Visualizzazione post con etichetta fede. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta fede. Mostra tutti i post

sabato 28 marzo 2020

La speranza - Karl Rahner

«Tuttavia, malgrado i tanti attacchi alla fede che anch’io credo di aver subiti, una cosa mi è sempre rimasta chiara dinanzi agli occhi, una cosa mi ha sempre sostenuto mentre lottavo: la convinzione che il fattore ereditario e tradizionale non merita di venir distrutto solo dal vuoto della piatta realtà quotidiana, dall’ottusità spirituale, dallo scetticismo cupo e senza luce, ma tutt’al più da un fattore più potente, da un richiamo verso una maggiore libertà, verso una luce più grande e accecante. 
La fede ereditata dai padri è stata sempre una fede combattuta e soggetta ad attacchi. 
Ma io l’ho sempre sentita come una voce che mi chiedeva: “Volete andarvene anche voi?”, e alla quale c’era solo da rispondere: “Signore, da chi dovrei andare?”. 
L’ho sempre considerata come una fede solida e buona, che mi sarei deciso ad abbandonare unicamente nel caso che qualcuno mi avesse dimostrato migliore il suo contrario.”» 

Karl Rahner -
da: «Attualità e possibilità della fede ai giorni nostri» in Saggi di spiritualità, Paoline, Roma 1966, 412-413).



Preghiera per custodire la Fede 

"Signore custodisci la mia fede, falla crescere,
che la mia fede sia forte, coraggiosa,
e aiutami nei momenti in cui – come Pietro e Giovanni – 
devo renderla pubblica.
Dammi il coraggio.
Che il Signore ci aiuti a custodire la fede,
a portarla avanti, ad essere, noi, donne e uomini di fede.
Così sia”.

Papa Francesco


Signore,
questa esistenza io l'accetto,
e l'accetto in speranza.

Una speranza

che tutto comprende e sopporta,

una speranza che non so mai

se la posseggo davvero.
Una speranza
che nasce al mio profondo,
una speranza totale
che non posso sostituire
con angosce inconfessate e cose possedute.
Questa speranza assoluta
io me la riconosco e voglio averla:
di essa devo rispondere
come del compito più grande
della mia vita.
Io so, Signore,
che essa non è un'utopia,
ma viene da te,
nasce da te e abbraccia tutto
e tutto comprende come promessa
che l'umanità arriverà
alla pienezza di vita
e ogni uomo potrà davvero
non vergognarsi d'essere uomo.

- Karl Rahner - 






Preghiera per la sera

In te, santo Signore,
noi cerchiamo il riposo
dall'umana fatica,
al termine del giorno.
Se i nostri occhi si chiudono,
veglia in te il nostro cuore;
la tua mano protegga
coloro che in te sperano.
Difendi, o Salvatore,
dalle insidie del male
i figli che hai redenti
col tuo sangue prezioso.
Amen



Buona giornata a tutti. :-)

www.leggoerifletto.it

iscriviti alla mia pagina YouTube:

https://www.youtube.com/channel/UCyruO4BCbxhVZp59h8WGwNg




lunedì 16 marzo 2020

Il figliol prodigo – Padre Silvano Fausti

In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

(Luca, 15 1-3)



Il Padre era sempre lì a guardare, non lo ha mai lasciato: dove andare lontano da lui? Lo vide e poi si commosse.
Non è che lo vide e si arrabbiò, Dio non si arrabbia.
Si commosse.

Proprio il commuoversi in greco fa riferimento alle viscere materne cioè tutto il suo amore gli si muove dentro (come un figlio nel grem­bo della madre) nel vedere il figlio che aspettava da sempre. E dopo questa commozione corre, gli cade sul collo e poi conti­nua a baciarlo, anzi in greco sarebbe letteralmente "lo strabaciava" questo figlio.
Ma poteva almeno far finta di essere un po' sdegnato, di addurre un motivo pedagogico, di girarsi dall'altra parte, di non farsi vedere, di farsi cercare un po', di fargli quel giusto rimprovero per il suo bene, ovviamente.

Perché non lo ha fatto? Perché già diciamo sempre: "Dio ti vede, ti puni­sce...", ed è importante, invece, vedere che Dio fa di tutto per smentire questa immagine che abbiamo di lui.

