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lunedì 11 gennaio 2021

L'angelo e il bambino

Ogni volta che un bambino viene chiamato dal Signore, un angelo scende dal cielo per condurlo in Paradiso. Ma prima di volare fin lassù, l'angelo concede al piccolo di visitare, per l'ultima volta, i luoghi più incantevoli della terra per raccogliere i fiori più belli e portarli fino in cielo.

Anche quella sera, nella fresca brezza vespertina, un angelo portava fra le braccia un bambino. Volavano leggeri sulla terra in fiore e si fermarono in un parco lussureggiante. Raccolsero viole, margherite, nontiscordardimé e ciclamini, e anche piccoli boccioli di rosa in un roseto appena reciso.

Il bambino batté le mani dalla contentezza, pensando che ormai sarebbero saliti verso il cielo. Ma non era ancora il momento. Volarono in su e in giù per molte strade e molti viottoli bui. Ormai era scesa la notte. La città dormiva. In un vicolo sporco e maleodorante l'angelo si fermò e indicò al piccolo di rovistare in un mucchio di immondizie.

«Lì troverai il fiore più bello!» esclamò l'angelo raggiante.

Il bambino, incredulo, si avvicinò a quella montagna di rifiuti. Tra vecchi cenci, cibi avanzati e altri resti, c'erano anche i cocci di un vaso di terracotta. Accanto ad esso, vide un giglio dei campi rinsecchito, ancora attaccato alla sua radice. Il bim­betto rimase alquanto deluso: «Vuoi portare al buon Dio questo fiore appassito?».

L'angelo si chinò, raccolse la pianticella e con voce tremula di commozione narrò la storia di quel giglio: «In quel vicolo laggiù, in una misera stanzetta, viveva un ragazzo malato. La malattia aveva tolto ogni forza alle sue povere gambe e non poteva quasi più alzarsi dal letto. Non poteva uscire, né saltare, né correre con gli altri bambini. Costretto a letto notte e giorno, quando si sentiva un po' meglio, faceva qualche passo per la stanza con le stampelle. Durante la bella stagione lo portavano davanti alla porta di casa per respirare un po' d'aria fresca. E il ragazzo era veramente felice: per lui era come assaporare una fetta del vasto mondo!».

«Il fiore era suo?» domandò il fanciullo, vinto da quella curiosità che non abbandona mai l'anima dei bambini.

«Un giorno» continuò l'angelo «una vecchia fioraia regalò al pallido ragazzo seduto sull'uscio di casa un paio di gigli. Uno di essi aveva ancora la radice. Il fiore venne messo in un vaso di coccio e diventò la prima compagnia del piccolo malato. Giorno e notte la pianticella stava vicino al suo letto, affinché egli potesse vederla crescere e prosperare. Grande fu la sua gioia quando, dopo un po' di tempo, apparve un bocciolo, che in breve si aperse in tutto il suo radioso splendore. La pianticella sembrava voler ringraziare il ragazzo per le cure e l'amore che le prodigava, e ad ogni primavera rifioriva più bella. La vita di quel fiore riempiva le molte ore che il ragazzo doveva trascorrere immobile, e di notte rallegrava i suoi sogni. Il dolore era meno intenso da quando poteva godere di quella preziosa compagnia. Perché il dolore è più acuto, quando chi soffre resta dimenticato e solo. Quando fu prossimo alla morte, il suo ultimo sguardo fu per quel giglio che lo aveva reso felice».

Il piccolo ascoltò la storia palpitando di tenerezza, ma non riusciva a spiegarsi come mai l'angelo la conoscesse in tutti i particolari.

«Come potrei non riconoscere il mio fiore?» rispose l'angelo. «È la mia storia quella che ti ho raccontato. Quando vivevo sulla terra, ero il ragazzo malato che teneva la pianticella accanto al letto».

Il bambino prese quel giglio appassito e lo mise nel mazzo insieme agli altri fiori. Quando furono in Paradiso, deposero ai piedi del Signore ciò che avevano raccolto e, tra le dita di Dio, quel giglio bagnato dalle lacrime della sofferenza rifiorì in tutta la sua bellezza.

Leggenda scandinava

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 



Buona giornata a tutti. :-)


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mercoledì 12 febbraio 2020

Il sarto nella città felice

In un piccolo paese viveva una volta un sarto che non aveva nè moglie, nè figli. Lavorava dal mattino alla sera, cuciva camicie, pantaloni, caffettani. Era anche il muezzin del paese.
All'alba, quando tutti dormivano, saliva in cima al minareto della moschea e svegliava la gente chiamandola alla preghiera e così faceva a mezzogiorno, nel pomeriggio e al tramonto. 

Tutti volevano bene e stimavano quest'uomo laborioso e pio. Ogni volta che saliva sul minareto il sarto rivolgeva il suo pensiero a Dio e gli manifestava il desiderio di avere un giorno una moglie e una casa dove vivere felice e sereno.

Si dice che un giorno, dopo aver fatto risuonare i sette melodiosi versi del richiamo alla preghiera, venne catturato da un grosso uccello rapace che, tenendolo ben stretto tra gli artigli, dopo aver attraversato il mare, lo depose nelle vicinanze di una città sconosciuta. Il sarto vi entrò e si meravigliò della pace e della tranquillità che vi regnavano. Non si sentiva litigare, né mercanteggiare, la gente sorrideva, i loro abiti erano bellissimi e puliti, i tessuti con cui erano confezionati erano preziosi. Ancor più aumentò la sua meraviglia quando avvicinandosi ad un negozio vide che la gente acquistava senza pagare, pronunciando soltanto questa parola: "Preghiere alla bellezza". Questa formula veniva ripetuta una o più volte secondo il valore della merce.

Finalmente arrivò davanti alla bottega di un sarto e dopo averlo osservato a lungo lavorare ed essersi reso conto che anche questi aveva il viso radioso, si fece coraggio, entrò, lo salutò e gli disse: "Anch'io sono un sarto come te e mi piacerebbe fermarmi a vivere in questa città". 


Il collega sorridendo rispose:" Certo che ti puoi fermare, ne saremo felici, lavoreremo insieme e ogni settimana riceverai cinquanta preghiere alla bellezza.

