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lunedì 9 agosto 2021

Il Salvatore - Herman Hesse

Sempre rinasce come uomo,
parla ai pii, parla ai sordi,
ci è vicino, e di nuovo lo perdiamo.

Si deve rialzare da solo,
deve farsi carico dei bisogni e dei desideri dei fratelli,
di nuovo viene crocifisso.


Dio si annuncerà nuovamente,
il divino sfocerà nella valle dei peccati,
lo spirito eterno sfocerà nella carne.

Di nuovo, anche ai giorni nostri,
il Salvatore è in cammino per benedire,
per incontrare le nostre paure, le lacrime,
le lacrime, le suppliche, i lamenti con lo sguardo tranquillo
che non osiamo incontrare,
perché solo i bambini lo possono sopportare.


- Herman Hesse -





Anche se ciascuno di noi ha una sua propria visione della salvezza del mondo, per tutti è importante ed essenziale sopra ogni cosa l'idea della salvezza attraverso l'amore.

- Herman Hesse - 


Dipinto: Vladimir Volegov


E' tanto bello appartenere a una donna, darsi a lei, non è la stessa cosa che tu chiami "essere innamorati", e che un pochino schernirsi. Non è da schernire. Per me è la via che conduce alla vita, al senso della vita. 

- Hermann Hesse - 




Buona giornata a tutti :-)

martedì 1 giugno 2021

L’esorcismo di Anneliese Michel, La vera storia di Emily Rose

Anneliese Michel (Leiblfing, 21 settembre 1952 – Klingenberg am Main, 1° luglio 1976) è stata una donna tedesca che si riteneva posseduta e si sottopose al rito di esorcismo. Alla sua drammatica vicenda si sono ispirate opere letterarie e cinematografiche, tra cui The Exorcism of Emily Rose diretto da Scott Derrickson e "Requiem" di Hans-Christian Schmid.



Biografia

Cresciuta in una piccola città della Baviera, in una famiglia cattolica di ceto medio-basso, nel 1968 Anneliese iniziò a soffrire di convulsioni le quali la tormentarono durante gli anni della scuola superiore. All'inizio si sottopose a visite mediche e le fu diagnosticata una forma di epilessia; le furono prescritti medicinali per curare sia l'epilessia che le convulsioni. Nonostante le cure mediche Anneliese sosteneva di vedere volti demoniaci in tutte le persone che la circondavano.

Primi sintomi

Tra i primi sintomi accusati dalla giovane c'erano paralisi degli arti, uno smisurato accrescimento del torace, rigidità improvvisa del corpo e l'impossibilità di parlare. Fu tuttavia in grado di tornare alle superiori e conseguire il diploma e di iscriversi, nel settembre 1973 all'università di Würzburg per realizzare il suo sogno di diventare una maestra elementare.

Quando le sue preghiere non l'aiutarono più a sopportare ciò che le succedeva, Annaliese si rivolse alla Chiesa, convinta di essere posseduta dal maligno, ma, in un primo tempo, la Chiesa non le concesse l'esorcismo invitandola a diventare più devota.


Le condizioni fisiche e psichiche di Anne peggiorarono, iniziò ad automutilarsi, mordere i membri della propria famiglia, mangiare insetti di vario genere sino a staccare e ingurgitare la testa di un uccello morto.

Inoltre si strappava i vestiti di dosso, guaiva come i cani per giorni sino a urinare sul pavimento e leccarlo. Convintasi che ciò che le accadeva fosse colpa del proprio peccato e di quelli che le stavano vicino, Anneliese prese a dormire su un pavimento di pietra come penitenza. Allo stesso tempo nei momenti in cui si riteneva posseduta distruggeva qualsiasi simbolo religioso le capitasse a tiro (crocifissi, quadri, rosari).



Durante la degenza nell'ospedale, i continui attacchi della ragazza convinsero i medici a riempirla di tranquillanti per farla stare calma e costringerla all'alimentazione forzata.

Esorcismo

Dopo ben cinque anni di lotta e ricerca i genitori iniziarono la ricerca di numerosi preti che potessero praticarle un esorcismo. Intanto Anne non aveva mai smesso di prendere i medicinali prescritti. Perché l'esorcismo potesse esser ordinato, la Chiesa aveva bisogno di verificare la reale possessione della ragazza. Dopo averla ufficialmente dichiarata posseduta nel settembre 1975, il vescovo Josef Stangl scelse come esorcisti il pastore Ernst Alt e padre Arnold Renz. Secondo i due esorcisti si manifestarono sette demoni tra cui Lucifero, Giuda, Legione e Belial. L'esorcismo andò avanti per quasi 10 mesi dal settembre '75 a giugno '76. Durante le varie sedute furono fatte parecchie foto e venne registrato un nastro di circa un'ora e mezza di durata in cui si sente Anneliese parlare con voci demoniache, in più lingue (oltre il tedesco, lingua madre, parlò in latino, greco, aramaico e altre lingue morte) molte volte sdoppiando la voce in due ben distinte. 


Durante questo periodo Anne perse molto peso perché si rifiutava di mangiare e bere a causa dei "demoni che glielo impedivano"; questo portò a un indebolimento e alla debilitazione del suo corpo, martoriato dalle proprie lesioni autoinflitte. Inoltre nei momenti di lucidità Anneliese non faceva altro che pregare e le continue genuflessioni le causarono la rottura di entrambe le ginocchia. Durante il rito di esorcismo Anneliese mostrava una forza impressionante, tanto che, in alcune sedute, per tenerla ci vollero parecchi uomini forti. Il rito avveniva generalmente tre volte a settimana.

La missione di salvezza

Anneliese scrisse delle lettere ai suoi esorcisti chiedendo la fine del rito e rivelando di aver avuto un incontro con la Vergine Maria che la mise davanti ad una scelta: esser liberata dai demoni e trovare la pace eterna subito, o continuare a subire la possessione subendo tutto il potere dei demoni per poter salvare il mondo e le anime di tutti. Anne scelse di rimanere posseduta per la salvezza del mondo interrompendo la pratica di esorcismo. Pronta a morire in "grazia" predisse la data della sua morte.

Morte e conseguenze
A mezzanotte del 1° luglio 1976 Anneliese, come aveva predetto nelle sue lettere, morì a soli 24 anni. Prima di morire chiese al prete di pregare per lei, le ultime parole andarono alla madre alla quale chiese scusa. 

