature che avevano accompagnato il ciclo della formazione, e in un ossessivo viaggio all’indietro lo disotterravo: riesumavo i suoni e le immagini della mia prima adolescenza, della mia infanzia, del mio ingresso nel mondo. 
Una prima adolescenza di cui ricordavo tutto: la guerra, la paura, la fame, lo strazio, l’orgoglio di combattere il nemico a fianco degli adulti, e le ferite inguaribili che n’erano derivate. 
Un’infanzia di cui ricordavo molto: i silenzi, gli eccessi di disciplina, le privazioni, le peripezie d’una famiglia indomabile e impegnata nella lotta al tiranno, quindi l’assenza d’allegria e la mancanza di spensieratezza. 
Un ingresso nel mondo del quale mi sembrava di ricordare ogni dettaglio: la luce abbagliante che di colpo si sostituiva al buio, la fatica di respirare nell’aria, la sorpresa di non star più sola nel mio sacco d’acqua e condivider lo spazio con una folla sconosciuta. 
Nonché la significativa avventura di venir battezzata ai piedi d’un affresco dove, con uno spasmo di dolore sul volto e una foglia di fico sul ventre, un uomo nudo e una donna nuda lasciavano un bel giardino pieno di mele: la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio per la Chiesa del Carmine a Firenze. 

