Da scapolo qual era, Emilio non aveva mai
sentito una particolare urgenza di produrre un figlio, ma il mio entusiasmo lo
contagiò, e lui si preparò a diventare un padre molto affettuoso e pienamente
responsabile.
Il 6 giugno 1944 eravamo a Roma, e i nazisti erano stati cacciati il giorno
prima. C’era molta confusione, tutti scendevano in strada e gridavano.
Io avevo
una pancia immensa, con dentro un figlio, il quale, in base a certi calcoli
sicuramente sbagliati, sarebbe dovuto nascere tre settimane prima, legittimo
rampollo del professor Raimondi e signora, poiché tali risultavamo dai
documenti falsi che avevamo usato durante l’occupazione tedesca.
Dato che il nascituro aveva così saggiamente atteso la liberazione della
capitale per fare la sua entrata nel mondo, e che noi avevamo riacquistato la
nostra identità, Emilio mi fece presente che, secondo le leggi italiane, nostro
figlio non poteva essere dichiarato all’anagrafe come il figlio suo e mio , ma
solo di uno di noi due, con padre o madre ignoti.
Emilio ci teneva a
riconoscere il figlio, e l’idea di passare negli archivi dello Stato come madre
innominata, cancellata dalla legalità, mi faceva una rabbia grandissima.
Decidemmo dunque di sposarci, ma rifiutai di andare in Campidoglio. Fu il
Campidoglio che venne da me, nell’appartamento di Piazza Randaccio, nella
persona di un assessore, come si fa nel caso di malattie molto gravi.
L’assessore arrivò con la portinaia, che doveva fare da testimone, e guardò con
aperta disapprovazione la mia faccia abbronzata di partigiana e la mia pancia
immensa: forse ero una vagabonda che aveva approfittato del trambusto bellico
per farsi mettere incinta da un distinto signore, esigendo in extremis il
matrimonio di riparazione.
Tirò fuori dalla sua borsa la fascia tricolore,
l’agganciò attorno alla vita, impugnò il Codice civile e cominciò a leggere, in
tono poco convinto, una serie di aforismi in base ai quali avrei dovuto seguire
mio marito ovunque andasse, e lui, in cambio di questa persecuzione, avrebbe
dovuto mantenersi a sue spese vita natural durante. Dopo di che, fui la signora
Lussu e futura madre di un erede legittimo. La portinaia mi rivolse uno sguardo
materno, per congratularsi della mia riabilitazione.
Due giorni dopo, alle quattro del mattino, ebbi le prime doglie. Erano leggere
e intermittenti, e tirai avanti tutta la mattina, dicendo a Emilio che non si
preoccupasse, che me la cavavo benissimo da sola, che andasse pure;
naturalmente in quei giorni c’era molto da fare.
Alle quattro del pomeriggio
andai a piedi alla vicina clinica di via Oslavia. Ormai i dolori erano forti e
frequenti. Delle megere vestite da monache mi misero a sedere su una panca di
legno e mi dissero di aspettare.
Io gridavo e mi lamentavo, e tornarono a dirmi
di stare zitta, che era una vergogna far tanto chiasso, perché tutti si
sarebbero accorti che stavo per partorire, e mi sentivano fino al reparto
uomini. Finalmente, mi trovarono un letto. Mi misi a urlare a pieni polmoni,
finché venne un medico che mi lanciò improperi e oscenità: «Queste donne che
vogliono sempre essere scopate! Mettete dentro, mettete dentro! Poi strillano,
quando esce fuori un figlio!».
Mio figlio nacque alle otto. Ma non lo vidi
subito, perché ero tutta stracciata e intontita, e mi misero non so quanti
punti.
Quando me lo portarono, mi parve che tutte le primavere del mondo
rifiorissero insieme. Com’era bello! Aveva la pelle bianca e distesa e morbidi
capelli neri; era tutto rifinito, con ciglia e sopracciglia e le unghie rosa
sui piedini; mi guardava con i suoi occhi intensi – immaginavo che mi guardasse
– con espressione grave e amichevole.