L'autopsia rilevò come causa della morte la forte debilitazione causate dal malnutrimento e dal disidratamento (al momento della morte pesava solo 30 kg). Secondo gli agenti che svolsero le indagini e i medici che passarono al vaglio il caso, un'alimentazione forzata (tramite flebo) avrebbe potuto salvare la vita della giovane. 

I genitori, il prete e il pastore furono tutti indagati per omicidio colposo. Il processo iniziato a marzo 1978 si concluse con il riconoscimento da parte della giuria della colpa di negligenza e omicidio colposo a carico dei due chierici e dei genitori che furono condannati a 6 mesi di reclusione con la condizionale da considerare già scontati.

Una commissione di vescovi chiese espressamente al Vaticano di abolire il rito romano dell'esorcismo, ma la Chiesa si limitò a introdurre un nuovo rito nel 1998 chiamato De exorcismis et supplicationibus quibusdam.

Prima dell'inizio del processo i genitori chiesero di riesumare il corpo della figlia, sepolto in un cimitero dove vi sono sepolti figli illegittimi, vittime di suicidi o persone considerate gravi peccatori (assassini). 
La riesumazione venne chiesta soprattutto in seguito a una lettera che una suora carmelitana mandò ai genitori, parlando loro di una visione in cui il corpo della figlia, a distanza di quasi due anni dalla morte, non si era deteriorato (è da considerare che in quel periodo non tutti potevano permettersi bare con interno zincato dove il deterioramento avveniva più lentamente). 

Nonostante la salma sia stata riesumata non esiste nessuna foto pubblica del corpo che venne definito "decomposto come qualsiasi altro corpo".

Attualmente la tomba di Anneliese è stata spostata vicino alla sua casa natale ed è continua meta di pellegrinaggio. La chiesa cattolica dopo la morte istituì una commissione di inchiesta che definì la ragazza non posseduta, ma attualmente la posizione ufficiale è favorevole all'ipotesi della possessione.

Fede contro scienza

Ciò che portò Anneliese a credere di esser posseduta fu quasi certamente la sua forte religiosità. Nata e cresciuta in una famiglia cattolica, quando Anneliese aveva solo 4 anni sua madre partorì una figlia illegittima (morta a 8 anni in seguito ad un'operazione). Probabilmente Anneliese si sentiva in dovere di espiare anche le colpe della madre, che secondo la tradizione cattolica aveva fatto uno tra i peggiori dei peccati.
Dopo i primi attacchi di convulsioni e le prime visite mediche le fu diagnosticata un'epilessia del lobo temporale che, secondo i medici, le provocava sia le convulsioni che le visioni. È inoltre assodato dalla medicina che alcuni farmaci, soprattutto quelli usati nel passato che agiscono direttamente sul cervello, possono provocare allucinazioni in certi pazienti: questo e la psicosi che secondo i medici affliggeva la giovane ragazza furono la spiegazione di ciò che Anneliese vedeva, delle sue possessioni.
Il processo che seguì la morte vide ancora una volta uno scontro tra fede e scienza: l'accusa di omicidio colposo per i quali saranno riconosciuti colpevoli i due preti e i genitori della ragazza, viene giustificata dalla decisione di questi e della ragazza di abbandonare la medicina tradizionale per usare rimedi alternativi. Tale scelta fu presa dalla ragazza in accordo con i genitori e i sacerdoti in quanto la cura medica non si era rilevata efficace e le sue condizioni e i suoi sintomi peggioravano col tempo. 

Se, quindi, durante l'esorcismo la ragazza avesse continuato la cura e le fosse stata imposta l'alimentazione forzata tramite flebo (come già avvenne in passato quando fu ricoverata in ospedale), secondo l'accusa si sarebbe salvata o, in caso di morte, i genitori e i sacerdoti non sarebbero potuti esser considerati negligenti.


«Quando sento dire, Dio è buono, ci perdonerà; e in­tanto si continua a fare il male, quanta tristezza provo per quelle povere anime che ignorano cosa le attende nell'eternità!»

Santa Caterina da Genova



L'Esorcismo guarisce dai vizi che potremmo dire “diabolici”, tanto è grave la loro malizia ed il danno che fanno. Pensiamo soprattutto ai vizi spirituali dell’empietà, della superbia, dell’orgoglio, dell’ipocrisia, della frode, della crudeltà, dell’odio feroce e prolungato, della vendetta inesorabile e calcolata, vizi la cui attuazione suppone notevoli doti di intelligenza, abile capacità di fingere, sottile astuzia, freddo calcolo, determinazione nelle scelte, ostinazione della volontà, abile organizzazione dell’azione, qualità spirituali quindi risiedono sostanzialmente nello spirito, anche se poi si valgono dell’uso dei mezzi materiali. Pensiamo alla diabolica organizzazione dello sterminio nazista degli ebrei o alle stragi staliniste o ai genocidi compiuti negli anni passati in Africa o nei Balcani. 
Ora ricordiamoci che il demonio è appunto un puro spirito. Un’importante azione esorcistica in questo senso lato, ma in fin dei conti decisivo, è la confutazione di quelle che la Prima Lettera a Timoteo chiama “dottrine diaboliche”(4,1). 
Possiamo pensare alle dottrine che turbano e scandalizzano i fedeli inducendoli a peccare, possiamo pensare alle eresie ed alle dottrine che fanno perdere la fede. Qui i grandi esorcisti sono i pastori, gli educatori, i catechisti, i missionari. Possiamo pensare in modo speciale ai Frati Predicatori, ai Domenicani, che hanno ricevuto dalla Chiesa un mandato speciale di fugare le tenebre dell’errore e diffondere la luce della verità in vista della salvezza delle anime e della gloria di Dio. 

(Mons. Andrea Gemma)




Indulgenza Plenaria per l'Assoluzione 

O mio Gesù, Tu sei la luce della Terra,
Tu sei la fiamma che tocca tutte le anime.
La tua misericordia
e il Tuo amore non conoscono limiti.
Noi non siamo degni del sacrificio
che hai fatto con la Tua morte sulla croce.
Eppure sappiamo che il Tuo amore per noi
è più grande dell'amore che abbiamo per te.
Donaci Signore il dono dell'umiltà
in modo da essere meritevoli del Tuo Nuovo Regno.
Riempici di Spirito Santo,
in modo da poter marciare avanti
e condurre il tuo esercito per proclamare,
la verità della Tua Parola Santa
e preparare i nostri fratelli e sorelle
per la Gloria della Tua Seconda Venuta sulla Terra.
Noi ti onoriamo,
noi Ti lodiamo,
Ti offriamo i nostri dolori,
le nostre sofferenze
come un dono per te per salvare le anime.
Ti amiamo Gesù.
Abbi pietà di tutti i Tuoi figli,
ovunque essi si trovino.
Amen