Il sarto iniziò subito a lavorare e in poco tempo venne a conoscere tutte le usanze di questo strano paese, dove a nessuno mancava mai nulla e dove ogni lavoro e ogni commercio venivano ricompensati con le parole: "Preghiere alla bellezza".

Vi era un altro uso curioso. Se un giovane voleva sposarsi, doveva andare il giovedì sulla spiaggia. Lì passeggiavano tutte le ragazze da marito portando sulla testa una brocca di acqua fresca. Se una ragazza piaceva, la si fermava, le si chiedeva un sorso d'acqua e la si ringraziava dicendo: "Preghiere alla bellezza!" e se anche a lei fosse piaciuto il giovane, si sarebbero sicuramente sposati. Naturalmente il sarto non vedeva l'ora di andare il giovedì sulla spiaggia e così fece. Vide una ragazza che gli piaceva molto, chiese un sorso d'acqua, la ringraziò con le parole: "Preghiere alla bellezza" e si sposarono.

Ogni giorno, dopo il lavoro, il sarto andava al mercato a far la spesa, comprava il necessario per vivere e il tempo scorreva nella tranquillità e nella serenità senza che i due sposi avessero bisogno di nulla. 
Un giorno, durante il suo abituale giro al mercato, il sarto vide un grosso pesce dalla carne bianca e appetitosa e decise di comprarlo in cambio di "Preghiere alla bellezza" pensando che la moglie sarebbe stata contenta. 

Quando tornò a casa e la moglie vide il grosso pesce, si spaventò e gli disse: "Che cosa hai fatto? siamo solo in due e tu hai comprato un pesce che potrebbe nutrire dieci persone, adesso non potrai più vivere in questa città".

Il sarto rattristato, uscì di casa ed ecco sopraggiungere l'uccello rapace che lo afferrò e lo riportò nella sua città natale lasciandolo in cima al minareto proprio dove lo aveva afferrato la prima volta.

Il sarto richiamò i credenti alla preghiera, lui stesso scese e si unì agli altri per pregare, ritornò nel suo negozio e riprese a lavorare. 
Ripensava sempre con molta tristezza alla città felice e si augurava di rivedere l'uccello rapace. Ma esso non tornò mai più.

- da una leggenda araba -




Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità ma planare sulle cose dall'alto, non avere macigni sul cuore.

- Italo Calvino - 




"È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa."

[Fight Club]








Quando non c'è più rimedio è inutile addolorarsi, perché si vede ormai il peggio che prima era attaccato alla speranza.
Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali. Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato, bisogna avere pazienza: essa muta in burla la sua offesa.
Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro, ma chi piange per un dolore vano, ruba qualcosa a se stesso.

- William Shakespeare -
da Il mercante di Venezia






























Buona giornata a tutti :-)

www.leggoerifletto.it







domenica 12 gennaio 2020

Dominus tecum, figlio mio - Leggenda popolare spagnola


Tutto ciò che sto per narrarvi accadde tanto tempo fa, in un paese di cui nessuno ricorda il nome.
Era un paese prospero e allegro, sdraiato su una dolce collina coltivata con cura e perizia. I suoi abitanti, contadini dall'animo semplice e gentile, erano sempre pronti al sorriso e generosi fra di loro e con i forestieri.
La vita trascorreva senza grandi scosse, con quel tanto di dolce e di amaro che abitualmente l'attraversa quando la si sa guardare con occhio benevolo.
Finché, improvvisamente, qualcosa di insolito e malvagio percorse le strade di quel luogo e incominciò a colpire ora questa, ora quella famiglia. 
Ogni giorno di festa per la nascita di un bimbo si trasformava in un giorno di dolore perché, senza che nessuno potesse darne una spiegazione, il neonato moriva dopo poche ore dalla nascita.
Neppure il vecchio prete, che tante ne aveva viste e passate, riusciva a comprendere da dove quel terribile morbo provenisse e perché si accanisse tanto contro quelle piccole e innocenti creature. 
Dopo aver consultato gli antichi libri, racchiusi nella cripta della chiesa, il brav'uomo cominciò a pensare che forse un folletto malvagio, inviato dalle oscure dimore degli spiriti negativi, si aggirava nel paese, spinto dall'invidia per quel placido angolo di serenità.
Ben presto gli abitanti divennero preda di un'angoscia mai prima d'allora conosciuta, non sapendo spiegarsi come mai la vita si accanisse proprio contro di loro. Essi pregavano con fervore il buon Dio che ogni cosa conosce, perché li aiutasse a uscire da quell'incubo in cui parevano sprofondare sempre di più.
Potete immaginare a questo punto in quale stato d'animo essi si trovarono quando Prospero, il panettiere, annunciò all'intera comunità, riunita per la messa, la prossima nascita di un figlio.
«Ma sei proprio matto!» esclamarono in coro. «Non ti basta quello che già è successo? Non capisci che qualche maleficio si è abbattuto sul nostro paese?».
Prospero, attanagliato dalla paura, non sapeva che dire. Ormai non poteva far altro che attendere, rassegnato a sopportare la sua parte di dolore.
Intanto il vecchio prete non aveva smesso per un solo giorno di sfogliare le enigmatiche pagine di quegli antichi testi che le umide pietre della cripta avevano custodito gelosamente così a lungo. Come poteva Dio non aver previsto tutto ciò che stava accadendo e non aver messo a loro disposizione un suggerimento che potesse aiutarli?
Il sant'uomo leggeva e rileggeva, studiava e rifletteva, percependo in cuor suo che dietro tutta quest'affannosa ricerca doveva nascondersi qualcosa di molto più semplice, come solo Dio sa essere semplice.
Nel frattempo i mesi erano trascorsi veloci e il piccolo figlio del panettiere era nato in una assolata quanto fredda mattina di febbraio.
Nella casa, che avrebbe dovuto accoglierlo con gioia, regnava invece un cupo dolore e la giovane mamma scrutava preoccupata il visetto paffuto aspettandosi di vederne volar via la vita, come già tante altre volte era accaduto nel villaggio.
Mentre tutti se ne stavano lì tristi e piangenti, ecco spalancarsi la porta ed entrare il vecchio prete.
«Che splendido bambino, miei cari!» esclamò, abbracciando la stanza con un largo sorriso.
Poi si rivolse alla donna china sul lettino del neonato: «Non piangere, cara, asciuga piuttosto i tuoi occhi e fai quanto ora ti dico!».
Fra la meraviglia generale l'uomo fece sollevare il bimbo, ordinando alla madre di tenerlo in grembo fino a quando lui non avesse deciso altrimenti.
La donna pareva incerta, ma la forza che il vecchio emanava era così concreta che sembrava impossibile contrastarla. Prese il piccolo e lo tenne sulle ginocchia finché il bimbo fece un leggero starnuto.
«Dominus tecum, figlio mio!» esclamò subito il vecchio solennemente. 
Nel medesimo istante s'intese una voce sgradevole e irritata provenire dalla cappa del camino.
«Vecchiaccio! Mille volte maledetto! Chi ti ha insegnato tutto ciò?» e, nel dire questo, un folletto ghignante e storpio attraversò di corsa la stanza, uscendo con un balzo dalla porta e scomparendo in un battibaleno dalla vista degli increduli spettatori.
Sotto la forma di una tremolante ombra scura, il male se ne scappò via, vinto dalla forza di due sole parole che però non ammettevano dubbio alcuno.
È inutile che vi diciamo che quel bimbo, come tutti quelli che nacquero da allora in poi, crebbe sano e vispo così come il paese ritrovò tutta la serenità e l'allegria di un tempo.
Se però in questi giorni vi capitasse di passare per caso di là, certamente lo riconoscerete, perché gli abitanti, in segno di buon augurio, vi saluteranno dicendovi: 
«Dominus tecum, figlio mio, il Signore sia con te!».