«Non me ne vuole», pensai, «per averlo
portato in mezzo a queste macerie e a questa crudeltà». Fece un «uè uè»
tranquillo, senza rancore; poi, con sapienza superiore alla sua giovanissima
età, si portò il pollice alla bocca. Persino le megere sorrisero. Lo volevo
vicino, ma lo misero in una culla accanto al letto, coricato su un fianco.
La
notte, ebbi degl’incubi terribili. Con grandi sforzi, riuscivo ad allungare il
braccio e a toccare mio figlio con la punta delle dita. Era immobile e
silenzioso come un sasso. Freneticamente, cercavo con la mano il suo cuoricino,
per sentire se batteva ancora. Non sentivo nulla. Ero tropoo debole per alzarmi
e non riuscivo ad accendere la luce. «È morto», pensavo disperatamente. «Non ha
voluto la vita». Fu una lunga notte. Poi arrivò la prima luce dell’alba, e poi
il sole; poi arrivò Emilio, e tutto tornò a essere meraviglioso.
Il crollo venne quando tornai a casa, troppo presto e ancora debolissima, col
mio fagottino in braccio. Ero svuotata e non riuscivo quasi ad alzarmi dal
letto, perdevo molto sangue e mi scioglievo in lacrime come una fontana, ma
soprattutto avevo un senso angoscioso d’incapacità e d’inadeguatezza nei
confronti di quell’esserino così fragile e impotente ma animato da una così
selvaggia di campare, che mi succhiava col latte quel po’ di vita che mi
restava.
Scoprii che non ne sapevo nulla, che tutto l’appassionato amore che
suscitava in me non mi aiutava a capire chi era, che cosa sentiva, qual era la
dimensione delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi dolori e delle sue
gioie.
Come aveva vissuto il passaggio dal caldo e scuro alveo materno al
grande mondo dell’aria e della luce, dei pericoli e dell’insicurezza?
Di che
cosa aveva bisogno, oltre al cibo, al calore, alla pulizia della pelle tenera e
delicata?
In che modo era umano, lui che non aveva nessuna esperienza, mentre
io non sapevo misurare l’umanità che dalle esperienze?
Che cosa dovevo fare per
proteggerlo dall’infelicità?
Che cosa dovevo fare per proteggerlo dalle
sofferenze, per aiutarlo a vivere? Come avrei potuto evitare di fare degli
errori terribili e irrimediabili, di nuocergli per ignoranza, perché non avevo
capito chi era? Non avevo mai riflettuto su queste cose: avevo creduto che fare
un figlio fosse una cosa semplice, ‘naturale’, che camminava da sé. E mi
trovavo di fronte a una realtà imprevista e sconvolgente, che buttava all’aria
tutte le mi sicurezze faticosamente costruite. (…)
Facevo delle considerazioni
cosmiche sulla società e sulla storia, arrivando alla conclusione che il
problema più grosso dell’umanità è il rapporto tra adulti e bambini. Se si
risolvesse questo, probabilmente tutti gli altri sarebbero avviati a soluzione.
Il rapporto uomo-donna è una bazzecola, in confronto al rapporto
genitori-figli. E quest’ultimo è il rapporto del quale siamo più ignoranti,
affidandoci ancora all’istinto e all’empiria, o razionalizzando a senso unico,
per adattare a noi degli esseri diversi. Affinchè ci disturbino il meno
possibile.
Col recupero della vitalità fisica e psichica, la gioia che dava la
meravigliosa presenza di un figlio prevalse sulle angosce emerse dalla
profondità della mia coscienza. Sapevo che erano anch’esse verità e realtà, ma
non riuscivo a risolverle.
Così le adattai alla mia sopravvivenza, e inclusi i
miei errori di madre nel bilancio previsto dalla vita.
Il mio compagno era un
padre attento, consapevole e affettuosissimo. Ma credo che nessuno, ancora
oggi, abbia delle idee molto chiare sul ruolo dei genitori. Forse le chiariremo
quando impareremo a costruire la civiltà insieme coi bambini, e non al di
fuori, o addirittura contro di loro, o considerandoli una nostra proiezione.
- Joyce Lussu -
da: Portrait (cose viste e vissute), edizioni L'asino d'oro, Roma 2012, (prefazione a cura di Gulia Ingrao) – cit. pp. 98-102
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