Buona giornata a tutti. :-)


sabato 3 ottobre 2020

San Luigi Orione e il matricida

«La misericordia dì Dio è più grande del cielo, è più grande del mare; la misericordia di Dio è più grande dei nostri peccati. 
Tanti anni fa, predicavo le missioni a Castelnuovo Scrivia. Castelnuovo si può dire che è stato il mio campo di battaglia: spesso vi predìcai per feste, novene, quaresìmali e vi feci pa­recchie missioni, tanto che ero chiamato "il predicato­re". Allora ero più giovane e forte: facevo quattro prediche al giorno e alla sera confessavo per ore e ore. E la gente mi voleva bene, e anche adesso ci vo­gliamo bene; quelli di allora sono morti ma, forse per il ricordo del po' di bene che là si è fatto, ora ci ri­cordano ancora volentieri.
A Castelnuovo mi avvenne, dunque, questo fatto. Era arrivata l'ultima sera di predicazione, che finiva per la festa dell'Immacolata. 
Avevo parlato, quella sera, sulla confessione: la chiesa, che è più grande del duomo di Tortona, lunga uguale ma più larga, era piena: tutta una testa. Durante la predica, non so neppur io come, o senza che me ne fossi accorto, perché non avevo mai pensato ad una simile cosa, mi uscì una espressione alla quale non avevo prima ri­flettuto. 
Dissi: "Se anche qualcuno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre e l'avesse così fatta morire, se è veramente pentito e se ne confessa, Dio, nella sua infinita misericordia, è disposto a per­donargli il suo peccato...".
Finita la predica, mi fermai a confessare fino a mezzanotte; poi andai in sacrestia e là c'era altra gen­te che voleva confessarsi; c'erano altri confessori, ma tutti volevano confessarsi da me, sapevano che avevo la manica larga..., e poi perché tanti amano confessar­si da un forestiero: dal parroco o dal curato, che li conoscono, non vanno a dire certi peccati... 
Al matti­no c'era già stata la comunione quasi generale, ma alla sera, dopo la benedizione col crocifisso, ritornan­do in sacrestia, il predicatore trovò che ancora c'era­no tanti uomini che, toccati dalla grazia di Dio, dal­l'ultima predica, si volevano confessare. Sicché finii di confessare molto tardi. Dovevo tornare a Tortona perché avevo da insegnare, da far scuola: in quel tempo facevo scuola d'italiano ai nostri ragazzi. Ben­ché stanco, mi avviai sulla strada che da Castelnuovo Scrivia viene a Tortona.
Il tempo era pessimo: si era d'inverno e c'era al­l'intorno tutto coperto di neve, la neve era alta, anzi nevicava. 
Io m'incamminai, a piedi, si capisce.... a quell'ora non c'era più il tram; ed io del resto facevo spesso quei nove-dieci chilometri a piedi. Avvolto nel mio mantello, uscii dal paese senza che si vedesse anima viva: erano tutti a letto, era notte alta, ero solo sulla strada. 
Ed ecco che, fuori dal paese, vedo muo­versi davanti a me un'ombra nera, che si avvicinava verso il mio sentiero, da in mezzo al bianco della neve. 
Era l'una dopo la mezzanotte. Era un uomo ammantellato, avvolto in un tabarro, con il cappello calcato sulla testa: camminava anche lui verso Tortona, ma in un modo che sembrava aspettasse qualcuno. Ogni tanto si voltava indietro e mi accorsi che l'aspettato ero io.
"Basta, chissà che cosa mi va a capitare, che cosa vorrà!?". Pensai che fosse un cascinaio che tornava a casa dalla chiesa. "Vorrà forse derubarmi...: che cosa mi può prendere?..." 
Soldi veramente non ne avevo, perché andavo alla leggera...; se facevo la strada a piedi, era perché non avevo cinque lire per una carrozzella, oppure volevo risparmiarle per comperare il pane ai miei ragazzi: certo ne avevo pochi...; avevo al più alcune lire: tutt'al più gli avrei dato quelle. Tuttavia un certo timore l'avevo... Vi ricordate don Abbondio, quando incontrò i bravi? Anch'io feci l'esame di coscienza per vedere se avessi peccato contro qualcuno: dei peccati ne trovai, ma non di quelli che chiamassero vendetta dagli uomini. Come fare? Case, allora, in quel tratto di strada, non ce n'erano; ora vi sono, ma furono fabbricate dopo.
In breve, perché camminavo svelto, raggiunsi l'uo­mo e, passandogli accanto, gli diedi la buona notte, pieno però di paura nel cuore, temendo che quel viandante fosse un poco di buono. 
Lo salutai per pri­mo: "Buona notte, brav'uomo!".
Qualche momento dopo, però, mi sentii chiamare; mi voltai e quello disse: "Reverendo, vorrei dirle una parola...". "Siete anche voi di viaggio? Andate a Tortona?...", dissi subito anch'io. "Veramente no ...". "Allora aspettate qualcuno forse? Avete forse bisogno di qualche cosa?". "Veramente sì ...". Aveva detto due volte "veramente". Veramente no, veramente sì. "Ci siamo", pensai. "Senta, mi disse finalmente, lei è don Orione? è lei il predicatore? quello che ha predicato in chiesa stasera?", "Sì, brav'uomo...". 
L'avevo chia­mato, capite, per la seconda volta, brav'uomo.
Egli continuò: "Io ho sentito la sua ultima predica: lei questa sera ha detto una parola...". "Che parola?". "Lei stasera ha parlato della confessione, della mise­ricordia di Dio...". "Sì...". "Ecco, vorrei sapere se quello che ha detto questa sera è proprio vero". "Ma sicuro! Credo di non aver detto nulla che non si trovi nel Vangelo. Io ho detto che il sacramento della con­fessione è stato istituito da Gesù Cristo; che dopo la sua resurrezione ha soffiato sugli apostoli dicendo: Ricevete lo Spirito Santo: a coloro ai quali rimettere­te i peccati, saranno rimessi...".
Io pensavo che egli volesse sapere se fosse vero che la confessione è stata istituita da Nostro Signore. "No, questo; non è questo che voglio sapere...". "Che cosa allora?". 
"Io ero alla predica... Ma lei crede pro­prio a quello che predica, che ha detto?". "Quello che predico, risposi, lo credo e, se non lo credessi, non lo predicherei". "Vorrei sapere, insistette l'altro, se è proprio vero che, se anche uno avesse messo il veleno nella scodella di sua madre, potrebbe essere ancora perdonato del suo grande peccato...". 
Però non mi ricordavo proprio di aver detto quelle parole; tut­tavia gli dissi: "Ma sì che è vero! Basta che sia vera­mente pentito, domandi perdono al Signore e si con­fessi; qualunque peccato, per quanto grosso sia, sarà perdonato; se è pentito, ci sarebbe per lui misericor­dia e perdono...". "Allora, disse, io sono proprio quel­lo che ha messo il veleno nella scodella di mia ma­dre: vi era discordia fra mia moglie e mia madre, ed io ho ucciso mia madre... Posso ottenere perdono? ...". E si mise a piangere.
Mi raccontò la sua storia, e poi mi si gettò ai pie­di: "Padre, mi confessi, mi confessi: io sono proprio quello della scodella...". Poi soggiunse: "Da quel momento non ho avuto più pace. Sono tanti anni...". 
Pensate che quell'uomo aveva potuto portare sem­pre con sé il suo terribile segreto; la giustizia umana nulla sapeva; nessuno aveva mai dubitato di nulla su di lui, ma il rimorso c'era... Era già di età. Quanto dico me lo disse fuori di confessione: nessuno potrà mai individuare quella persona, che credo sarà morta. 
"Ebbene, gli dissi subito, confortandolo, per l'autorità ricevuta da Dio, io vi posso rimettere questo peccato. È tanto tempo che non vi confessate?". "Da allora non mi sono più confessato". "Venite qua".
Mi avvicinai ad un paracarro, levai il cappello di neve che c'era sopra: anche per terra spazzai un po' di neve e dissi sedendomi sul paracarro: "Venite qua, confessate tutte le vostre colpe dall'età della ragione fino ad ora, confessate anche quel peccato di aver messo il veleno nella scodella di vostra madre".
Si inginocchiò e poi si confessò piangendo e gli diedi l'assoluzione; poi si alzò e mi abbracciava e stringeva, sempre piangendo, e non sapeva staccarsi da me, tanta era la consolazione da cui era inondato... Anch'io piansi e lo baciai in fronte e le mie lacrime si confondevano con le sue... 
Volle accompagnarmi fino quasi a Tortona e, solo per le mie insistenze, tornò finalmente indietro, ed io continuai la mia stra­da con una grande consolazione, con una gioia nel cuore che mai uguale provai nella mia vita. Io non so di dove fosse, se del paese o delle cascine; veniva alla predica molta gente anche dalle cascine.
Di lui non seppi più nulla. Arrivai a Tortona tutto bagnato; quella notte mi levai le scarpe e mi gettai sul letto, e sognai... 
Che cosa sognai?... Sognai il cuore di Gesù Cristo; sentii il cuore di Dio, quanto è grande la misericordia di Dio...»