Riesumavo in ugual modo i suoni e le immagini dei miei genitori, da anni sepolti sotto un’aiola profumata di rose. Li incontravo ovunque. Non da vecchi cioè quando li consideravo più figli che genitori, sicché a sollevare mio padre per posarlo su una poltrona e a sentirlo così lieve e rimpicciolito e indifeso, a guardarne la testolina tenera e calva che si appoggiava fiduciosamente al mio collo, mi pareva di tenere in braccio il mio bambino ottuagenario. Da giovani. Quando eran loro a sollevarmi e a tenermi in braccio. Forti, belli, spavaldi. E per qualche tempo credetti d’avere in pugno una chiave che apriva qualsiasi porta. Ma poi m’accorsi che ne apriva alcune e basta: né il ricordo della prima adolescenza e dell’infanzia e dell’ingresso nel mondo né gli incontri coi due giovani forti e belli e spavaldi potevan fornire tutte le risposte di cui avevo bisogno. Superando i confini di quel passato andai in cerca degli eventi e delle creature che lo avevano preceduto, e fu come scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito. E il viaggio all’indietro perse ogni freno.
Un viaggio difficile in quanto era troppo tardi per interrogare chi non avevo mai interrogato. 
Non c’era più nessuno. 
Restava solo una zia novantaquattrenne che alla preghiera dimmi-zia-dimmi mosse appena le pupille annebbiate e mormorò: «Sei il postino?». Con la zia ormai inutile, il rimpianto d’una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli aveva custodito la testimonianza di cinque generazioni: antichi libri tra cui un abbaco e un abbecedario del Settecento, rarissimi fogli tra cui la lettera d’un prozio arruolato da Napoleone e sacrificato in Russia, preziosi cimeli tra cui una federa gloriosamente macchiata da una frase indimenticabile, un paio d’occhiali e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei. 
Cose che ero riuscita a vedere prima che finissero in cenere, una terribile notte del 1944. Con la cassapanca perduta, qualche oggetto salvato per caso: un liuto privo di corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi emessa dallo Stato Pontificio, un vetusto orologio che stava nella mia casa di campagna e che ogni quarto d’ora suonava i rintocchi della campana di Westminster. 
Infine, due voci. La voce di mio padre e la voce di mia madre che narravano le storie dei rispettivi antenati. Divertita ed ironica quella di lui, sempre pronto a ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre pronta a commuoversi anche sulla commedia. Ed entrambe talmente remote nella memoria che la loro consistenza appariva più tenue d’una ragnatela. A evocarle di continuo, però, e a connetterle col rimpianto della cassapanca o coi pochi oggetti salvati, la ragnatela si irrobustì. Si infittì, si fece un solido tessuto, e le storie crebbero con tanto vigore che a un certo punto mi divenne impossibile stabilire se appartenessero ancora alle due voci oppure se si fossero trasformate in un frutto della mia fantasia. Era esistita davvero la leggendaria arcavola senese che aveva avuto il coraggio di aggredire Napoleone, era esistita davvero la misteriosa arcavola spagnola che s’era sposata esibendo un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta sulla parrucca? Era esistito davvero il dolce arcavolo contadino che spingeva il fervore religioso fino a flagellarsi, era esistito davvero il rude arcavolo marinaio che apriva bocca solo per bestemmiare? 
Erano esistiti davvero i bisnonni maledetti cioè la repubblicana Anastasìa il cui nome portavo come secondo nome e l’aristocraticissimo signore di Torino il cui nome, troppo illustre e troppo potente, non si doveva nemmen pronunciare per ordine della nonna?  E l’avevano davvero abbandonata in un ospizio di orfanelli questa povera nonna concepita dalla loro furibonda passione? Non lo sapevo più. Ma nel medesimo tempo sapevo che quei personaggi non potevano essere un frutto della mia fantasia  perché li sentivo dentro di me, condensati nel mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituivano il mio Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e spavaldi. Le particelle d’un seme non sono forse identiche alle particelle del seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione, perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d’un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d’una miriade di genitori?
Esplose allora un’altra ricerca: quella delle date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare un lavoro incompiuto. 
E come una formica impazzita dalla fretta di accumular cibo corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari, i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati delle Anime. 
I registri nei quali, col pretesto di individuare i fedeli tenuti al precetto pasquale, il parroco elencava gli abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppandoli in nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli. L’anno o la data completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo di lavoro e il reddito, il patrimonio o l’indigenza, il grado di educazione o l’analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma. 
Scritti a volte in latino e a volte in italiano, con la penna d’oca e l’inchiostro marrone. L’inchiostro, asciugato con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al contrario s’era incollata alle parole rendendole sfolgoranti, così a raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che era un bruscolo di verità. E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri eran stati divorati dai topi o distrutti dall’incuria o mutilati dai barbari che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti. Quelli delle storie narrate dalle due voci c’erano, e li trovai dal primo all’ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. 
Sì, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me.
La saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, incomincia oltre due secoli fa: negli anni che preparano la Rivoluzione Francese e che precedono la Rivoluzione Americana cioè la guerra d’Indipendenza scatenata contro l’Inghilterra dalle tredici colonie sorte nel Nuovo Mondo tra il 1607 e il 1733. Parte da Panzano, un paesino di fronte alla casa in cui intendo morire e che prima della ricerca condotta dalla formica impazzita guardavo senza sapere quanto vi appartenessi, e avviandone il racconto mi pare giusto offrire qualche notizia a chi non conosce quel tempo o quel luogo. Panzano sta su un poggio del Chianti, a mezza strada tra Siena e Firenze, e il Chianti è la zona della Toscana che si stende tra il fiume Greve e il fiume Pesa: trecento chilometri quadri composti da montagne e colline di rara bellezza. 
Le montagne sono coperte di piante ed alberi sempre verdi, castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali, nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro, e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed immobili ondate. 
Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato. 
Due secoli fa Panzano contava duecentocinquanta abitanti tra cui lo speziale, il vetturale, il procaccia, il sensale di matrimoni, il cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire, ed eccetto quei cinque erano tutti contadini. Mezzadri o pigionali che lavoravano i latifondi del granduca o dei signori o degli enti ecclesiastici e il cui sogno era possedere un livello. Vale a dire, prendere in enfiteusi un podere e scrollarsi di dosso il padrone. Di solito, un despota al quale apparteneva ogni istante della loro giornata e senza il cui permesso non potevano nemmeno sparare a un fagiano o prendere moglie. 
La loro anima, invece, apparteneva al prete. E di preti a Panzano ve n’erano due: il vecchio don Antonio Fabbri e il giovane don Pietro Luzzi. Il primo, nella prioria di Santa Maria Assunta in Cielo: al centro del paese. Il secondo, nella Pieve di San Leolino: lungo la strada per Siena. V’era inoltre un grosso via-vai di frati in cerca di adepti da controllare o da aggregare al rigorosissimo Ordine dei Terziari Francescani, e ovunque trovavi oratori o cappelle o santuari o tabernacoli dove si svolgevano noiose processioni che insieme alla Messa e al Vespro costituivano il massimo svago d’un contadino. Insomma, nonostante la fede nel raziocinio e nel progresso che veniva predicata dall’Illuminismo, nonostante gli ideali di libertà e di uguaglianza che stavano prendendo corpo, nonostante i principii irreligiosi e i costumi epicurei che caratterizzavano l’epoca, in cima a quel poggio del Chianti la religione dominava spietata e la Chiesa imperava: somma regina e principale tiranna. 
La città era lontana, sebbene fosse geograficamente vicina. I ricchi vi si recavano col cavallo o con la carrozza, i meno ricchi col calesse del vetturale, i quasi poveri con il barroccio, e i poveri a piedi. 
Così i più morivano senza aver mai visto Firenze che da Panzano distava appena venti miglia, o Siena che ne distava appena diciannove.
Le strade eran strette e sconnesse, un acquazzone bastava a renderle impraticabili, e d’inverno succedeva spesso di restare isolati per settimane o per mesi. Le case, no: erano quasi sempre belle perché nelle regie fattorie il granduca aveva ordinato di ricostruirle su modelli architettonici pieni di grazia. Bei porticati, bei torrini e bei forni per cuocervi il pane. 
Ma contenevano le stalle, i porcili, gli ovili, i pollai da cui veniva un gran puzzo e come quelle di città non avevano acqua. 
L’acqua si prendeva alla sorgente, trasportandola a braccia coi secchi, e si serbava nei fiaschi o nelle brocche di rame dette mezzine. Infatti ci si lavava pochissimo, diciamo una volta al mese o una volta all’anno, e la latrina era un lusso costituito da un recipiente o da un buco chiuso da un coperchio. 

