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giovedì 1 aprile 2021

Gli uni i piedi degli altri – don Tonino Bello

Carissimi

Ve lo confesso: è stata una sorpresa anche per me. Non avevo mai dato troppo peso, infatti, a questa espressione pronunciata da Gesù dopo che ebbe finito di lavare i piedi ai discepoli: “anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Gli uni gli altri, a vicenda, cioè, scambievolmente. 
Questo vuol dire che la prima attenzione, non tanto in ordine di tempo quanto in ordine di logica, dobbiamo esprimerla all’interno delle nostre comunità, servendo i fratelli e lasciandoci servire da loro.
Spendersi per i poveri, va bene.
Abilitarsi come Chiesa a lavare i piedi di coloro che sono esclusi da ogni sistema di sicurezza e che sono emarginati da tutti i banchetti della vita va meglio. Ma prima ancora dei marocchini, degli handicappati, dei barboni, degli oppressi, di coloro che ordinariamente stazionano fuori del cenacolo, ci sono coloro che condividono con noi la casa, la mensa, il tempio.
Solo quando hanno asciugato le caviglie dei fratelli, le nostre mani potranno fare miracoli sui polpacci degli altri senza graffiarli. E solo quando sono stati lavati da una mano amica, i nostri calcagni potranno muoversi alla ricerca degli ultimi senza stancarsi.
Della lavanda dei piedi in altri termini, dobbiamo recuperare il valore della reciprocità. Che è l’insegnamento più forte nascosto in quel gesto di Gesù. Finora forse ne abbiamo fatto un po’ troppo un esercizio eroico di conquista. L’abbiamo scambiato per uno stile di accaparramento di benevolenze mondane. L’abbiamo inteso come un espediente missionario, capace se non di provocare la fede, almeno di vincolare le emozioni dei cosiddetti lontani.
Un bel gesto insomma. Di quelli che fanno immagine. Soprattutto per quel gioco di contrasti.
Perché quanto più Gesù sprofonda fino a terra, tanto più emerge l’altezza del suo messaggio.
Invece, con quella frase “gli uni gli altri”, espressa nel testo greco da un inequivocabile pronome reciproco, siamo chiamati a concludere che brocca, catino e asciugatoio, prima che essere articoli di esportazione, vanno adoperati all’interno del cenacolo.
Non vanno collocati fuori dalla chiesa, quasi per essere offerti come ferri del mestiere a coloro che, terminate le loro liturgie, escono nel mondo.
No. Non c’è Eucarestia dentro e lavanda dei piedi fuori. L’una e l’altra sono operazioni complementari da esprimere ambedue negli spazi dove i discepoli di Cristo si radunano e vivono.
Fuori semmai c’è da portare la logica di quei doni: frutti che maturano in pienezza solo al calore della serra evangelica. In conclusione, brocca, catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili semplicemente ornamentali.
Che cosa significa tutto questo per noi? Che ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli.
Anzi, c’è di più o di peggio.
E’ l’intero presbiterio che manca di credibilità, se nel suo grembo serpeggia il rifiuto o il riserbo sdegnoso, o il fastidio, a tal punto che i piedi ognuno se li deve lavare per conto suo.
Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: “voi siete mondi” aveva detto loro Gesù.
Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della purezza, quanto di chi ha vissuto le tribolazioni del servizio.
Altro che gesto sentimentale, quello di Gesù, da incorniciare magari nell’album dei buoni esempi!