- Leggenda popolare spagnola -
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A.




martedì 17 dicembre 2019

L'angelo e l'albero di Natale - Leggenda popolare della Gran Bretagna

Come si sa, l'uomo ha vagabondato per tutta la terra fondando diversi insediamenti che, nel corso dei secoli, si sono sempre più allargati creando società diverse e poi nazioni.
Sebbene il piccolo Gesù sia nato in Palestina, un paese caldo nel quale sicuramente non si trovano alberi quali gli abeti, le popolazioni del nord del mondo usano addobbare proprio pini e abeti in occasione del Natale.
Anche in Inghilterra, paese del nord dell'Europa, ogni anno, il venticinque di dicembre, piazze e giardini si illuminano di splendide decorazioni con cui la gente riveste gli alberi che diventeranno il simbolo di questa festa così speciale.
In un villaggio inglese viveva molti anni fa un bambino di nome Giacomo.
Era un bimbo molto dolce e sensibile che la sorte aveva però toccato in modo speciale. 
Non aveva ricevuto infatti il dono della vista e si affidava ai racconti degli adulti o degli amici per immaginare dentro di sé tutto ciò che lo circondava.
Se da un lato poteva essere considerato sfortunato, da un altro aveva però ricevuto un regalo: il suo angelo custode, che era davvero straordinario.
A questo angelo era stato affidato proprio Giacomo e lui si dedicava al suo piccolo protetto con un entusiasmo e una dedizione come solo fra gli abitanti del Paradiso si possono trovare.
Il bimbo in realtà non era mai solo e quello che non riusciva a immaginare con la fantasia gli veniva dipinto direttamente nella mente dal suo attentissimo angelo.
A volte questa capacità di intuire le forme della realtà lasciava tutti sbalorditi e alcuni borbottavano a mezza voce che quel bambino riusciva a mettersi in contatto con una dimensione sconosciuta.
Poteva anche capitare, a chi si trovava vicino a lui, di udirlo bisbigliare con qualcuno che, naturalmente, nessuno vedeva, chiedendo dettagli su questa o quella cosa che si trovava lì appresso. 
Giacomo non aveva mai parlato con nessuno di questo prezioso amico, né con mamma né con papà, né, tanto meno, con i suoi giovani amici, ma lo aveva semplicemente accolto nella sua vita come ognuno di noi accoglie la parte più preziosa e profonda di se stesso.
Come ogni anno, anche quella volta stava per arrivare la vigilia di Natale e i preparativi per l'addobbo più bello fervevano in ogni famiglia.
Mamme, papà, nonni, zii e parenti tutti non facevano che correre da un negozio all'altro per riuscire a trovare qualcosa di veramente speciale con cui meravigliare i piccoli e gli amici.
Ognuno lasciava andare a briglia sciolta la propria fantasia e il villaggio, giorno dopo giorno, si stava trasformando in un quadro animato, dove colori e luci rendevano ogni cosa spettacolare e quasi irreale.
Naturalmente la fantasia di Giacomo galoppava più di ogni altra e lui non faceva che chiedere e richiedere, ora a questo e ora a quello, ma proprio in quell'occasione non riusciva a creare dentro di sé l'immagine del "misterioso" albero di Natale.
Spesso pregava il buon Dio perché almeno quella volta, solo per pochi attimi, gli facesse dono della vista permettendogli di ammirare quel prodigioso sfavillio di luci. 
Sapeva bene che Dio era più buono di chiunque altro perché il suo amico segreto gli aveva raccontato su di Lui delle storie meravigliose.
Giacomo intuiva dentro di sé che quell'albero rappresentava qualcosa di ancor più prezioso e profondo di quello che l'apparenza mostrava.
«Quelle luci che giocano con le ombre dei rami sono come tanti sorrisi che si nascondono dentro le pieghe dell'anima» gli sussurrò l'angelo.
«Ma perché si mostrano solo la notte di Natale?» rispose Giacomo perplesso.
«Non si mostrano solo in quella notte, ma ogni qualvolta l'uomo si sente particolarmente vicino a Dio. E la notte di Natale è una di quelle volte.»
«Dimmi tu quale sarà l'albero con i sorrisi più belli, perché io non potrò vederlo». Disse allora sconsolato il bambino all'angelo.
«Mio dolce amico, l'albero più bello sarà quello che brillerà nel tuo cuore!»
Giacomo stava ancora riflettendo su quelle parole quando la mamma lo chiamò.
«Vieni, Giacomino, ti farò toccare tutti gli oggetti che ho appeso al nostro albero: ci sono anche le caramelle che ti piacciono tanto e papà ha appeso una bella sorpresa per te. Sono sicura che ti piacerà tantissimo.»
"Com'è dolce la voce della mamma! Dio è stato veramente buono con me" pensò il bambino, assaporando il tepore che l'amore dei suoi genitori sapeva infondergli.
In quell'attimo dal suo cuore sgorgò un'emozione così profonda che si sentì scosso da un brivido e, guardando nella grande stanza, Giacomo vide brillare il suo albero di Natale.
Non solo Giacomo vide per la prima volta tutto ciò che lo circondava, ma, affacciato alla finestra, fra lo scintillio della neve, distinse chiaramente una figura luminosa che agitava la mano verso di lui in segno di saluto.
Nessuno nel villaggio dimenticò quel Natale in cui avvenne il miracolo del piccolo cieco, e, anche se i medici diedero a quell'inconsueto fenomeno un nome scientifico, tutti vollero sempre considerarlo solo e soltanto un miracolo.
Giacomo crebbe e divenne un uomo. Non si chiese mai cosa fosse successo quella notte, ma accettò pieno di gratitudine e basta.
Il suo misterioso compagno sparì nello stesso attimo in cui lui riacquistò la vista, ma lui non lo dimenticò mai.
Passarono gli anni e Giacomo ebbe a sua volta dei figli e dei nipoti per i quali, ogni Natale, non mancò mai di addobbare bellissimi alberi luminosi, ricordando loro che ogni luce era un sorriso che durante l'anno essi avevano dedicato a Dio.
Ma arrivò un Natale in cui Giacomo non ebbe più la forza di addobbare il grande abete che faceva bella mostra di sé nella sala della sua casa e per lui lo fecero i figli e i nipoti. E lo fecero con tanto amore che mai albero di Natale gli parve più bello.
Seduto nella poltrona preferita, il vecchio Giacomo guardava i suoi cari intorno all'albero luccicante e pareva che la loro gioia riempisse tutto il mondo.
Il suo ultimo pensiero fu: "Dio è stato veramente buono con me!" e lo sguardo andò alla finestra, oltre la quale una figura luminosa, fra lo scintillio della neve, lo stava aspettando.