- San Luigi Orione -



Quando la Chiesa ci invita a pregare, essa intende che si preghi per le Anime del Purgatorio, affinché noi con le nostre preghiere, affrettiamo la liberazione di esse Anime, che sono prigioniere, e perché possiamo affrettare la loro gloria. 


- Don Luigi Orione -




Donaci, Gesù, la forza di mettere da parte l'orgoglio e ristabilire prontamente la comunione ogni volta che qualche incomprensione, parola, ferita, insinua la tagliente e dolorosa lama della divisione nella nostra anima. 
Aiutaci, Gesù, a perdonare subito il torto che crediamo di aver ricevuto e a farci perdonare quello che certamente abbiamo fatto, per non permettere al rancore di avvelenare il nostro cuore. 
Rendici, Gesù, strumenti di comunione là dove siamo stati tentati dalla divisione. 
Consentici, Gesù, di essere piccoli strumenti della Tua misericordia.
Insegnaci, Gesù, ad essere perfetti nella comunione in Tuo nome.
Amen.





Buona giornata a tutti.:-)

www.leggoerifletto.it

lunedì 29 giugno 2020

Salute, guarigione, salvezza: Guarigione come riconciliazione - Anselm Grün

Introduzione

Molte persone si ammalano perché hanno dentro di sé qualcosa che si è spaccato. La spaccatura si ripercuote spesso sul corpo. 
Essere sano significa essere intatto, integro, essere pacificato con tutto quello che c’è in me. Ci sono forme di spiritualità, nel passato come pure nel presente, che ci fanno ammalare. 
Chi si identifica con ideali elevati, corre sempre il pericolo di lasciar da parte la propria realtà. 
Ciò che non si vuole ammettere in se stessi viene rimosso o represso. 
Ma non possiamo rimuovere la nostra realtà impunemente: essa si ripercuoterà negativamente sull’anima, oppure si riverserà sul corpo come malattia.
Nella Bibbia la guarigione avviene allorquando Gesù tocca i malati. Questi devono mettere davanti a Cristo la loro vera situazione, affinché la sua forza sanante possa scorrere sulle loro ferite e le possa trasformare. Gesù non è un mago divino che fa sparire d’incanto le nostre malattie. Solo quando ci mettiamo di fronte alla nostra realtà, ci rendiamo conto delle ferite che sono in noi e le presentiamo coscientemente a Cristo, solo allora la guarigione è possibile. Una via di guarigione è mettersi di fronte alle nostre ferite; l’altra via consiste nel fare pace con noi stessi. Questa pacificazione non è un’autoguarigione, ma è piuttosto una risposta alla fiducia di essere accolti da Dio incondizionatamente. 
In questo articolo vorrei prendere in considerazione la seconda via di guarigione: la riconciliazione con me stesso, con Dio e con gli altri.

1. Il concetto di riconciliazione
Riconciliazione è un concetto centrale nella teologia di san Paolo. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, Paolo afferma che Dio «ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18). Paolo parte dalla premessa che gli uomini si sono alienati da se stessi e in tal modo hanno perduto anche il contatto con Dio. In Gesù Cristo, Dio ha preso l’iniziativa e nella sua morte in croce ha colmato l’abisso che separava gli uomini da Dio e da se stessi. In Gesù, Dio si è avvicinato agli uomini ed è giunto fino all’ultima solitudine e abbandono. Là, sulla croce, ha tolto via la più profonda alienazione dell’uomo con se stesso e con Dio. La riconciliazione è dunque un agire di Dio su di noi. Ma tocca a noi rispondere a questa azione di Dio, dicendo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). È necessario che noi stessi collaboriamo, affinché in noi possa compiersi la riconciliazione.
La parola latina reconciliatio significa originariamente il ristabilimento di amicizia, una rappacificazione. Il verbo corrispondente reconciliare significa: rimettere in ordine, ristabilire, unire nuovamente, rendere di nuovo sano, rappacificare. Il significato originario intende dunque far capire che Cristo, mediante la sua morte in croce ha ricondotto gli uomini all’amicizia con Dio, dal quale si erano allontanati. 
Riconciliazione significa quindi anche che sappiamo trattare noi stessi in modo amichevole, che consideriamo nostro amico tutto ciò che è in noi. Molti esseri umani non hanno una relazione né con Dio, né con se stessi. La riconciliazione significa che finalmente riescono a prendere contatto con se stessi e solo allora diventano capaci anche di entrare in relazione con gli altri e con Dio.