- Padre Silvano Fausti -



Questo testo è così importante che è chiamato il Vangelo nel Vangelo, cioè se perdessimo tutto il Vangelo e restasse solo questa pagina, sapendo di cosa parla, ed è abbastanza facile, capiremmo chi è Dio e chi siamo noi. 
State attenti, il senso di questo testo è la conversione più radicale che ci sia, non è la conversione del peccatore, non ha bisogno di convertirsi…è la conversione del giusto che è chiamato a convertirsi dalla sua giustizia alla misericordia. 
E’ quello che per Paolo è il passaggio dalla Legge al Vangelo. 
Noi pensiamo che Dio ci salvi perché siamo bravi, perché osserviamo la Legge, quindi bisogna osservare la Legge, andare a Messa, far questo…quest’altro…quest’altro…se no Dio ti punisce…così si dice, così si pensa, così pensa il minore, e allora dice: è meglio andarsene da casa che fare una vita così tutta ossequiante, una vita castrata per l’esistenza intera, senza libertà, senza piacere, senza niente. 
Ed è il Dio che tutte le religioni predicano, che tiene schiavo l’uomo dei suoi doveri…Il minore si ribella, il maggiore lo serve da schiavo, per cui i due fratelli in realtà rappresentano…i fratelli hanno questo…che sono uguali. Tutti e due hanno la stessa falsa immagine di Dio, sia chi fa il bravo religioso, sia chi si ribella…spiego: Satana ha suggerito a tutti che Dio è padrone di tutto, che è legislatore, che è giudice, che ti vede anche dentro e che è boia, cioè ti condanna alla morte eterna se non fai la legge che lui ha stabilito. 
Questa è l’immagine di Dio che tutte le religioni più o meno hanno e la religione prospera su questa immagine di Dio. 
L’ateo cosa fa? O il ribelle… nega questo Dio che le religioni affermano. 
Se Dio è così, io voglio la mia libertà e fare una vita umana, non da schiavo. Bene, il Vangelo ci presenta l’uscita e dall’ateismo e dalla religione della Legge del servilismo per arrivare alla libertà dei figli di Dio e alla religione dell’Amore, la cui unica Legge è l’Amore, che è legge a se stesso ed è libertà. Questa conversione dura tutta la vita e anche tutto l’Antico Testamento è preparazione a questo. Ed è la difficile conversione di Paolo…e Gesù durante il Vangelo non riuscì a convertire nessun fariseo, solo dopo morto ci riesce con uno. 
Il pericolo costante del cristiano, lo vediamo nelle Lettere di Paolo, la lettera ai Romani, la lettera ai Galati è quello di dimenticarsi del Vangelo e dire: “Osservo le norme, basta, sono a posto!”. 
Noi che le osserviamo siamo i bravi, gli altri sono tutti da ammazzare perché sono cattivi, quindi facciamo le Crociate, difendiamo la nostra Legge, difendiamo le nostre cose a tutti i livelli, col potere, con tutti i mezzi e così facciamo i bravi, eliminando possibilmente i cattivi con qualche Crociata…se non si possono più fare i roghi, pazienza..ma verranno i tempi che si faranno ancora e allora riusciremo a trionfare noi col bene. 
Ecco, questa parabola che leggiamo è l’uscita da questa religiosità comune a tutti e ci fa capire l’essenza del Vangelo.

- Padre Silvano Fausti -


Buona giornata a tutti. :-)