- Leggenda popolare della Gran Bretagna - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 







Buona giornata a tutti. :-)






lunedì 18 novembre 2019

Saturnino vola in Paradiso - leggenda medievale

Il Maligno stava scrutando con attenzione gli uomini sulla terra, attento come sempre alla possibilità di accaparrarsi qualche nuova anima.
Guarda di qua e guarda di là, fu attratto da una gran profusione di persone che stavano uscendo da una chiesa. Aguzzò ulteriormente lo sguardo tendendo le orecchie come due antenne e, in un baleno, fu come se lui stesso si trovasse in mezzo a quella gente.
Sentì quindi tutti gli elogi con cui chi aveva assistito alla funzione domenicale apostrofava il vescovo della città che, a quanto pareva, aveva appena tenuto uno dei suoi famosi sermoni.
Potete immaginarvi la curiosità di Satana. Chi era questo famoso predicatore sfuggito alle sue sgrinfie?
Si trattava di san Donato, vescovo di Arezzo, le cui argomentazioni, forgiate con voce possente, erano riuscite a sconfiggere i più grandi avversari della Chiesa.
Seduto nel suo antro fumoso, Satana cominciò a rimuginare sul da farsi, ma prima di prendere qualsiasi decisione volle sfogliare la grande enciclopedia in cui ogni anima veniva citata dettagliatamente.
Ecco cosa trovò alla voce "Anima di san Donato".

