Ora che il futuro s’era fatto corto e mi
sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una
clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza:
cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire.
Perché fossi nata,
perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone
che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io. Naturalmente sapevo
bene che la domanda perché-sono-nato se l’eran già posta miliardi di esseri
umani ed invano, che la sua risposta apparteneva all’enigma chiamato Vita, che
per fingere di trovarla avrei dovuto ricorrere all’idea di Dio.
Espediente mai
capito e mai accettato. Però non meno bene sapevo che le altre si nascondevano
nella memoria di quel passato, negli eventi e nelle creature che avevano
accompagnato il ciclo della formazione, e in un ossessivo viaggio all’indietro
lo disotterravo: riesumavo i suoni e le immagini della mia prima adolescenza,
della mia infanzia, del mio ingresso nel mondo.
Una prima adolescenza di cui
ricordavo tutto: la guerra, la paura, la fame, lo strazio, l’orgoglio di
combattere il nemico a fianco degli adulti, e le ferite inguaribili che n’erano
derivate.
Un’infanzia di cui ricordavo molto: i silenzi, gli eccessi di
disciplina, le privazioni, le peripezie d’una famiglia indomabile e impegnata
nella lotta al tiranno, quindi l’assenza d’allegria e la mancanza di
spensieratezza.
Un ingresso nel mondo del quale mi sembrava di ricordare ogni
dettaglio: la luce abbagliante che di colpo si sostituiva al buio, la fatica di
respirare nell’aria, la sorpresa di non star più sola nel mio sacco d’acqua e
condivider lo spazio con una folla sconosciuta.
Nonché la significativa
avventura di venir battezzata ai piedi d’un affresco dove, con uno spasmo di dolore
sul volto e una foglia di fico sul ventre, un uomo nudo e una donna nuda
lasciavano un bel giardino pieno di mele: la cacciata di Adamo ed Eva dal
Paradiso Terrestre, dipinta da Masaccio per la Chiesa del Carmine a Firenze.
Riesumavo in ugual modo i suoni e le immagini dei miei genitori, da anni
sepolti sotto un’aiola profumata di rose. Li incontravo ovunque. Non da vecchi
cioè quando li consideravo più figli che genitori, sicché a sollevare mio padre
per posarlo su una poltrona e a sentirlo così lieve e rimpicciolito e indifeso,
a guardarne la testolina tenera e calva che si appoggiava fiduciosamente al mio
collo, mi pareva di tenere in braccio il mio bambino ottuagenario. Da giovani.
Quando eran loro a sollevarmi e a tenermi in braccio. Forti, belli, spavaldi. E
per qualche tempo credetti d’avere in pugno una chiave che apriva qualsiasi
porta. Ma poi m’accorsi che ne apriva alcune e basta: né il ricordo della prima
adolescenza e dell’infanzia e dell’ingresso nel mondo né gli incontri coi due
giovani forti e belli e spavaldi potevan fornire tutte le risposte di cui avevo
bisogno. Superando i confini di quel passato andai in cerca degli eventi e
delle creature che lo avevano preceduto, e fu come scoperchiare una scatola che
contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito. E il
viaggio all’indietro perse ogni freno.
Un viaggio difficile in quanto era troppo
tardi per interrogare chi non avevo mai interrogato.
Non c’era più nessuno.
Restava solo una zia novantaquattrenne che alla preghiera dimmi-zia-dimmi mosse
appena le pupille annebbiate e mormorò: «Sei il postino?». Con la zia ormai
inutile, il rimpianto d’una cassapanca cinquecentesca che per quasi due secoli
aveva custodito la testimonianza di cinque generazioni: antichi libri tra cui
un abbaco e un abbecedario del Settecento, rarissimi fogli tra cui la lettera
d’un prozio arruolato da Napoleone e sacrificato in Russia, preziosi cimeli tra
cui una federa gloriosamente macchiata da una frase indimenticabile, un paio
d’occhiali e una copia del Beccaria con la dedica di Filippo Mazzei.
Cose che
ero riuscita a vedere prima che finissero in cenere, una terribile notte del
1944. Con la cassapanca perduta, qualche oggetto salvato per caso: un liuto
privo di corde, una pipa d’argilla, una moneta da quattro soldi emessa dallo
Stato Pontificio, un vetusto orologio che stava nella mia casa di campagna e
che ogni quarto d’ora suonava i rintocchi della campana di Westminster.