La logica della lavanda dei piedi è eversiva.
A tal punto che grida all’ipocrisia quando in una associazione ecclesiale lacerata dalle risse e dilaniata dalle rivalità, si pretende di organizzare il pediluvio alla gente. Ma a chi andiamo a raccontarla!
Il servizio agli ultimi che stanno fuori non purifica nessuno quando si salta il passaggio obbligato del servizio agli ultimi che stanno dentro. Anzi si ritorce come condanna perfino su chi crede che gli basti la riconciliazione procuratagli dai sacramenti, quando poi snobba quella grande riconciliazione con la vita che si raggiunge lavando i piedi del prossimo più prossimo.
Gli uni gli altri.
A partire dalle famiglie. Che non possono dirsi cristiane se non assumono la logica della reciprocità. Perché, se il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare al terzo mondo come volontaria, ma poi tutte e tre non si guardano in faccia quando stanno in casa, la loro è soltanto una contro testimonianza penosa che danneggia perfino i destinatari di un servizio apparentemente così generoso.
Ce n’è abbastanza perché la ripetizione rituale della lavanda dei piedi che tra la commozione generale, celebreremo il giovedì santo, ci metta nell’animo una voglia struggente di servizio, di accoglienza e di pace. Verso tutti. A partire dai più vicini. E ci mandi in crisi, più che mandarci in estasi.
Perché, visto che siamo così lenti a convertirci, quella brocca è esposta al sacrilegio non meno della stessa Eucarestia.

- don Tonino Bello -


 

I piedi la parte più bassa del corpo due piedi per procedere in avanti male si cammina, con un solo piede. 

Per procedere ogni giorno. Fare passi nuovi. 

Possiamo camminare bene. E verso il bene. 

Vera metafora della nostra vita. 

Dunque oggi Signore, mi fermo anche io. 

Ai piedi. Ai Tuoi piedi. Oggi ti chiedo perdono.

Per le cose fatte coi i piedi. Per i progetti grandiosi. 

Per i tentativi di farmi grande. Invece di servire e lavare. 

I piedi sporchi, i peccati degli altri. Lava i miei piedi sporchi: e il cuore deluso. 

Amen.


 




Buona giornata a tutti. :-)


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mercoledì 24 marzo 2021

I piedi di Giovanni – don Tonino Bello

Carissimi,

è proprio un arrampicarsi sugli specchi voler trovare nei singoli beneficiari della lavanda dei piedi operata da Gesù, la sera del giovedì santo, altrettanti simboli delle diverse condizioni umane sulle quali egli, per impegnarci in un servizio preferenziale di amore, ha inteso richiamare la nostra attenzione?
Ed è proprio fuori posto vedere in Giovanni l’emblema di quel mondo ad alto rischio che si chiama gioventù, e che oggi, nonostante il grande parlare che se ne fa e nonostante il timore non sempre reverenziale che esso incute, tarda ancora a divenire il referente privilegiato della nostra diaconia ecclesiale?
Ed è proprio una forzatura concludere che il Maestro, piegato sui piedi di Giovanni, il più giovane della compagnia, è l’icona splendida di ciò che dovrebbe essere la Chiesa, invitata dal quel gesto a considerare i giovani come “ultimi”, non tanto perché ai gradini più bassi della scala cronologica della vita, quanto perché ai livelli più insignificanti nelle graduatorie di coloro che contano?
Penso proprio di no.
  

Anzi, se qualcuno, fuorviato dal chiasso che fanno, dovesse giudicare demagogica l’ affermazione che i giovani oggi non hanno voce, mostra di aver frainteso il senso delle tenerezze espresse da Gesù verso quel mondo che ha sempre fatto fatica a farsi ascoltare.


La figlia di Giairo, il servo del centurione, l’ unigenito della vedova di Nain, il giovane ricco il figliol prodigo… sono indice di uno sbilanciamento del Signore nei confronti di coloro che, pur essendo oggetto di invidia struggente, hanno da sempre accusato un deficit pesantissimo in fatto di accoglienza.
Ma torniamo ai piedi di Giovanni.
Come motivo iconografico, ma anche come suggestione omiletica, non hanno avuto molto fortuna.

E dire che la mattina di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, si sono dimostrati di gran lunga più veloci di quelli di Pietro, aggiudicandosi, a un palmo della tomba vuota, la prima edizione del trofeo “fede, speranza e carità”.

  

Ma al di là dello scatto irresistibile del giovane sull'affanno impacciato del vecchio, quei piedi non sono entrati nell'immaginario della gente.