L'anima di questo soggetto possiede grande forza, la sua struttura è legata a un corpo altrettanto forte e robusto. Cresciuto in ambiente contadino, ne ha ereditato i saldi principi legati al rispetto della natura e dell'essere umano che da essa trae vigore.
Di temperamento focoso, Donato ama cimentarsi in qualsiasi tipo di disputa e non disdegna neppure qualche baruffa.
Questa anima non appartiene al tipo ascetico, considerando la sua permanenza sulla terra una palestra di prova per rinforzare se stessa e lo spirito che la guida.
L'uomo che ospita quest'anima apprezza i piaceri della compagnia, della buona tavola e del buon bere.
«Caspita!» pensò il diavolo. «Questo qui me lo lavoro io a dovere! Se il fiuto non m'inganna, il terreno è fertile per piantare le mie radici». E così si mise a considerare quale dei suoi aiutanti poteva impegnare in quell'opera.
Gli venne in mente un diavoletto decisamente maligno e furbo che, uscito a pieni voti dal corso di "tentatore", aveva già dato buona prova delle sue capacità.
Il Maligno fece così chiamare Saturnino, questo era il nome del diavoletto, e gli affidò il delicato incarico di circuire l'anima di Donato e di farne una sua conquista.
A Saturnino non parve vero di tenersi un po' in forma con le tentazioni che da qualche tempo non esercitava più, avendo avuto solo incarichi amministrativi.
Per prima cosa seguì Donato per diversi giorni, tenendosi però lontano da lui, anche a causa di quell'odore di zolfo che sempre gli rimaneva appiccicato addosso quando usciva dall'Inferno.
Poi, fattosi un'idea più precisa sul sant'uomo, preparò un dettagliato piano di attacco.
La prima mossa coinvolse l'ignara perpetua che da tanti anni provvedeva alla cura della canonica.
Teresa, ormai di mezza età, era rimasta vedova ancora giovane e aveva potuto allevare i tre figli grazie alla generosità del suo vescovo; così le era sembrato più che giusto rendersi utile occupandosi di lui come una affezionata sorella.
Donna di grande giudizio, aveva accudito Donato con la stessa dedizione con cui aveva cresciuto i suoi figli, né mai il suo sguardo si era posato su di lui con occhio diverso da quello di una madre.
Lo rispettava profondamente e lo ammirava per la forza con cui affrontava ogni problema della sua diocesi, occupandosi anche dei più piccoli dettagli.
Eccellente cuoca, Teresa indulgeva verso le golosità del suo benefattore e la tavola di Donato era rinomata per i manicaretti che la brava donna riusciva a preparare anche con poca spesa, senza contare che chiunque si trovasse nell'indigenza poteva sempre fare affidamento su quel generoso desco.
Saturnino pensò quindi di mettere in pratica una delle più antiche tentazioni: quella della sensualità femminile. Non diceva anche la Bibbia che la donna è la prima fonte di peccato?
Fu così che l'ignara Teresa finì preda di quel furbacchione.
Figurarsi la sorpresa di Donato quando una sera vide la sua brava perpetua presentarsi con il solito bicchiere di latte, ma...
Le vesti erano inequivocabilmente provocanti e, diciamolo fra noi, anche ridotte all'essenziale. I capelli, solitamente raccolti in una crocchia, facevano bella mostra, morbidamente sciolti sulle spalle; e quella voce suadente...
"Perbacco! Cos'è accaduto?" pensò sconcertato l'uomo.
Ma se Saturnino era furbo, il vescovo non era da meno. Senza lasciarsi trarre in inganno, Donato si alzò in piedi e, dall'alto della sua imponente mole, gridò con quanto fiato avesse in gola: «Fuori da lì, manigoldo!».
E, così dicendo, prese la scodella del latte, lo benedisse e si mise ad aspergere la donna e tutto quanto si trovasse lì intorno.
A contatto con il liquido benedetto Saturnino non poté resistere dal bruciore, gli sembrava di essere ustionato da olio bollente. Per tutti i diavoli, ma quello era peggio dell'Inferno!
Con un balzo uscì dalla donna, andando a nascondersi nel primo anfratto buio che trovò sulla sua strada. Bella figura aveva fatto! E ora, che avrebbe raccontato al suo signore?
Intanto, nella canonica, Teresa, tornata in sé, stava valutando la situazione con grande imbarazzo, non riuscendo a capire come mai si trovasse lì in quelle condizioni.
«Portami un'altra tazza di latte, per favore, e non preoccuparti» le disse gentilmente il vescovo: «non è successo niente, abbiamo solo ricevuto una visita inattesa, ma adesso è tutto sistemato».
Passò un po' di tempo e il nostro diavoletto si riprese alla grande dallo smacco e dallo spavento di quella sera.
Gironzolando intorno a Donato, in attesa di un momento favorevole per intervenire, gli si presentò ben presto l'occasione di introdursi nei suoi sogni. Quale momento migliore per trovare quell'uomo indifeso e vulnerabile?
Approfittando di un pisolino che il vescovo si era concesso dopo il pasto di mezzogiorno, si avvicinò cauto bisbigliandogli all'orecchio: «Ascolta la voce di un amico... Io posso darti potere e gloria... Abbandona la strada del bene ed entra a far parte dei servitori del mio signore: lui ti colmerà di tutto ciò che un uomo possa desiderare!».
Donato stava godendosi il sonnellino pomeridiano ma, messo in allerta dalla prima visita di quell'abitante degli inferi, non abbandonava mai completamente le sue difese.
Così, nella parte vigile della sua mente, suonò immediatamente un campanello
d'allarme: "Attento, si sente odore di zolfo!".
Il sant'uomo finse allora di russare rumorosamente, ma in realtà si stava preparando ad attaccare contando sulla sorpresa.
Infatti Saturnino si era messo tranquillo di fianco all'uomo addormentato e continuava imperterrito a sciorinare promesse e lusinghe.
D'un balzo Donato si alzò e, prendendo il diavoletto per gli zoccoli, cominciò a sbatacchiarlo di qua e di là come un tappetino; poi, con uno scatto veloce, inusuale per un uomo della sua mole, lo afferrò per la gola stringendo così forte che a Saturnino non rimase che chiedere indulgenza.
«Abbi pietà, buon vescovo» tossicchiava il miserello: «se mi lascerai andare, non ti importunerò mai più, parola di diavolo!».