Infine,
due voci. La voce di mio padre e la voce di mia madre che narravano le storie
dei rispettivi antenati. Divertita ed ironica quella di lui, sempre pronto a
ridere anche sulla tragedia. Appassionata e pietosa quella di lei, sempre
pronta a commuoversi anche sulla commedia. Ed entrambe talmente remote nella
memoria che la loro consistenza appariva più tenue d’una ragnatela. A evocarle
di continuo, però, e a connetterle col rimpianto della cassapanca o coi pochi
oggetti salvati, la ragnatela si irrobustì. Si infittì, si fece un solido
tessuto, e le storie crebbero con tanto vigore che a un certo punto mi divenne
impossibile stabilire se appartenessero ancora alle due voci oppure se si
fossero trasformate in un frutto della mia fantasia. Era esistita davvero la
leggendaria arcavola senese che aveva avuto il coraggio di aggredire Napoleone,
era esistita davvero la misteriosa arcavola spagnola che s’era sposata esibendo
un veliero alto quaranta centimetri e lungo trenta sulla parrucca? Era esistito
davvero il dolce arcavolo contadino che spingeva il fervore religioso fino a flagellarsi,
era esistito davvero il rude arcavolo marinaio che apriva bocca solo per
bestemmiare?
Erano esistiti davvero i bisnonni maledetti
cioè la repubblicana Anastasìa il cui nome portavo come secondo nome
e l’aristocraticissimo signore di Torino il cui nome, troppo illustre e
troppo potente, non si doveva nemmen pronunciare per ordine della
nonna? E l’avevano davvero abbandonata in un ospizio di orfanelli
questa povera nonna concepita dalla loro furibonda passione? Non lo sapevo
più. Ma nel medesimo tempo sapevo che quei personaggi non potevano essere un
frutto della mia fantasia perché li sentivo dentro di me, condensati
nel mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituivano il mio
Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e
spavaldi. Le particelle d’un seme non sono forse identiche alle particelle del
seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione,
perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi
il prodotto d’un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d’una
miriade di genitori?
Esplose allora un’altra ricerca: quella delle
date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro
che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare
un lavoro incompiuto.
E come una formica impazzita dalla fretta di accumular
cibo corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i catasti onciari,
i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati delle Anime.
I registri nei
quali, col pretesto di individuare i fedeli tenuti al precetto pasquale, il
parroco elencava gli abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppandoli in
nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli. L’anno o la data
completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo
di lavoro e il reddito, il patrimonio o l’indigenza, il grado di educazione o
l’analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma.
Scritti a volte in latino e a volte
in italiano, con la penna d’oca e l’inchiostro marrone. L’inchiostro, asciugato
con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al
contrario s’era incollata alle parole rendendole sfolgoranti, così a
raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che
era un bruscolo di verità. E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri
eran stati divorati dai topi o distrutti dall’incuria o mutilati dai barbari
che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di
questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un
foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire
alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti.
Quelli delle storie narrate dalle due voci c’erano, e li trovai dal primo
all’ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei
pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan
fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui
potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni
sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una
fiaba da ricostruire con la fantasia.
Sì, fu a quel punto che la realtà prese a
scivolare nell’immaginazione e il vero si unì all’inventabile poi
all’inventato: l’uno complemento dell’altro, in una simbiosi tanto spontanea
quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni,
trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono
miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la
vita che essi avevano dato a me.
La saga da scrivere, la fiaba da ricostruire
con la fantasia, incomincia oltre due secoli fa: negli anni che preparano la
Rivoluzione Francese e che precedono la Rivoluzione Americana cioè la guerra
d’Indipendenza scatenata contro l’Inghilterra dalle tredici colonie sorte nel
Nuovo Mondo tra il 1607 e il 1733. Parte da Panzano, un paesino di fronte alla
casa in cui intendo morire e che prima della ricerca condotta dalla formica
impazzita guardavo senza sapere quanto vi appartenessi, e avviandone il
racconto mi pare giusto offrire qualche notizia a chi non conosce quel tempo o
quel luogo. Panzano sta su un poggio del Chianti, a mezza strada tra Siena e
Firenze, e il Chianti è la zona della Toscana che si stende tra il fiume Greve
e il fiume Pesa: trecento chilometri quadri composti da montagne e colline di
rara bellezza.
