giovedì 17 aprile 2025
Via Crucis - Paul Claudel
mercoledì 16 aprile 2025
Il martirio di Rabbi Akiva
Decisivo nella vicenda fu quello che avvenne nella notte tra il giovedì e il venerdì della Passione.
martedì 15 aprile 2025
Ernest Hello - Frere Roger Schutz
Qui sul serio impariamo.
Quaggiù l’amore richiama sempre il dolore. Non è possibile amare, amare sul serio, amare totalmente, senza esporsi con questo ai morsi della sofferenza. E, anzi, la misura dell’amore è proprio data dalla disponibilità a patire per chi si ama.
La croce perciò è sì misteriosa conseguenza del male che si annida nei nostri cuori, ma prima ancora è il prodigio dell’amore di Gesù verso il Padre e verso di noi.
Impariamo che cosa voglia dire davvero amare: non vuol dire abbandonarsi a facili svenevolezze e a impegni puramente verbali, non vuol dire cercare il proprio appagamento nel possesso della persona amata; vuol dire essenzialmente donarsi, anche quando la donazione significa rinuncia, fatica, immolazione.
Impariamo che, se diventa espressione dell’amore, perfino la più umiliante delle sofferenze è preziosa, ricca di senso, carica di una grazia che è sempre rinnovatrice.
Impariamo che anche la morte, quando è sperimentata, in conformità con la volontà del Padre, come il punto estremo e più alto della carità, diventa non solo il passaggio obbligato a una condizione più gioiosa e più intensa, ma anche l’inizio, la ragione, la fonte della vittoria della vita.
Non c’è, per la nostra esistenza cristiana, lezione più alta e più rilevante, più difficile e più benefica di questa che ci viene dal Crocifisso.
cardinale Biffi
(Venerdì santo 1990)
Fa' il mio cuore ricco di amore
Fa' il mio cuore come il cuore del Figlio
tuo; così largo e così ricco di amore; che i miei fratelli... che uno almeno,
nella mia vita, venga per questa via, a comprendere che tu lo ami. Dio del mio
Signore Gesù Cristo, che io ti possa trovare nel suo cuore
- Karl Rahner -
Tu sei il silenzio, ed. Queriniana
Buona giornata a tutti :-)
lunedì 14 aprile 2025
Un Cristo senza croce, una croce senza Cristo - Centro Missionario Diocesano, Verona
domenica 13 aprile 2025
Il grande burrone - don Bruno Ferrero
La croce è l'unica via di salvezza per
gli uomini, l'unico ponte che conduce alla vita eterna.
- don Bruno Ferrero -
da: Cerchi nell'Acqua, ElleDiCi
I piedi di Giuda
Carissimi,
è più facile parlare delle labbra di Giuda che dei suoi piedi. Tutto a causa di
quel bacio naturalmente. Un tradimento che suscita reazioni emotive, una
vigliaccata che non lascia estraneo nessuno. Non c’è che dire: quelle di Giuda
sono labbra scomode per tutti. Se non altro perché stanno a ricordarci che
anche noi ci portiamo sulla bocca la possibilità di darlo ogni giorno, un bacio
infame del genere. I suoi piedi invece benché sospesi sul vuoto di un crepaccio
non destano emozioni. Provocano solo ribrezzo. Sembrano il punto fermo di un
discorso che ha finito di coinvolgere l’interlocutore, sono l’epilogo di una
esistenza sbagliata. Il fotogramma finale di una storia infelice, l’estremo
dettaglio di una prova fallita. Eppure quei piedi sono stati lavati da Gesù.
Con la stessa tenerezza usata per Pietro, Giovanni, Giacomo. Sono stati
asciugati dalle sue mani col medesimo trasporto d’amore espresso per tutti. I
piedi di Giuda come i piedi degli altri. Anche se più degli altri per paura o
per imbarazzo hanno vibrato sotto lo scroscio dell’acqua. Gesù se n’è dovuto
accorgere. Tant’è che qualche istante più tardi ha fatto riferimento a quei
piedi: “colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo
calcagno”.
Non importa sapere se il destino finale di Giuda sia stato di salvezza o di perdizione. Sono affari del Signore: l’unico capace di accogliere fino in fondo il mistero della libertà umana e di comporne le scelte, anche le più assurde, nell’oceano della sua misericordia. A noi tocca solo entrare nella logica del servizio, di fronte alla quale non esiste ambiguità di calcagni che possa legittimare il rifiuto o la discriminazione.