La spiegazione è semplice: la testa del discepolo ricurva sul petto del Maestro ha distratto l'attenzione dal capo del Maestro chino sui piedi del discepolo.

È una riprova ulteriore di come, anche nella Chiesa, le lusinghe emotive della teatralità prevaricano spesso sulla crudezza del servizio terra terra.

Che cosa voglio dire? Che noi ci affanniamo, sì, a organizzare convegni per i giovani, facciamo la vivisezione dei loro problemi su interminabili tavole rotonde, li frastorniamo con l'abbaglio del meeting, li mettiamo anche al centro dei programmi pastorali, ma poi resta il sospetto che, sia pure a fin di bene, più che servili, ci si voglia servire di loro.

Perché diciamocelo con franchezza, i giovani rappresentano sempre un buon investimento. Perché sono la misura della nostra capacità di aggregazione e il fiore all'occhiello del nostro ascendente sociale. 

Perché se sul piano economico il loro favore rende in termini di denaro, sul piano religioso il loro consenso paga in termini di immagine. 

Perché, se comunque, è sempre redditizia la politica di accompagnarsi con chi, pur senza soldi in tasca, dispone di infinite risorse spendibili sui mercati generali della vita.

Servire i giovani, invece, è tutt'altra cosa.

Significa considerarli poveri con cui giocare in perdita, non potenziali ricchi da blandire furbescamente in anticipo.

Significa ascoltarli. Deporre i panneggi del nostro insopportabile paternalismo. 
Cingersi l'asciugatoio della discrezione per andare all'essenziale. 
Far tintinnare nel catino le lacrime della condivisione, e non quelle del disappunto per le nostre sicurezze predicatorie messe in crisi. 
Asciugare i loro piedi, non come fossero la pròtesi dei nostri, ma accettando con fiducia che percorrano altri sentieri, imprevedibili, e comunque non tracciati da noi.

Significa far credito sul futuro, senza garanzie e senza avalli. 
Scommettere sull'inedito di un Dio che non invecchia. 
Rinunciare alla pretesa di contenerne la fantasia. 
Camminare in novità di vita verso quei cieli nuovi e quelle terre nuove a cui si sono sempre diretti i piedi di Giovanni, l'apostolo dagli occhi di aquila, che è morto ultracentenario senza essersi stancato di credere nell'amore.

Servire i giovani significa entrare con essi nell'orto degli ulivi, senza addormentarsi sulla loro solitudine, ma ascoltandone il respiro faticoso e sorvegliandone il sudore di sangue.

Significa seguire, sia pur da lontano, la loro via crucis e intuire, come il Cireneo ha fatto con Gesù, che anche quella dei giovani, abbracciata insieme, è una croce che salva.

Significa, soprattutto, essere certi che dopo i giorni dell'amarezza c'è un'alba di risurrezione pure per loro.

E c'è anche una pentecoste. 
La quale farà un rogo di tutte le scorie di peccato che invecchiano il mondo. E attraverso la schiena della terra adolescente con un brivido di speranza. 

Saremo capaci di essere una chiesa così serva dei giovani, da investire tutto sulla fragilità dei sogni?

- don Tonino Bello -



La gioia dilaghi dal vostro cuore e contagi tutti coloro che vi accostano, 
sorpresi di tanta freschezza. 

- Don Tonino Bello -




«Dopo aver offerto i loro doni, “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”. 
Da allora sarà sempre così, per chi lo ha trovato e poi vuole rimanere con lui: bisogna saper cambiare strada, per non perderlo, anzi, per non perdersi».
- don Tonino Bello -




In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità,
è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate;
è lui la bellezza che tanto vi attrae:
è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso;
è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita;
è lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare.
E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande.

- san Giovanni Paolo II, papa -
  

Vi faccio questo augurio.
Che anche voi scrutando i segni, possiate dire così:
Resta poco della notte, perchè il sole sta già inondando l'orizzonte.