Le montagne sono coperte di piante ed alberi sempre verdi,
castagni, querce, cerri, pini, cipressi, macchie di more e di felci, ed
alloggiano una fauna da paradiso: lepri, scoiattoli, volpi, daini, cinghiali,
nonché moltissimi uccelli. Merli e cinciallegre e tordi e usignoli che cantano
come angeli. Le colline sono ripide ma struggentemente armoniose, coltivate in
gran parte a filari di vigne che producono un vino assai rinomato e a uliveti
che producono un olio assai saporito e leggero. In passato ci seminavano anche
il grano con l’orzo e la segala, e la mietitura era uno dei due eventi con cui
si misurava il trascorrere delle stagioni. L’altro era la vendemmia. Tra la
mietitura e la vendemmia fioriva il giaggiolo, i campi si accendevan d’azzurro,
e da lontano sembravano un mare che sale o che scende in gigantesche ed
immobili ondate.
Dopo la vendemmia fiorivano le ginestre, i campi si bordavano
di siepi gialle, e col rosa delle eriche o il rosso delle bacche ogni siepe
sembrava una vampata di fuoco. Spettacoli che nei punti più fortunati si godono
ancora, insieme a tramonti sanguigni e violetti che tolgono il fiato.
Due
secoli fa Panzano contava duecentocinquanta abitanti tra cui lo speziale, il
vetturale, il procaccia, il sensale di matrimoni, il cerusico che aiutava le
vacche a partorire e la gente a morire, ed eccetto quei cinque erano tutti
contadini. Mezzadri o pigionali che lavoravano i latifondi del granduca o dei
signori o degli enti ecclesiastici e il cui sogno era possedere un livello.
Vale a dire, prendere in enfiteusi un podere e scrollarsi di dosso il padrone.
Di solito, un despota al quale apparteneva ogni istante della loro giornata e
senza il cui permesso non potevano nemmeno sparare a un fagiano o prendere
moglie.
La loro anima, invece, apparteneva al prete. E di preti a Panzano ve
n’erano due: il vecchio don Antonio Fabbri e il giovane don Pietro Luzzi. Il
primo, nella prioria di Santa Maria Assunta in Cielo: al centro del paese. Il
secondo, nella Pieve di San Leolino: lungo la strada per Siena. V’era inoltre
un grosso via-vai di frati in cerca di adepti da controllare o da aggregare al
rigorosissimo Ordine dei Terziari Francescani, e ovunque trovavi oratori o
cappelle o santuari o tabernacoli dove si svolgevano noiose processioni che
insieme alla Messa e al Vespro costituivano il massimo svago d’un contadino.
Insomma, nonostante la fede nel raziocinio e nel progresso che veniva predicata
dall’Illuminismo, nonostante gli ideali di libertà e di uguaglianza che stavano
prendendo corpo, nonostante i principii irreligiosi e i costumi epicurei che
caratterizzavano l’epoca, in cima a quel poggio del Chianti la religione
dominava spietata e la Chiesa imperava: somma regina e principale tiranna.
La
città era lontana, sebbene fosse geograficamente vicina. I ricchi vi si
recavano col cavallo o con la carrozza, i meno ricchi col calesse del
vetturale, i quasi poveri con il barroccio, e i poveri a piedi.
Così i più
morivano senza aver mai visto Firenze che da Panzano distava appena venti
miglia, o Siena che ne distava appena diciannove.
Le strade eran strette e sconnesse, un
acquazzone bastava a renderle impraticabili, e d’inverno succedeva spesso di
restare isolati per settimane o per mesi. Le case, no: erano quasi sempre belle
perché nelle regie fattorie il granduca aveva ordinato di ricostruirle su modelli
architettonici pieni di grazia. Bei porticati, bei torrini e bei forni per
cuocervi il pane.
Ma contenevano le stalle, i porcili, gli ovili, i pollai da
cui veniva un gran puzzo e come quelle di città non avevano acqua.
L’acqua si
prendeva alla sorgente, trasportandola a braccia coi secchi, e si serbava nei
fiaschi o nelle brocche di rame dette mezzine. Infatti ci si lavava pochissimo,
diciamo una volta al mese o una volta all’anno, e la latrina era un lusso
costituito da un recipiente o da un buco chiuso da un coperchio.
Oriana a sei mesi tra le braccia della madre Tosca Cantini
- Foto - Oriana Fallaci
Il cariello.