Sbuffando come un mantice, Donato si accontentò di immergere il malcapitato nell'acquasantiera della sacrestia, dove lo lasciò in ammollo più morto che vivo.
Quando finalmente riuscì ad aggrapparsi ai bordi dell'ampio bacile, Saturnino trovò a malapena la forza per sgattaiolare fuori e raggiungere una buia grotta fuori città, direttamente collegata con le gallerie infernali e lì, finalmente, poté riprendere fiato e farsi curare dagli gnomi dell'oscurità.
Rimessosi in forze, il nostro diavolo pensò che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere quella missione e starsene per un po' lontano da quei luoghi. 
A lui che importava di Donato e della sua virtù? Se la tenesse... in fondo Saturnino era sempre stato un assertore del libero arbitrio.
Ma non così la pensava Satana, che subito lo mandò a chiamare, minacciandolo di tremendi castighi se non gli avesse portato al più presto l'anima di quel cocciuto seguace della bontà e, pronunciando quella parola, storse la bocca in un terribile ghigno di disprezzo.
Tutto mogio, il nostro diavolo si rimise in cammino, ma l'antica baldanza era completamente svanita.
Magro da far pena, spelacchiato e in preda a frequenti tremori, Saturnino si aggirava per le strade di Arezzo indeciso sul da farsi.
Tanto per tenersi in allenamento, si nascondeva negli antri più scuri o agli angoli dei vicoli per balzar fuori all'improvviso e spaventare gli occasionali passanti, ma i più lo guardavano con disgusto, scambiandolo per un cane randagio, oltretutto un po' rognosetto.
Il suo orgoglio era profondamente ferito, doveva ad ogni costo raccogliere quello che rimaneva dell'antico vigore e affrontare nuovamente il vescovo. S'intrufolò nella sua casa e, approfittando della momentanea assenza di Teresa dalla cucina, cominciò con lo sbafarsi la rimanenza della cena; poi, rimuginando su quale tipo di tentazione mettere in atto, finì con l'intrufolarsi dentro un abito di Donato.
Era il mese di gennaio e quell'anno il freddo non scherzava; così Saturnino, abbondantemente rifocillato, finì con l'addormentarsi sodo e al calduccio.
Ma quando si risvegliò si trovò avvinghiato dalla stretta terrificante di quella che avrebbe dovuto essere la sua preda.
«Diavolaccio malefico» stava gridando Donato, «ti farò passare io la voglia di importunare i vescovi!».
Quindi lo portò sul campanile legandolo strettamente al batacchio della campana grande, così che ogni volta questa suonava il diavolo veniva scosso, urtato, tirato e frastornato come un cencio battuto sulla pietra.
I topi che abitavano la torre campanaria si chiesero ben presto che ci facesse lì quel coso e cominciarono a rosicchiare la corda che lo teneva legato, finché, finalmente, lo liberarono dall'incomoda situazione facendolo cadere con un tonfo sul pavimento. 
Per la prima volta Saturnino cominciava seriamente a dubitare sulla sua natura diabolica, eppure non voleva ancora darsi per vinto. Alla prima occasione scese cautamente nelle stanze di Donato e si nascose nella sua tabacchiera; così, quando questi ne sollevò il coperchio, balzò fuori con un urlo da far accapponare la pelle. Ma non era così facile intimorire un santo, e tanto meno quello.
«Sei dunque tornato, spiritello malvagio» gli disse, osservandone con soddisfazione l'aspetto malconcio. «Ora ti sistemo una volta per tutte, così potrai riferire al tuo padrone che con me non c'è niente da fare!».
Detto questo, Donato prese il diavolo per un orecchio e lo ficcò dentro il ripostiglio dove erano conservate tutte le preghiere che il vescovo aveva rivolto al buon Dio.
Questo fu il colmo! Saturnino strabuzzò gli occhi, si contorse in preda a spasimi atroci mentre le sue fibre erano sottoposte a inimmaginabili sconvolgimenti. Infine, al colmo della disperazione, svenne e tutto sprofondò in un grande silenzio.
A cominciare dal quel giorno il nostro diavoletto non osò più tormentare il santo né tanto meno tornare dal suo padrone, il maligno Signore delle Tenebre.
Si aggirava per la casa e per il giardino cercando di passare inosservato, sgattaiolava lungo i muri accontentandosi di qualche avanzo della cucina e di poter nascondersi in quel luogo che cominciava quasi a piacergli.
Intanto il tempo passava e Donato perdeva sempre più le sue forze avvicinandosi ormai alla vecchiaia.
Quando infine si ammalò, da quell'uomo robusto che era si ridusse in un letto preso da estrema debolezza.
Saturnino considerò allora che forse poteva essere giunto il tempo della sua rivincita e, avvicinandosi stancamente al capezzale del suo temuto antagonista, gli sussurrò con quel po' di voce che anche a lui era rimasta: «Dammi finalmente retta, io posso ridarti salute e giovinezza se tu ti affiderai al mio signore! Basta un tuo cenno, anzi il solo tuo desiderio, e potrai tornare quello di un tempo: giovane, forte e protetto dal più potente dei principi».
II santo guardò quel malconcio demonio spelacchiato e smunto, ormai sfinito dopo tante inutili lotte, e provò per lui una grande pietà.
«Ascolta, se il tuo padrone può fare tutto ciò che dici, per quale motivo non ne approfitti tu stesso?».
Saturnino non sapeva che rispondere, ma quelle parole lo fecero riflettere.
«Posso forse proporre io un patto a te» proseguì Donato con un filo di voce. «Non posso certo trasformarti così sui due piedi in un angelo, ma posso sottrarti al potere del tuo sgradevole padrone».
E visto che il diavoletto sembrava contento di quella proposta, Donato si rivolse al buon Dio affinché si prendesse cura Lui di quella creatura. 
In quello stesso istante, la sgraziata ombra scura che si trovava accanto al santo si trasformò per incanto in un grazioso e variopinto uccellino dal canto melodioso.
Per tutti i giorni in cui Donato giacque ammalato il piccolo animale non lasciò più la stanza, cercando di dare conforto al moribondo con il trillo del suo canto.
Passò poco tempo e il santo lasciò questa terra per raggiungere il Paradiso dove, statene pur certi, fece in modo che fosse chiamato anche un certo uccellino.