2. Riconciliazione con se stessi
Il primo e nello stesso tempo il più difficile compito della nostra «umanizzazione» consiste nel riconciliarci con noi stessi. 
La condizione per realizzare questo compito è la fiducia di essere accolti da Dio incondizionatamente. 
La pacificazione con me stesso ha diversi aspetti. Anzitutto mi devo rappacificare con la storia della mia vita. 
Sono diventato così come sono. 
Non posso far sì che la mia nascita ritorni nuovamente al punto di partenza. Non posso far finta che le mie ferite non siano avvenute. 
Far la pace con se stessi significa dire di sì alle ferite e alle offese che abbiamo ricevuto nel corso della vita. 
Molte persone rimangono per tutta la vita dei querelanti. Accusano i genitori di averli feriti. Rifiutano di prendersi la responsabilità della propria vita. Ma in questo modo non riescono mai a trovare la pace con se stessi. Preferiscono soffrire invece di rappacificarsi con se stessi e con la storia della propria vita.
Fa parte della riconciliazione con la propria storia di vita anche la riconciliazione con il proprio corpo, così come esso è diventato. 
Incontro molti cristiani che mi assicurano di sentirsi bene accolti da Dio, ma questa fede nell’accettazione da parte di Dio non va tanto in profondità nel loro cuore, così che possano accogliere se stessi anche nel proprio corpo. 
Sono così fortemente condizionati dalle immagini esterne di come dovrebbe essere il loro corpo, che respingono se stessi come sono realmente cresciuti. Non riescono ad accettare il proprio volto, perché sarebbe troppo banale, non abbastanza bello, non corrisponde ai canoni attuali della bellezza. 
Si arrabbiano perché sono troppo grassi, tentano di nascondere le gambe e preferirebbero non mostrarsi mai così come sono. 
Talvolta questo odio verso il proprio corpo si manifesta nell’anoressia o nella bulimia. 
Ildegarda di Bingen sostiene che l’anima dovrebbe rallegrarsi di abitare nel nostro corpo. Ma molti cristiani non hanno interiorizzato questo atteggiamento di santa Ildegarda. Si vergognano – come si racconta del filosofo greco Plotino – di essere nel loro corpo. Ci vuole un amore umile per il proprio corpo. Devo coscientemente accettarlo volentieri, affinché la mia anima vi si senta a suo agio.

Un altro aspetto della riconciliazione con se stessi esige la pacificazione con i propri lati oscuri. Lo psicoterapeuta svizzero Karl Gustav Jung ha coniato il concetto di «ombra». Intende con ciò tutto quello che abbiamo escluso dalla nostra sfera cosciente. Jung concepisce la persona umana come un essere «polarizzato». 
Abbiamo sempre due poli: amore e aggressività, ragione e sentimento, disciplina e indisciplina, virilità e femminilità. Ogni volta che accentuiamo troppo uno dei poli, l’altro cade nell’ombra e di là agisce distruttivamente sulla nostra vita. Quando reprimiamo i nostri sentimenti, spesso finiscono per esternarsi in un sentimentalismo, in cui siamo sopraffatti dalle emozioni e non sappiamo più come trattare con esse. 
San Benedetto esige dal monaco l’umiltà, humilitas. Questa virtù consiste nel discendere nel regno delle nostre ombre, nell’accettare la condizione terrena e nel pacificarsi con i nostri lati oscuri. Tale pacificazione non significa semplicemente lasciarli sfogare. 
Devo soltanto prenderli sul serio: vogliono che si presti loro attenzione e allora sono soddisfatti. Invece quanto più li si combatte, tanto più intervengono in modo sgradevole, spesso in reazioni spropositate oppure in sogni che procurano ansia.
Ancora più difficile è riconciliarsi con le nostre colpe. Possiamo perdonarci solo perché Dio ci ha perdonato. Ma è necessario far scorrere la fede nel perdono divino anche in tutti i sensi di colpa e i rimproveri che ci facciamo per i nostri sbagli. Molti affermano di credere nel perdono da parte di Dio, ma continuano a rinfacciarsi di aver fatto questo o quell’errore. Non riescono a perdonare se stessi per il fatto di aver commesso certe colpe. Spesso i sensi di colpa li dilaniano anche su cose di cui non hanno colpa alcuna. Una donna continuava a rimuginare sensi di colpa per il fatto di non essere stata presente nell’istante in cui la madre era morta, benché per molti anni si fosse presa cura di lei. Far pace con le proprie colpe e con i sensi di colpa richiede che mi distacchi dall’illusione di poter andare in giro per tutta la vita con una veste candida. Che lo voglia o no, mi macchio di qualche colpa. Dobbiamo per forza ricorrere al perdono di Dio, per poter perdonare a noi stessi. Ma spesso in noi c’è un giudice spietato, il nostro Super-io, che continuamente ci giudica quando non obbediamo alle norme che abbiamo appreso dai nostri genitori. Riconciliazione significa gettare giù dal trono questo giudice spietato e credere alla misericordia di Dio. Su questo punto ci può aiutare la meditazione sulle parole della Prima Lettera di Giovanni: «Se anche il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,20).
La riconciliazione con me stesso non avviene mai una volta per sempre. È un processo che dura per tutta la vita: in me scopro continuamente aspetti che non posso accettare bene. Quindi sono di nuovo sfidato a dire di sì a quello che vorrei ben volentieri far finta di non vedere. Si richiede una grande umiltà per guardare i propri lati oscuri e metterli davanti a Dio, perché disturbano l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti e perché ci mettono a confronto con la nostra vera realtà. Ma è la verità che ci farà liberi, come Gesù ci ha già promesso (Gv 8,32).