Era un lusso anche illuminare le stanze. Le lampade a olio costavano care e al
calar del buio si accendeva una candela o si andava a letto. Altrettanto presto
ci si svegliava. D’estate, alle quattro del mattino: per correr subito a
lavorare nei campi. Si lavorava molto, a Panzano. In media, quindici ore al
giorno. E, a parte lo svago delle Messe o dei Vespri o delle processioni,
l’unica ricompensa erano le veglie. Cioè i raduni serali che la domenica si
tenevano in una stalla o in cucina per raccontarsi le novelle popolate di
streghe e di diavoli, di fate e di fantasmi. L’unico divertimento mondano, il
mercato settimanale o la fiera stagionale di Greve e di Radda: i due paesi
attigui.
L’unico vero conforto, l’amore consentito dalla Chiesa cioè l’amore
coniugale. (Il che non impediva frementi amplessi nei pagliai e scomode
gravidanze da riscattare col matrimonio).
Cos’altro? Bè, i figli davano del voi
ai genitori, in segno di rispetto. Anche fra marito e moglie ci si dava del voi,
in segno di riguardo, e le donne contavano poco. Non avevano diritto
all’eredità, per sposarsi dovevano possedere una dote e un corredo, in mancanza
di ciò finivano spesso in convento, e sfacchinavano di zappa o di vanga proprio
come gli uomini. Gli ospedali in campagna non esistevano. Sebbene a Radda ci
fosse un medico condotto, a Panzano bisognava accontentarsi del cerusico che
aiutava le vacche a partorire e la gente a morire. Quindi una ferita o una
bronchite bastavano a spedirti nell’al di là.
Non esistevano nemmeno i
cimiteri. I morti si seppellivano sotto l’impiantito della Pieve di San Leolino
o della prioria di Santa Maria Assunta in Cielo, con un po’ di calce e via.
Tantomeno esistevan le scuole. Solo se il prete ti insegnava, imparavi a leggere
un libro, compilare una lettera, far di conto. Ma don Fabbri non ne aveva
voglia, don Luzzi lo faceva esclusivamente nei casi eccezionali, e tra i
contadini della zona la percentuale dell’analfabetismo toccava l’ottantasette
per cento. Eppure quel poggio a mezza strada tra Firenze e Siena era giudicato
da chiunque un angolo benedetto da Dio, il Chianti era una delle contrade più
ammirate e più invidiate d’Europa, e la sua fama giungeva fino alla Virginia:
la prima delle tredici colonie che stavano per ribellarsi all’Inghilterra.
Questo spiega perché la saga da scrivere, la fiaba da ricostruire con la
fantasia, includa all’inizio tre personaggi ai quali non mi lega alcuna
parentela e che tuttavia furono coinvolti nel mio venire al mondo.
Thomas
Jefferson, il principale artefice della Dichiarazione d’Indipendenza Americana
e terzo presidente degli Stati Uniti che in Virginia viveva e possedeva molte
terre cui si dedicava con l’entusiasmo di un agronomo. Benjamin Franklin, il
geniale scienziato e scrittore e politico della colonia chiamata Pennsylvania
che fra le altre cose inventò il parafulmine e la stufa a combustione.
E il
fiorentino Filippo Mazzei: medico, commerciante, memorialista, esperto di
agricoltura, avventuriero di classe nonché amico di quei due. Coinvolgimento
che induce a riflettere sulla comicità del destino e sull’inopportunità di
prenderlo troppo sul serio.
- Oriana Fallaci -
da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli,La prima parte
"Non so arrendermi al fatto che
per vivere si debba morire, che vivere e morire siano due aspetti della
medesima realtà, l'uno necessario all'altro, l'uno conseguenza dell'altro.
Non
so piegarmi all'idea che la Vita sia un viaggio verso la Morte e nascere una
condanna a morte.
Eppure l'accetto.
Mi inchino al suo potere illimitato e
accesa da un cupo interesse la studio, la analizzo, la stuzzico. Spinta da un
tetro rispetto la corteggio, la sfido, la canto, e nei momenti di troppo dolore
la invoco."
- Oriana Fallaci -
da: "Un cappello pieno di ciliege",BUR biblioteca Univers. Rizzoli
“Ho sempre amato la vita.
Chi ama la vita
non riesce mai ad adeguarsi,
subire, farsi comandare.
Chi ama la vita
è sempre con il fucile alla finestra
per difendere la vita…
Un essere umano che si adegua,
che subisce, che si fa comandare,
non è un essere umano”.
- Oriana Fallaci -
Buona giornata a tutti. :-)