- Leggenda medievale - 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 





Buona giornata a tutti. :-)





domenica 27 ottobre 2019

La leggenda detta "notte dette rose" - Antica leggenda persiana


Narra la leggenda che, tra i re arabi che dominarono la città di Toledo, Zenon sia stato il più implacabile persecutore dei cristiani. Egli non ammetteva altra fede se non quella musulmana e si era prefisso lo scopo di sopprimere chiunque non volesse onorare Allah e il suo profeta Maometto convertendosi agli insegnamenti del Corano.
I sotterranei del suo palazzo non erano ormai altro che oscure prigioni, in cui i cristiani catturati erano rinchiusi nell'attesa di una possibile conversione o del giudizio finale, nel caso si ostinassero nel loro assurdo credo.
Zenon aveva indurito il suo animo nelle feroci battaglie di conquista ed era ancor più chiuso alla misericordia perché fermamente convinto di portare nel confuso occidente la luce della verità.
Ma la verità per lui era esclusivamente la sua e non ammetteva rivali di alcun tipo: era una verità morta, come uno stagno le cui acque immobili non possono che imputridire.
Una volta giunto vittorioso in Spagna, il re aveva voluto con sé l'amata figlia Casilda che, pronta all'avventura come ogni giovane, attendeva con ansia quel viaggio verso terre sconosciute di cui aveva solo sentito raccontare.
Il padre aveva fatto costruire per lei un palazzo principesco, ornato di colonnati e ampie sale arricchite da preziosi mosaici, del tutto simile a quello lasciato nella lontana terra di Maometto.
Casilda si era subito invaghita di quel paese, in parte simile al suo ma del tutto diverso nel gioco delle luci e nella dolcezza del territorio. La gente spagnola le entrò presto nel cuore e in breve tempo tutta Toledo parlava della dolce figlia di Zenon.
Incline per natura all'accoglienza, la giovane araba si era contornata di nuovi amici dai quali aveva appreso gli usi e i costumi di quella terra generosa, mentre loro scherzosamente la chiamavano "la principessa curiosa". Con gran rammarico Casilda si era però accorta che il nome di suo padre non suscitava invece alcuna simpatia, anzi incuteva timore e diffidenza.
La giovane s'interrogava sul profondo cambiamento di quell'uomo che lei aveva sempre conosciuto come saggio e amabile e che si era invece trasformato in un acerrimo nemico di tutto ciò che non appartenesse alla loro cultura. Lo ricordava ben diverso quando, nei giardini della loro dimora, le narrava del coraggio ma anche della giustizia di Maometto, mentre le mostrava l'immensità del cielo indicando ogni stella e lodando la magnificenza del creato in cui Allah aveva riversato il suo amore.
Intanto, giorno dopo giorno, le prigioni di Zenon andavano sempre più riempiendosi di cristiani che non volevano rinnegare la loro fede e ormai tutti sussurravano che il palazzo del re fosse un luogo di pene e torture.
Una notte Casilda si svegliò di soprassalto, certa di non aver sognato quei lamenti che giungevano fino a lei, si alzò e ascoltò più attentamente. Le parve allora che le viscere del palazzo prendessero voce in un canto di tristezza e sofferenza che si alternava però a una nenia di dolce rassegnazione.
Quelle note, a volte dissonanti e a volte melodiose, penetrarono profondamente nell'anima della giovane principessa, tanto che da quel momento l'inquietudine s'impadronì di lei rendendola irrequieta e scontrosa.
Casilda si fece attenta a ogni voce di palazzo e, sebbene tutti troncassero certi loro discorsi quando lei arrivava, intuì che nei sotterranei avveniva qualcosa di misterioso e terribile.
Interrogò quindi tutti quelli che le erano più vicini, ma nessuno pareva conoscere quel segreto. Dalle risposte titubanti e dalle espressioni imbarazzate la principessa era però ormai più che certa che suo padre avesse dato ordine di tenerla all'oscuro di qualcosa che accadeva proprio nella loro dimora e questo la rese più che mai decisa a scoprire cosa fosse.
Si recò quindi dagli amici più cari, figli di un nobile spagnolo, e con grande schiettezza raccontò loro ciò che l'angustiava. 
I giovani furono altrettanto sinceri con lei e così Casilda conobbe la penosa vicenda dei cristiani di Toledo.