Carissimi fratelli, se Giuda è il simbolo di chi nella vita ha sbagliato in
modo pesante, il gesto di Cristo curvo sui suoi piedi ci richiama a rivedere
giudizi e comportamenti nei riguardi di coloro che secondo gli schemi mentali
sono finiti sui binari morti di una esistenza fallimentare. Di chi è finito
fuori strada per colpa propria o per malizia altrui. Di chi ha calpestato i
sentimenti più puri. Di chi ha ripagato la tenerezza con l’ingratitudine. Di
chi ha deviato dalle rotte della fedeltà promessa. Di chi ha infranto le regole
di una amicizia giurata. Di chi ha spezzato i legami di una comunione antica.
Di chi non ce l’ha fatta a seguire Gesù fino al calvario. Di chi dai chiarori
del cenacolo è precipitato nella notte della strada. Di chi non ha avuto
fortuna ed ha abdicato per debolezza o per ingenuità ai progetti della
gioventù. Sui piedi di questi fratelli col divieto assoluto di sollevare lo
sguardo al di sopra dei loro polpacci, noi, i protagonisti di tradimento,
abbiamo l’obbligo di versare l’acqua tiepida della preghiera, dell’accoglienza
e dell’accredito generoso di mille possibilità di ravvedimento. Lavare e
asciugare i piedi di Andrea che se n’è andato con un’altra donna, lasciando
moglie e figli senza far sapere più nulla e ora è disperato. Lavare e asciugare
i piedi di Marisa che ha smesso di studiare, è scappata di casa, si buca sistematicamente,
si è ammalata di AIDS ed ha prostrato la famiglia nella vergogna. Purificati da
un lavacro di amore quei piedi non potranno fare a meno di orientarsi verso la
casa del Padre. Ringraziamo il Signore, perché al cappio della disperazione che
stringe la gola ci fa sostituire il cappio di un asciugamano che stringe i
fianchi col nodo scorsoio della speranza.
Liberamente tratto da uno scritto di don Tonino Bello
venerdì 11 aprile 2025
Guarigione (3) - Anselm Grün
Esigono troppo da se stessi, perché pensano di dover perdonare immediatamente.
Il perdono è sempre un processo che richiede tempo.
Alcune persone non guariscono perché non sanno perdonare.
Finché non riescono a perdonare, rimangono legate a colui che le ha ferite, si lasciano condizionare da lui.
Nella mia esperienza di accompagnamento, incontro continuamente persone che per lunghi anni portano dentro di sé il rancore verso qualcuno.
L’astio divora la loro anima e ruba le loro energie: e abbastanza spesso finiscono anche per ammalarsi.
La riconciliazione con quelli che mi hanno ferito nel corso della mia vita, non è semplicemente una decisione della volontà.
È piuttosto un processo che secondo me avviene in cinque fasi.
Il primo passo richiede che io lasci spazio al dolore.
Non debbo scusare troppo presto colui che mi ha ferito. È del tutto indifferente se l’altro mi ha ferito apposta oppure non poteva fare altrimenti: il fatto è che mi ha fatto soffrire. E questo dolore devo nuovamente percepirlo nella sua realtà.
Mi sono sentito abbandonato, sminuito, preso non seriamente in considerazione.
Il secondo passo consiste nel lasciar spazio alla collera (rabbia).
La collera è la forza di buttare fuori da me colui che mi ha ferito.
Collera non vuol dire mettermi a gridare contro l’altro oppure ferirlo a mia volta. Essa consiste invece nel prendere una sana distanza dall’altro.
Posso dirmi per esempio: non penso più continuamente a lui; gli impedisco di entrare in casa mia, cioè gli proibisco di abitare nel mio intimo, di occuparmi continuamente di lui nei miei pensieri.
Nello stesso tempo devo trasformare in energia questa collera: posso vivere da me stesso; non ho bisogno dell’altro perché la mia vita abbia un esito positivo.
Mi sforzo quindi di capire me stesso: per quale motivo il comportamento dell’altro mi ha fatto soffrire così tanto.
Forse l’altro ha toccato in me un’antica piaga, un posto dove non mi sono ancora riconciliato con me stesso.
Questa riflessione diventa un invito a occuparmi di questa zona così vulnerabile e ad accettare me stesso con questa mia vulnerabilità.