- Don Tonino Bello -

Buona giornata a tutti. :-)

www.leggoerifletto.it


giovedì 9 aprile 2020

Lavanda dei piedi - papa Benedetto XVI e Giacomo Biffi

La sera del più gran dono d’amore è però anche la sera del tradimento. 
Non riusciremmo a cogliere tutto lo spessore del Giovedì Santo, se ci dimenticassimo que­st’ombra inspiegabile e tragica che incombe sull’ultima cena del Signore. 
L’evangelista Giovanni ce lo ricorda senza attenuazioni, dicendo che «mentre cenavano», «già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo» (Gv 13,2). Anche san Paolo nel suo racconto annota con cura che il grande regalo dell’Eucaristia è stato fatto da Gesù proprio «nella notte in cui venne tradito» (1 Cor 11,23).
Qui c’è per noi un richiamo serio e forte: questa è una storia d’amore, ma non è un romanzo rosa, rugiadoso e dolcificato. 
È una vicenda drammatica, che ci costringe a rievocare, insieme con la generosità del Signore, la tremen­da possibilità dell’uomo di rifiutarsi al suo Creatore.
Originariamente la parola «tradire» vuol dire conse­gnare.
Gesù si è lasciato consegnare ai suoi nemici, e ha voluto così patire – tra tutte le sofferenze – anche quella amara e pungente dell’ingratitudine e dell’infedeltà, inspie­gabile risposta dell’uomo alla sua iniziativa d’amore. Dob­biamo sempre temere di noi stessi, e, se pur ci pare di voler bene al Signore, non dobbiamo mai tralasciare di pregare con trepidazione perché ci sia concessa sino alla fine dei nostri giorni la grazia della perseveranza e di un cuore riconoscente.
Ma nello stesso momento in cui veniva consegnato ai suoi nemici, Gesù si consegnava anche ai suoi amici, si consegnava anche a noi, perché ogni giusta diffidenza verso noi stessi si rasserenasse nella certa persuasione dell’invincibile sua volontà di tenerci saldamente nel suo possesso e nella sua comunione. 
Nonostante la nostra debolezza, nonostante la nostra pericolosissima volubilità, noi siamo e restiamo di Cristo, come Cristo è di Dio: così ci dice il cibo eucaristico di cui ci nutriamo.
Anche se grande e sempre ritornante è la nostra propensione a smarrirci, l’Eucaristia ci assicura che le pecore del gregge del Signore – in virtù di questo alimento di salvezza, della assidua presenza del loro Pastore, del sacrificio redentivo che è perennemente efficace – «non andranno mai perdute» e «nessuno le rapirà» dalla sua mano (cf. Gv 10,28)

 - Cardinale Giacomo Biffi -
(Giovedì Santo 1988)







Lavanda dei piedi e Sacramenti (da Benedetto XVI)



- Scritto da Redazione de Gliscritti: 1

   

   

Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. 
A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi” (Gv 13, 10).
Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane...
Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”… della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati... Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui…
Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore allarga il sacramentum facendone l’exemplum, un dono, un servizio per il fratello: “Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13, 14). 
Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio vicendevole dell’amore.
Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. 
Il debito che il Signore ci ha condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). 
A questo ci esorta il Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l’altro diventi nel profondo un avvelenamento dell’anima. 
Ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.

dall’omelia di Benedetto XVI nella Basilica di San Giovanni in Laterano del Giovedì Santo, 20 marzo 2008



Signore Gesù,
come nell’Ultima Cena con i “tuoi”.
Ora sei in mezzo a noi come colui che serve.
Tu, l’Altissimo, ci onori del tuo servizio.
Umile ai nostri piedi,
ce li lavi, ce li baci, ce li profumi di crisma,
ce li  calzi di mansuetudine e di pace,
per farci camminare dietro di te
fino alla Casa del Padre.
Sappiamo che la strada del ritorno
passa per l’orto degli Ulivi,
sale sul monte della Croce,
scende nella grotta del Sepolcro,
sbocca nel Giardino rifiorito.
Signore Gesù,
pur essendo stolti e lenti di cuore,
desideriamo saperti imitare
e, nel tuo nome, di servirci a vicenda,
per rendere visibile nei nostri gesti
la tua immensa carità divina
ed essere un giorno introdotti
alla cena della Pasqua eterna
dove tu stesso, come ci hai promesso,
ancora passerai a servirci,
saziandoci di gioia
con la luce radiosa del tuo Volto.
Amen.