I suoi stessi amici avevano dovuto tenere nascosto ciò in cui credevano, per non incorrere nelle ire del feroce Zenon, ma ora erano felici di aver condiviso con la giovane amica questo grande segreto. Tanta fiducia in lei la commosse e Casilda, lasciandoli, giurò che mai li avrebbe traditi per nessuna ragione al mondo.
Mentre la carrozza reale la riaccompagnava a palazzo, lei guardava la città con occhi diversi, raffigurandosi la pena di tanta gente costretta alla più terribile delle privazioni, quella della propria libertà di pensiero e di fede.
S'immaginò costretta a rinnegare tutto ciò che le era stato insegnato e in cui credeva fin da quando era bambina e le sembrò che nulla potesse essere più penoso se non perdita della propria amorevole relazione con Allah e il suo profeta. Privata di questo prezioso legame, sentiva che niente di buono sarebbe più uscito da lei.
Conosceva la dottrina di Gesù di Nazareth e anche la vita di quell'essere meraviglioso: perché mai impedire che i suoi seguaci lo amassero e in suo nome vivessero una vita serena? Gesù non aveva che insegnato la pace e il perdono, quindi ciò che il padre stava facendo le parve oltremodo ingiusto.
Giunta alla reggia, volle subito vedere Zenon e, senza tanti preamboli, lo affrontò raccontandogli dei lamenti che la notte giungevano fino a lei e del dolore di quel popolo costretto all'umiliazione di pregare Dio di nascosto. Come mai suo padre era così cambiato e quale atrocità nascondeva quel palazzo?
Alle parole della figlia il re s'infuriò come raramente le era capitato di vedere e giurò che l'avrebbe immediatamente allontanata da Toledo, se si fosse azzardata a toccare nuovamente quell'argomento. Il suo sfogo fu amaro e violento: "Lei non sapeva cosa volesse dire la fatica di una conquista, l'odore del sangue, la vista della morte a ogni battaglia. Il nemico andava sconfitto su ogni fronte, definitivamente, e la privazione dell'anima era uno dei mezzi più efficaci".
Casilda non rispose. Conosceva il padre e sentiva che la sua rabbia era rivolta prima di tutto contro se stesso: il re soffriva perché non sapeva più fermare il suo odio verso la vita che gli aveva fatto gustare il tremendo sapore del potere.
La giovane principessa era in ogni caso fermamente decisa a entrare in campo: la sua nobiltà d'animo e il suo amore per la giustizia non potevano sopportare passivamente una situazione di quel genere. Il Gesù dei cristiani l'avrebbe aiutata e Maometto avrebbe certamente approvato!
Quella notte stessa, complici alcune guardie e dei servi, Casilda riuscì a raggiungere le segrete del palazzo. Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi le parve incredibile: uomini, donne e fanciulli erano ammassati in umide celle sporche e maleodoranti. Il loro aspetto era quasi spettrale e molti cercavano di fasciare con qualche straccio intriso di sangue profonde ferite.
I più giovani si lamentavano per la fame, altri per il dolore, mentre alcuni cercavano di infondere un po' di coraggio fra quei derelitti. C'era però, in mezzo a tutto questo, anche un'onda di coraggiosa resistenza, forte della fiducia nella propria fede e della certezza che l'alchimia divina avrebbe trasformato il loro sacrificio in una preziosa goccia nell'oceano della vita.
La dolce principessa araba fu travolta da una profonda indignazione che scosse tutto il suo essere, risvegliando l'indomito coraggio che scorreva nelle sue vene. Ora sapeva e aveva visto, quella situazione non poteva continuare, a costo della sua stessa vita!
Casilda volle parlare con quella povera gente che le si stava avvicinando, prima titubante e poi sempre più fiduciosa nell'aprire il proprio animo alla giovane che, da parte sua, già li amava come fratelli sfortunati, figli dello stesso Padre che aveva infuso in lei la vita. Cosa importava se i semi erano stati gettati in terreni diversi? Il giardino divino era sconfinato e produceva un'infinita varietà di frutti!
Da quella notte la giovane figlia di Zenon si votò alla causa dei cristiani. Per prima cosa prese accordi con gli amici di Toledo affinché si organizzasse una rete di protezione in grado di impedire nuovi arresti; poi si rivolse agli schiavi e alle guardie reali, sapendo di poter contare sull'aiuto di molti di loro all'interno del palazzo.
La sua decisione era presa: avrebbe curato e sfamato i prigionieri delle segrete, nell'attesa di trovare il momento più opportuno per battersi apertamente in favore della loro liberazione!
Tutto ciò era molto pericoloso sia per lei sia per chi aveva promesso di aiutarla. Il re, infatti, non tardò ad accorgersi che qualcosa d'insolito stava accadendo. Era un uomo furbo e intelligente e non potevano quindi passare inosservati certi sguardi d'intesa, o i bisbigli improvvisamente interrotti al suo arrivo. Zenon decise quindi di stare all'erta e intervenire nel momento più opportuno.
Fra lui e la figlia si era creata una situazione ambigua, fatta in parte di dichiarata ostilità e in parte di lunghe conversazioni, durante le quali ancora si ricreava il dialogo dei tempi passati. Anche i loro cuori parevano ora divisi fra profonde incomprensioni e amorevoli possibilità offerte da entrambi per tentare di riallacciare quel filo che pareva essersi spezzato.
Intanto Casilda aveva comunque tenuto fede alle promesse fatte nelle oscure segrete del palazzo e ogni notte vi si recava con i servi più fidati portando cibo e medicine. Le guardie parevano chiudere un occhio, fingendo di non accorgersi di quel tramestio notturno; d'altronde amavano la giovane principessa e non sarebbero certo state loro a farle del male.
Un giorno finalmente la ragazza decise che era giunto il momento di affrontare il padre in campo aperto e, invece di aggirare il problema come aveva fatto sino a quel momento, lo interrogò direttamente sulla situazione dei cristiani che languivano nelle sue prigioni.
Zenon si trovò completamente spiazzato! Come poteva giustificare il suo comportamento così contrastante con gli insegnamenti nei quali era stata cresciuta la figlia?
Fu come se Casilda avesse in quel momento rappresentato la sua stessa coscienza che gli chiedeva conto di quanto stava facendo e la reazione del re fu terribile. La lite che ne seguì fece tremare tutto il palazzo e ognuno, a modo suo, pregò per la coraggiosa fanciulla. Troncata ogni possibilità di replica, e nell'attesa di decidere come comportarsi con lei, il padre le ordinò di non lasciare le proprie stanze e di non presentarsi più al suo cospetto finché lui l'avesse mandata a chiamare; poi, in preda a una profonda collera, lasciò il palazzo sul suo cavallo e non tornò che a notte fonda. Il re sapeva che la figlia non si sarebbe facilmente sottomessa al suo volere e questo lo rendeva in parte anche orgoglioso di quella fiera creatura, capace di grande tenerezza così come di salda determinazione nel fronteggiare il confronto con ciò che riteneva ingiusto. Egli si proponeva quindi di sorvegliarla per coglierla in fallo e, se non avesse potuto porre altro rimedio, di punirla severamente.
Casilda amava il padre ma aveva nel tempo imparato a temerne la collera. Nonostante ciò, lasciò passare solo quella notte, poi riprese a recarsi nelle segrete con il cibo per i prigionieri. Tutti si erano fatti più guardinghi e ogni cautela per evitare di farsi scoprire da Zenon non sembrava mai eccessiva. Da quando il padre si era fatto più attento ai movimenti nel palazzo, la principessa volle provvedere da sola al cibo per i cristiani e così, come ogni notte, anche quella volta si era alzata nell'ora in cui il sonno si faceva più profondo portando lontano le coscienze. Zenon però non dormiva, ma aspettava di balzare sulla sua preda.
Per poter raggiungere direttamente i sotterranei dalle cucine, Casilda aveva trovato una strada che passava da una piccola porta del giardino nascosta da un profumato roseto rampicante. Quella notte aveva già riempito abbondantemente l'ampio scialle con panini dolci e si stava dirigendo frettolosamente verso il roseto quando, veloce e silenzioso come un felino, il re le si parò davanti. La povera ragazza sussultò per lo spavento e un turbinio di pensieri le offuscò la mente. Nonostante l'oscurità, poté distinguere gli occhi del padre brillare come brace.
«Che strano incontro con mia figlia a quest'ora della notte!» le disse lui, sicuro di aver vinto la sua battaglia contro quell'ostinata ribelle. «Che cosa porti nello scialle, cibo per i nemici di Allah?».
«No, padre» rispose Casilda, a cui le parole uscivano di bocca senza che ormai lei potesse controllarle: «non credo che Allah consideri suoi nemici quelli che invece sono solo tuoi nemici!».
«Spudorata insolente, mostrami subito quello che nascondi!». E così dicendo Zenon strappò dalle mani della figlia i lembi dello scialle, che lasciò cadere a terra il suo carico di... rose profumate.
Sparsi tutt'intorno ai piedi della principessa non c'erano altro che magnifici boccioli di rose.
«Padre mio, non posso stare senza i miei amati fiori, così di notte vengo a raccoglierli per portarli nelle mie stanze e godere durante il giorno del loro profumo e della loro vista; ma, se questo t'inquieta, eviterò di farlo». E con queste parole Casilda, le cui ginocchia per la verità ancora tremavano, ritornò verso il palazzo.
Il re rimase impietrito a fissare i fiori che a loro volta parevano guardarlo. Si chinò e ne raccolse uno tenendolo a lungo nel palmo della mano: era morbido e tiepido come un piccolo cuore.
Da quella notte tutta Toledo tornò a nuova vita. 
I prigionieri di Zenon furono liberati e nessun cristiano fu più perseguitato.
Il re e sua figlia non menzionarono mai la "notte delle rose", ma il loro legame si rinsaldò, com'era stato un tempo quando lui le raccontava quanto fosse meraviglioso e intessuto d'amore il Creato.
Quello che nessuno sa è che quella notte Zenon, tornato nelle sue stanze, fu vinto da un sonno profondissimo e fece questo sogno: si trovava in un intricato labirinto da cui non riusciva a uscire, la sua angoscia aumentava sempre più finché gli parve di sprofondare in un vortice buio. 
Al termine di questo profondo tunnel si trovò in uno spazio senza confini dove in lontananza si poteva a malapena scorgere una figura china su un tavolo. Egli si mise quindi in cammino ma a mano a mano i suoi passi procedevano verso la misteriosa figura questa si allontanava sempre più.
A un tratto si trovò di fronte un muro di rose rampicanti che gli ostruiva il cammino, ne colse una e quella si tramutò all'istante in sua figlia Casilda che lo prese per mano conducendolo ai confini di quello sterminato territorio. 
Qui, in una luce abbagliante, poté riconoscere Gesù di Nazareth intento a scrivere. Zenon si avvicinò, curioso di leggere quello che il giovane palestinese stava scrivendo sulla pergamena, e con suo grande stupore vide fondersi, in un incredibile gioco di luci, le parole Dio e Allah che insieme composero una terza parola: Amore.

- Antica leggenda persiana - 


da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 




Buona giornata a tutti. :-)


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