Oriana a sei mesi tra le braccia della madre Tosca Cantini 
- Foto - Oriana Fallaci

Il cariello. Era un lusso anche illuminare le stanze. Le lampade a olio costavano care e al calar del buio si accendeva una candela o si andava a letto. Altrettanto presto ci si svegliava. D’estate, alle quattro del mattino: per correr subito a lavorare nei campi. Si lavorava molto, a Panzano. In media, quindici ore al giorno. E, a parte lo svago delle Messe o dei Vespri o delle processioni, l’unica ricompensa erano le veglie. Cioè i raduni serali che la domenica si tenevano in una stalla o in cucina per raccontarsi le novelle popolate di streghe e di diavoli, di fate e di fantasmi. L’unico divertimento mondano, il mercato settimanale o la fiera stagionale di Greve e di Radda: i due paesi attigui. 
L’unico vero conforto, l’amore consentito dalla Chiesa cioè l’amore coniugale. (Il che non impediva frementi amplessi nei pagliai e scomode gravidanze da riscattare col matrimonio). 
Cos’altro? Bè, i figli davano del voi ai genitori, in segno di rispetto. Anche fra marito e moglie ci si dava del voi, in segno di riguardo, e le donne contavano poco. Non avevano diritto all’eredità, per sposarsi dovevano possedere una dote e un corredo, in mancanza di ciò finivano spesso in convento, e sfacchinavano di zappa o di vanga proprio come gli uomini. Gli ospedali in campagna non esistevano. Sebbene a Radda ci fosse un medico condotto, a Panzano bisognava accontentarsi del cerusico che aiutava le vacche a partorire e la gente a morire. Quindi una ferita o una bronchite bastavano a spedirti nell’al di là. 
Non esistevano nemmeno i cimiteri. I morti si seppellivano sotto l’impiantito della Pieve di San Leolino o della prioria di Santa Maria Assunta in Cielo, con un po’ di calce e via. 
Tantomeno esistevan le scuole. Solo se il prete ti insegnava, imparavi a leggere un libro, compilare una lettera, far di conto. Ma don Fabbri non ne aveva voglia, don Luzzi lo faceva esclusivamente nei casi eccezionali, e tra i contadini della zona la percentuale dell’analfabetismo toccava l’ottantasette per cento. Eppure quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena era giudicato da chiunque un angolo benedetto da Dio, il Chianti era una delle contrade più ammirate e più invidiate d’Europa, e la sua fama giungeva fino alla Virginia: la prima delle tredici colonie che stavano per ribellarsi all’Inghilterra. 
Questo spiega perché la saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la fantasia, includa all’inizio tre personaggi ai quali non mi lega alcuna parentela e che tuttavia furono coinvolti nel mio venire al mondo. 
Thomas Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza Americana e terzo presidente degli Stati Uniti che in Virginia viveva e possedeva molte terre cui si dedicava con l’entusiasmo di un agronomo. Benjamin Franklin, il geniale scienziato e scrittore e politico della colonia chiamata Pennsylvania che fra le altre cose inventò il parafulmine e la stufa a combustione. 
E il fiorentino Filippo Mazzei: medico, commerciante, memorialista, esperto di agricoltura, avventuriero di classe nonché amico di quei due. Coinvolgimento che induce a riflettere sulla comicità del destino e sull’inopportunità di prenderlo troppo sul serio.

Oriana Fallaci -
da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli,La prima parte 




"Non so arrendermi al fatto che per vivere si debba morire, che vivere e morire siano due aspetti della medesima realtà, l'uno necessario all'altro, l'uno conseguenza dell'altro. 
Non so piegarmi all'idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte e nascere una condanna a morte. 
Eppure l'accetto. 
Mi inchino al suo potere illimitato e accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico. Spinta da un tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore la invoco."


Oriana Fallaci -

da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli 




“Ho sempre amato la vita.
Chi ama la vita
non riesce mai ad adeguarsi,
subire, farsi comandare.
Chi ama la vita
è sempre con il fucile alla finestra
per difendere la vita…
Un essere umano che si adegua,
che subisce, che si fa comandare,
non è un essere umano”. 

- Oriana Fallaci -



Buona giornata a tutti. :-)