- Madre Anna Maria Cànopi -
Fonte: Il respiro dell'Anima di Anna Maria Cànopi 


Buona giornata a tutti. :-)



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giovedì 11 aprile 2019

Un pezzo di legno - don Bruno Ferrero

C'è un uomo che tiene appeso in salotto, nel posto d'onore, uno strano oggetto. Quando qualcuno gli chiede il perché di quella stranezza racconta:
Il nonno, una volta mi accompagnò al parco. Era un gelido pomeriggio d'inverno. 
Il nonno mi seguiva e sorrideva, ma sentiva un peso. Il suo cuore era malato, già molto malandato. Volli andare verso lo stagno. 
Era tutto ghiacciato, compatto! "Dovrebbe essere magnifico poter pattinare", urlai, "vorrei provare a rotolarmi e scivolare sul ghiaccio almeno una volta!". Il nonno era preoccupato. Nel momento in cui scesi sul ghiaccio, il nonno disse: "Stai attento...". 
Troppo tardi. Il ghiaccio non teneva e urlando caddi dentro. 
Tremando, il nonno spezzò un ramo e lo allungò verso di me. Mi attaccai e lui tirò con tutte le sue forze fino ad estrarmi dal crepaccio di ghiaccio. 
Piangevo e tremavo. Mi fecero bene un bagno caldo e il letto, ma per il nonno questo avvenimento fu troppo faticoso, troppo emozionante. 
Un violento attacco cardiaco lo portò via nella notte. Il nostro dolore fu enorme. Nei giorni seguenti, quando mi ristabilii completamente, corsi allo stagno e ricuperai il pezzo di legno. 
È con quello che il nonno aveva salvato la mia vita e perso la sua! Ora, fin tanto che vivrò, starà appeso su quella parete come segno del suo amore per me!
Per questo motivo noi cristiani oggi ci inginocchiamo dinanzi a quel legno, cui si è appeso l'Amore-Gesù; per questo teniamo nelle nostre case un "pezzo di legno" a forma di croce... 
Per ricordare come si ama, e a chi dobbiamo guardare per amare senza stancarci!

- don Bruno Ferrero -



Tu
Uno come Te
lo si può cercare a lungo.
Uno come te

non lo si trova tanto in fretta.
Uno come te
non lo si può mai perdere.
Uno come te,
Signore!


- Ludwig Soumagne - 

"Lavanda dei piedi" - Giovanni Agostino da Lodi (1500) 
Gallerie dell'Accademia - Venezia)

Per incontrare il risorto non si può stare fermi. 
Lui mi ha cercato e mi ha trovato, ma poi spetta a me decidere che seguirlo significa davvero imparare a spostarsi: incontro oggi il Salvatore non alle mie condizioni ma alle sue, là dove lui è. 

- Cesare Beltrami - 




Mi hai fatto male, Dio mio,
e non parlo del corpo
con il quale ho ormai imparato
a convivere decentemente,
ma di quello che ci sta dentro:
questo cuore balordo
che rimbalza
ad ogni sussulto d’affetto,
quest’anima screpolata
che lascia passare
spifferi di dubbio
e di gelida incredulità.
Mi ha fatto male, Signore,
troppo duro il mattino,
troppo sensibile la sera;
troppo fragile sempre.
Mi hai fatto male, Signore,
eppure un giorno
- ne sono certo -  
mettendo insieme
tutte le macerie
dei miei anni,
capirò il perché
e sarò felice di essere
quello che sono. 
Perché mi hai fatto Tu.

- Eric Pearlman - 


Buona giornata a tutti. :-)