3. Riconciliazione con gli altri
Solo chi è riconciliato con se stesso è capace di riconciliarsi anche con gli altri. Molti incontrano grosse difficoltà nel perdonare gli altri. Esigono troppo da se stessi, perché pensano di dover perdonare immediatamente. Il perdono è sempre un processo che richiede tempo. Alcune persone non guariscono perché non sanno perdonare. Finché non riescono a perdonare, rimangono legate a colui che le ha ferite, si lasciano condizionare da lui. Nella mia esperienza di accompagnamento, incontro continuamente persone che per lunghi anni portano dentro di sé il rancore verso qualcuno. L’astio divora la loro anima e ruba le loro energie: e abbastanza spesso finiscono anche per ammalarsi. La riconciliazione con quelli che mi hanno ferito nel corso della mia vita, non è semplicemente una decisione della volontà. È piuttosto un processo che secondo me avviene in cinque fasi.
Il primo passo richiede che io lasci spazio al dolore. Non debbo scusare troppo presto colui che mi ha ferito. È del tutto indifferente se l’altro mi ha ferito apposta oppure non poteva fare altrimenti: il fatto è che mi ha fatto soffrire. E questo dolore devo nuovamente percepirlo nella sua realtà. Mi sono sentito abbandonato, sminuito, preso non seriamente in considerazione.
Il secondo passo consiste nel lasciar spazio alla collera (rabbia). La collera è la forza di buttare fuori da me colui che mi ha ferito. Collera non vuol dire mettermi a gridare contro l’altro oppure ferirlo a mia volta. Essa consiste invece nel prendere una sana distanza dall’altro. Posso dirmi per esempio: non penso più continuamente a lui; gli impedisco di entrare in casa mia, cioè gli proibisco di abitare nel mio intimo, di occuparmi continuamente di lui nei miei pensieri. Nello stesso tempo devo trasformare in energia questa collera: posso vivere da me stesso; non ho bisogno dell’altro perché la mia vita abbia un esito positivo.
Il terzo passo si riferisce al guardare oggettivamente ciò che è accaduto. Cerco ora di comprendere perché l’altro mi ha ferito. Forse non ha fatto altro che trasmettere le ferite che a sua volta aveva ricevuto. Mi sforzo quindi di capire me stesso: per quale motivo il comportamento dell’altro mi ha fatto soffrire così tanto. Forse l’altro ha toccato in me un’antica piaga, un posto dove non mi sono ancora riconciliato con me stesso. Questa riflessione diventa un invito a occuparmi di questa zona così vulnerabile e ad accettare me stesso con questa mia vulnerabilità.
Il quarto passo della riconciliazione con l’altro consiste propriamente nell’atto del perdono. Perdonare significa che mi libero dal legame con l’altro. Lascio che il suo comportamento rimanga in lui e così mi distacco dall’altro. Il perdono è sempre un segno di forza e non di debolezza. Rinuncio a girare continuamente attorno alle mie ferite. Se queste sono però troppo profonde, non riesco ancora a incontrarmi con l’altro, nonostante il mio perdono. Devo allora accettare i miei limiti. Ho perdonato all’altro, ma non sono ancora capace di costruire con lui un rapporto normale. Molti psicologi hanno sperimentato, tra le altre cose, che il perdono è un atto terapeutico, che rende possibile la guarigione delle proprie piaghe e ci libera dal rimuginare continuamente il nostro passato. Il perdono ci rende capaci di impegnarci nel momento presente con tutto il nostro essere.
Il quinto passo della riconciliazione trasforma le piaghe in perle. 
Ildegarda di Bingen sostiene che la riuscita della vita dipende dal fatto che le nostre piaghe vengano trasformate in perle. Se compissi soltanto i primi quattro passi, avrei sempre la sensazione di subire un danno, poiché ero stato ferito in modo veramente grave. Il quinto passo mi mostra che nelle mie ferite si trova un tesoro prezioso. Là dove mi hanno ferito sono crollate le mie maschere e ho potuto mettermi in contatto col mio vero Sé. Le piaghe mi fanno sentire vivo, mantengono sveglia in me la nostalgia di Dio e mi aprono verso le persone con le loro ferite. Dato che io stesso sono stato ferito, posso meglio comprendere le altre persone con le loro piaghe. Molti terapeuti e pastori d’anime hanno trasformato le loro piaghe in perle. Gli antichi greci sapevano già che solo il medico ferito poteva veramente guarire. 
Se le mie piaghe vengono trasformate in perle, non porto più rancore contro quelli che mi hanno ferito. Allora il perdono non è soltanto qualcosa di passivo, ma rende possibile la scoperta delle mie energie e mi dà fiducia di imprimere in questo mondo la traccia inconfondibile e del tutto personale della mia vita.

Questi cinque passi della riconciliazione con l’altro si possono percorrere senza parlare con l’altro. Spesso però è di grande aiuto chiarire la ferita con un altro. È sempre necessaria tuttavia la prudenza nel giudicare se il dialogo con l’altro sia veramente opportuno. Se dico a dei genitori anziani che mi hanno ferito, li metterò in confusione e pretenderei troppo da loro. Il processo della riconciliazione avviene dentro di me. Spesso è bene parlarne con una terza persona, ad esempio nell’accompagnamento pastorale o in una analisi terapeutica. Se si tratta di ferite attuali, devo decidere se per me è meglio segnalare all’altro che mi ha ferito, oppure se posso perdonargli interiormente. Se dico all’altro che mi ha ferito, ciò non deve essere in alcun modo una rimostranza, bensì un’informazione, affinché sappia come il suo comportamento si riflette su di me.

Un’altra questione è se devo dire all’altro che lo si perdona. Il direttore di una fabbrica mi raccontava di avere un conflitto con la sua segretaria. Durante la discussione, la donna disse: «Le perdono in nome di Gesù». 
Per il direttore fu come uno schiaffo in faccia. Infatti in questa frase risuonava implicitamente: «Tu sei colpevole. Sei un tipo cattivo, ma io sono una persona spirituale e di animo generoso e ti perdono». 
Per l’altro, simili dichiarazioni di perdono sono un’accusa. Non producono alcuna riconciliazione, bensì rendono il disaccordo più profondo. 
Quando l’altro non accoglie il nostro perdono, abbiamo sempre la sensazione di essere persone migliori di lui. 
Nel monachesimo dei primi secoli cristiani, si racconta la storia di un monaco che andò dal suo vecchio padre spirituale lagnandosi che suo fratello non aveva accettato il suo perdono. 
Allora il vecchio abate gli rispose: «Guarda bene dal non metterti al di sopra di tuo fratello. Immagina di aver peccato contro di lui e va così da tuo fratello». Quando il monaco andò dal fratello con questo atteggiamento, fu il fratello che gli andò incontro e i due si abbracciarono. Certamente il fratello si era accorto del cambiamento avvenuto nel monaco. Il nostro perdono potrà giungere fino all’altro solo quando è inteso sinceramente e riusciamo a scorgere anche la nostra parte di colpa.