Il quarto passo della riconciliazione con l’altro consiste propriamente nell’atto del perdono. Perdonare significa che mi libero dal legame con l’altro. Lascio che il suo comportamento rimanga in lui e così mi distacco dall’altro. Il perdono è sempre un segno di forza e non di debolezza.
Rinuncio a girare continuamente attorno alle mie ferite. Se queste sono però troppo profonde, non riesco ancora a incontrarmi con l’altro, nonostante il mio perdono.
Devo allora accettare i miei limiti. Ho perdonato all’altro, ma non sono ancora capace di costruire con lui un rapporto normale.
Molti psicologi hanno sperimentato, tra le altre cose, che il perdono è un atto terapeutico, che rende possibile la guarigione delle proprie piaghe e ci libera dal rimuginare continuamente il nostro passato.
Il perdono ci rende capaci di impegnarci nel momento presente con tutto il nostro essere.
Ildegarda di Bingen sostiene che la riuscita della vita dipende dal fatto che le nostre piaghe vengano trasformate in perle.
Se compissi soltanto i primi quattro passi, avrei sempre la sensazione di subire un danno, poiché ero stato ferito in modo veramente grave.
Il quinto passo mi mostra che nelle mie ferite si trova un tesoro prezioso.
Là dove mi hanno ferito sono crollate le mie maschere e ho potuto mettermi in contatto col mio vero Sé.
Le piaghe mi fanno sentire vivo, mantengono sveglia in me la nostalgia di Dio e mi aprono verso le persone con le loro ferite.
Dato che io stesso sono stato ferito, posso meglio comprendere le altre persone con le loro piaghe.
Molti terapeuti e pastori d’anime hanno trasformato le loro piaghe in perle. Gli antichi greci sapevano già che solo il medico ferito poteva veramente guarire. Se le mie piaghe vengono trasformate in perle, non porto più rancore contro quelli che mi hanno ferito.
Allora il perdono non è soltanto qualcosa di passivo, ma rende possibile la scoperta delle mie energie e mi dà fiducia di imprimere in questo mondo la traccia inconfondibile e del tutto personale della mia vita.
Questi cinque passi della riconciliazione con l’altro si possono percorrere senza parlare con l’altro. Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro. È sempre necessaria tuttavia la prudenza nel giudicare se il dialogo con l’altro sia veramente opportuno. Se dico a dei genitori anziani che mi hanno ferito, li metterò in confusione e pretenderei troppo da loro.
Il processo della riconciliazione avviene dentro di me.
Spesso è bene parlarne con una terza persona, ad esempio nell’accompagnamento pastorale o in una analisi terapeutica.
Se si tratta di ferite attuali, devo decidere se per me è meglio segnalare all’altro che mi ha ferito, oppure se posso perdonargli interiormente.
Se dico all’altro che mi ha ferito, ciò non deve essere in alcun modo una rimostranza, bensì un’informazione, affinché sappia come il suo comportamento si riflette su di me.
Un’altra questione è se devo dire all’altro che lo si perdona.
Il direttore di una fabbrica mi raccontava di avere un conflitto con la sua segretaria.
Durante la discussione, la donna disse: «Le perdono in nome di Gesù». Per il direttore fu come uno schiaffo in faccia. Infatti in questa frase risuonava implicitamente: «Tu sei colpevole. Sei un tipo cattivo, ma io sono una persona spirituale e di animo generoso e ti perdono». Per l’altro, simili dichiarazioni di perdono sono un’accusa. Non producono alcuna riconciliazione, bensì rendono il disaccordo più profondo.
Quando l’altro non accoglie il nostro perdono, abbiamo sempre la sensazione di essere persone migliori di lui.
Nel monachesimo dei primi secoli cristiani, si racconta la storia di un monaco che andò dal suo vecchio padre spirituale lagnandosi che suo fratello non aveva accettato il suo perdono. Allora il vecchio abate gli rispose: «Guarda bene dal non metterti al di sopra di tuo fratello. Immagina di aver peccato contro di lui e va così da tuo fratello».
Quando il monaco andò dal fratello con questo atteggiamento, fu il fratello che gli andò incontro e i due si abbracciarono. Certamente il fratello si era accorto del cambiamento avvenuto nel monaco. Il nostro perdono potrà giungere fino all’altro solo quando è inteso sinceramente e riusciamo a scorgere anche la nostra parte di colpa.
- Anselm Grün -