4. Riconciliazione con Dio
Il messaggio fondamentale della Bibbia è che Dio ha riconciliato gli uomini con sé. 
Dio non ha bisogno di essere riconciliato, perché egli è per essenza amore e misericordia. È l’uomo invece, diventato colpevole, che si è separato interiormente da Dio. La colpa significa sempre una spaccatura. Se mi addosso una colpa, ho sempre l’impressione di non poter più comparire innanzi agli occhi degli altri e di dovermi nascondere – come Adamo ed Eva – davanti a Dio. Il messaggio dell’amore misericordioso di Dio, che colma questa spaccatura interiore, mi permette di presentare a Dio tutto quello che c’è dentro di me. 
La croce di Gesù non produce il perdono. Dio non perdona perché Gesù è morto in croce, ma perché egli è Dio. Tuttavia la croce è per noi la più efficace comunicazione del perdono. Quando vedo che Gesù in croce perdona ai suoi uccisori, posso confidare che in me non c’è nulla che non possa essere perdonato. Così la croce rafforza la mia fiducia nell’amore perdonante di Dio. Se medito la croce, so questo: sono accolto da Dio incondizionatamente. Anche la mia colpa non mi separa da lui.
La riconciliazione parte da Dio. Ma anch’io devo riconciliarmi con Dio. Spesso in me c’è una ribellione contro di lui. Non gli posso perdonare di avermi creato così come sono. Non gli posso perdonare che mi abbia destinato un genere di vita come quello che ho, di non avermi preservato dai miei errori e colpe. E così anch’io devo perdonare Dio che mi ha posto nella difficile situazione che mi tocca affrontare. In definitiva, la riconciliazione con Dio richiede che mi liberi dalle false immagini di Dio e di me stesso, per affidarmi al mistero inafferrabile di Dio. Allora potrò sperimentare la vera pace e riconciliazione con lui.

Ma la riconciliazione con Dio implica ancora un ulteriore aspetto. Quando faccio l’esperienza di Dio, sperimento anche la riconciliazione non solo con lui, ma anche con tutto ciò che esiste. Ho accompagnato per molti anni nella terapia una donna che cercava di superare le ferite ricevute dalla madre. Tutto lo sforzo di analizzarle non le era giovato a riconciliarsi veramente con la madre. Durante una celebrazione liturgica aveva sperimentato la vicinanza guaritrice di Dio. E ad un tratto si è sentita una sola cosa con se stessa e in accordo con tutta la sua vita. Non c’era più alcun odio verso la madre, ma solo amore. La vera esperienza di Dio è sempre anche esperienza di riconciliazione. Se sono una cosa sola con Dio, sono una sola cosa anche con tutto quello che è dentro di me, con gli altri, con la mia vita, con Dio. Sperimento una profonda pace interiore. Tuttavia non posso fissare questa esperienza di essere riconciliato. È sempre solo un istante quello in cui sono una sola cosa con Dio, ma è un istante che mi mostra che cos’è veramente riconciliazione: essere una sola cosa con tutto ciò che esiste; essere in accordo con il Dio inafferrabile e con quello che egli ha mi ha riservato.

5. Riconciliazione e guarigione
La riconciliazione è un percorso importante per giungere alla guarigione. Guarire non significa che Dio ci toglie e fa sparire le nostre piaghe, bensì che noi apriamo le nostre piaghe per Dio e in lui diventiamo sani e integri. 
Le piaghe fanno parte della nostra identità, non ci separano né da Dio né dal nostro vero Sé. Al contrario aprono in noi una breccia che ci fa scoprire il nostro vero Sé, l’immagine originaria e autentica di Dio in noi. Chi si riconcilia con se stesso, con gli uomini e con Dio, sente di essere una persona nuova. Paolo lo ha formulato così: «Se uno è in Cristo, è una creatura nuova: le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).

La vera e propria malattia del nostro tempo – ci dice la psicologia – è la mancanza di relazione (di riferimenti). Gli uomini non sono capaci di mettersi in relazione con se stessi, e neppure con le cose, con gli altri e con Dio. La riconciliazione è il mezzo per mettersi in relazione con tutto quello che c’è in me, così da non escludere più niente dal mio vero Sé. Colui che mette tutto in relazione con il Sé più intimo, il Cristo in noi, è totalmente risanato e salvo, e sperimenta se stesso come un uomo nuovo. 
Per Paolo riconciliazione è un altro concetto (un sinonimo) per esprimere la redenzione. Sulla croce Dio ha riconciliato a sé gli uomini con tutte le loro contraddizioni. L’uomo lacerato diventa in tal modo risanato e integro, si sente un essere nuovo. Le cose vecchie sono veramente passate. In Cristo l’uomo ha trovato la sua nuova identità, un’identità in cui egli non ha più bisogno di escludere niente, né da se stesso, né davanti a Dio. 
Ha la capacità di vedere con occhi nuovi se stesso e anche il mondo attorno a sé. Da lui la riconciliazione si espande in tutto l’ambiente in cui vive. In tal modo, per suo mezzo, anche il mondo che lo circonda viene ri-creato. 
Nella riconciliazione muore l’uomo vecchio che giudica se stesso. Siamo così liberi di camminare nella novità della vita divina (cf. Rm 6,4). La «novità di vita» non è un’affermazione puramente teologica, ma si riferisce alla nostra esperienza. Chi si riconcilia con se stesso, vive se stesso in modo diverso da prima. Non vive più sul piano del rifiuto o della estraniazione da sé, bensì come una persona unificata nel proprio intimo, rinnovata, riconciliata e capace di donare riconciliazione agli altri. 

- Anselm Grün -
scrittore, monaco dell’abbazia benedettina di Münsterschwarzach in Germania, traduzione di Luigi Dal Lago, in Credere Oggi, 145/2005)


Lo so ..  lo so .. quest'ultima citazione non vi piace....

Buona giornata a tutti. :-)





giovedì 24 ottobre 2019

Trasmettere la gioia del Vangelo

Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati» (Mt 5,4): sono nel pianto le persone che soffrono la solitudine, l'emarginazione, la perdita di una persona cara, la consapevolezza degli errori commessi; ma anche chi è malato, povero, deluso dalle sue relazioni familiari e sociali, ecc. Gesù promette consolazione, perché i suoi discepoli nei secoli hanno perpetuato l'azione misericordiosa del loro Signore: san Vincenzo de' Paoli, san Francesco d'Assisi, madre Teresa di Calcutta, ecc. 
Tanti cristiani nella vita quotidia­na offrono una mano tesa agli «afflitti» e un cuore aperto a chi cerca conforto. 
Abbiamo molte esperienze attorno a noi: raccogliamone qualcuna affinché ci permetta di avere uno sguardo più positivo sul mondo di oggi e la gioia del Vangelo.

Papa Francesco afferma nella Bolla per il Giubileo della Misericordia: «In questo Anno Santo, potremo fare l'esperienza di aprire il cuore a quanti vivono nelle più disparate pe­riferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica. 
Quante situazioni di precarietà e sofferenza sono presenti nel mondo di oggi! Quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell'indifferenza dei popoli ricchi. In questo Giubileo ancora di più la Chiesa sarà chiamata a curare queste ferite, a lenirle con l'olio della consolazione, fa­sciarle con la misericordia e curarle con la solidarietà e l'attenzione dovuta. 
Non cadiamo nell'indifferenza che umilia, nell'abitudinarietà che anestetizza l'animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. 
Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiria­moli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell'amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l'ipocrisia e l'egoismo» (MV, n. 15).

2.      La Parola di Dio ci guida

Sono tre i testi più importanti proposti dalla Bibbia per la consolazione degli afflitti: il primo è Is 4,1-11 «Consolate, consolate il mio popolo - dice il vostro Dio - parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che la sua tribolazione è compiuta, la sua colpa è scontata [...]. 
Come un pastore il Signore fa pascolare il suo gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri». 
Il profeta con immagini di inesprimibile te­nerezza invita a cercare consolazione nel Signore, che sempre si prende cura di noi. 
Anche se non si sostituisce a noi, Egli ci sostiene in ogni afflizione.
Il secondo testo è un inno alla sorgente della consolazione per il cristiano: Dio stesso per mezzo di Gesù e del suo Spirito. La consolazione per san Paolo consiste nella speranza che Cristo, il Messia atteso, porta con sé la pace e la gioia interiore. Tale consolazione non è solo atteggiamento passivo, ma anche conforto, incoraggiamento, esortazione condivisa con gli altri. 2 Cor 1, 3-7: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! 
Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. 
Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazio­ne e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sop­portare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. 
La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione».
Infine, il terzo testo è la Lettera di Giacomo, il quale ci invita a compiere gesti concreti di consolazione (Gc 2,15-17): «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti o sprovvisti di cibo quoti­diano e uno di voi dice loro: —Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi—ma non date loro il ne­cessario per il corpo, a che cosa serve? 
Così la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta».

3. Proposte di vita

Quante persone «tristi» ci sono attorno a noi? 
Persone che hanno perso il coniuge da poco, uomini e donne che sono in crisi matrimoniale, anziani che vivono nella solitudine, lavoratori che sono umiliati sul posto di lavoro, disoccupati e vittime di violenze, adole­scenti feriti negli affetti o in crisi esistenziale, ecc. 
È facile essere amici con quelli che stanno bene, più diffìcile stare accanto a chi soffre le delusioni e le sconfitte della vita. Dobbiamo coltivare in noi «gli stessi sentimenti di Gesù» che ha sempre accolto e consola­to i sofferenti e gli emarginati. 
Papa Francesco spesso ci ricorda che dobbiamo «uscire» per stare accanto a chi è nel pianto per manifestare a tutti la misericordia del Signore.
Nel quartiere o nel paese sicuramente ci sono organismi di volontariato che si occupano delle situazioni di disagio sociale: confrontiamoci con loro, invitiamoli a farci conoscere le loro iniziative, partecipiamo con il nostro contributo per quanto ci è possibile. 
A volte, anche vicini di casa patiscono le afflizioni della vita: se vogliamo diventare «buoni vicini» occupiamoci di loro, senza invadenza, andando loro incontro come il cuore ci suggerisce.
Nelle nostre parrocchie, stanno nascendo sempre più incontri non solo per anziani, ma anche per chi vivere la solitudine dello stato vedovile o per chi è divorziato, convivente, risposato. 
A tutti dobbiamo annunciare la misericordia di Dio, il Padre, e proporre un cammino di fede affinché la loro afflizione sia consolata e la loro presenza nella comuni­tà sia vissuta come partecipazione viva e doverosa per sentirsi amati da noi e da Dio.
«È vivo il desiderio di "includere persone disabili, immigrati, emarginati" e le loro fami­glie. 
Occorre acquisire la competenza necessaria per aiutare, sostenere, accompagnare e annunciare la speranza di una vita nuova e la dolcezza di un Gesù amico che non abban­dona. 
In ogni contesto ambientale (scuola, lavoro, università, ospedali, carceri, Social Me­dia) ed esistenziale (disagi psichici, crisi coniugali, problemi educativi) in cui si trovano. 
Confrontarsi con la malattia, il disagio fisico e psichico, la disabilità e la fragilità costringe a fare i conti con la realtà di un'esistenza che non fa sconti a nessuno. Lo stesso dicasi per molte famiglie che vivono varie forme di fragilità nel rapporto tra i coniugi e nel confron­to con i figli. 
Includere è il modo di testimoniare Gesù che si curva sugli ultimi».
Nei tempi più oscuri di violenze, attentati sanguinari, terrorismo, nascono iniziative di solidarietà con manifestazioni diverse. 
Mentre anche noi vi partecipiamo, non dimen­tichiamo i conflitti altrettanto violenti che accadono in Paesi lontani da noi, spesso di­menticati dalla cronaca quotidiana di giornali e televisioni. 
Dobbiamo essere solidali con tutti, non solo con i più vicini.

4. Preghiera

Maria, Madre della consolazione, è Colei alla quale, attraverso la preghiera, ci affidiamo per cercare consolazione nei momenti difficili. 
Visitando una persona anziana o in difficoltà proponiamo con franchezza di pregare insieme la Madonna. Possiamo recitare con lui/lei il santo Rosario di Lourdes per essere aiutati nella preghiera. Oppure, una preghiera spontanea. 
La preghiera più indicata può essere la Salve Regina:

Salve Regina, madre di misericordia, vita, dolcezza, speranza nostra, salve.
A te ricorriamo, esuli figli di Eva; a te sospiriamo, gementi e piangenti
in questa valle di lacrime.
Orsù, dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi.
E mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del tuo seno.
O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria.

Maria, Madre della Consolazione, prega per noi!


Buona giornata a tutti. :-)


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