mercoledì 11 marzo 2020

Il bene e la coscienza – don Guardini Romano

L'uomo vive e cresce. Intorno, attraverso e dentro di lui si compiono continuamente dei processi, per i quali egli viene per così dire contessuto nella natura, come avviene anche della pianta e dell'animale. 
Per altri riguardi invece se ne distingue. Per una cosa innanzitutto: egli non solo cresce, non solo si muove, non solo opera per l'istinto di conservare e dilatare la propria vita, ma agisce. 
Ora agire significa che io faccio una cosa, che non è semplicemente posta in me stesso; esercito un dominio in me e intorno a me su ciò che è «dato»; che plasmo, produco qualche cosa e me la pongo innanzi; che tendo verso mete e creo opere.
In questo agire v'è un'importante distinzione da fare: ben altro è se agendo voglio soltanto attuare un «fine»; e ben altro, se adempio un «dovere ».
Dei fini ne attuo continuamente. Se voglio trovar qualcuno, devo recarmi da lui; per andarci devo sceglier la via o usare i mezzi di trasporto che mi vi conducono ecc. La vita famigliare, professionale e pubblica costituisce un intreccio di scopi e di azioni ad essi ordinate. 
Il senso di queste azioni è tutto qui: che venga attuato il loro fine. 
Ma il fine voglio raggiungerlo, perché lo vedo necessario o utile alla mia esistenza.
Diversa è la cosa quando si tratta di adempiere un dovere: di dir la verità, perché è giusto il dirla; di lavorare, perché ne ho l'obbligo; di essere giusto, perché ne riconosco il debito. Il dovere lo adempio non già perché con esso voglia raggiungere un fine, - benché in fondo ci sia anche questo, perché il dovere è sempre collegato con dei fini - ma perché è giusto intrinsecamente. 
Il carattere comune di tutte le azioni tendenti ad un fine sta nell'«utile»: si tratta di cosa necessaria o utile alla mia esistenza. Al contrario il carattere comune di ogni dovere; ciò che rimane, se astraggo da tutti i contenuti particolari, sta nella parola: è bene; bene in sé.

Concentriamo dunque la forza del nostro sguardo e la nostra sensibilità su ciò che significa la parola «il bene ». Incontreremo in questo studio ogni sorta di ostacoli. 
Oggi siamo alquanto scettici e a chi ci parla del bene ci vien voglia di rispondere con la domanda di Pilato: «Che cosa è il bene?» - una domanda che non aspetta alcuna risposta, perché chi la pone è persuaso in anticipo di non riceverne alcuna. Certo questo scetticismo ha anche un significato e importa molto che lo si avverta. Ma qui non possiamo addentrarci in questa indagine senza perderci in un labirinto. 
Dobbiamo andare al di là dello scetticismo, attraversandolo, e superarlo. Dobbiamo superare anche le tristi e accascianti esperienze che ci ha forse procurate il nostro sforzo verso il bene... tutti gli smarrimenti del pensiero, della parola e della letteratura della nostra epoca... tutto questo incalzare e tramutarsi intorno a noi spesso così caotico e così impenetrabile alla sguardo, che ci sembra impossibile di raccapezzarvisi... questo e altro ancora dobbiamo superare.

Noi dobbiamo far parlare quello che in noi v'è di intimo. Esso ci dice: il bene esiste! Esiste quel carattere supremo che può posarsi sull'azione meno appariscente e conferirle il suggello di un'assolutezza, superiore ad ogni scopo particolare. 
Esiste quel qualche cosa di definitivo, che non può più venir discusso ed ha in sé la nota della grandezza genuina. Esiste quel vertice supremo, sul quale, quando tutto si sconvolge e va alla deriva, posso rifugiarmi dicendo: «Ho voluto il bene ». 
Questo esiste. Quel qualche cosa che non dipende da nulla d'altro ma esiste in sé; che non riceve la sua giustificazione dal di fuori, ma porta la sua dignità in se stesso, quel qualche cosa, davanti al quale non è lecito restare indifferenti, se non si vuol mettere a repentaglio con leggerezza la propria intima dignità.

Il bene è quell'ultima cosa non più discutibile, alla quale è legato il mio supremo e non più discutibile destino.
Ora questo bene non è campato in aria, quasi estraneo, in uno spazio inaccessibile. 
Il bene è in relazione con me; mi tocca. C'è in me qualche cosa che per sua natura risponde al bene, come l'occhio alla luce: la coscienza.

E qui di nuovo dobbiamo superare un impedimento. Fra le tendenze dell'età moderna v'è quella di negare radicalmente l'assolutezza della coscienza. Di ridurre la coscienza ad una questione di temperamento, e quindi contrapporre all'uomo «morale» un uomo «amorale», oppure ridurre la coscienza a un prodotto della storia o dell'ambiente sociale. Così essa sarebbe qualche cosa che è maturata a poco a poco, che si è acquistata con l'educazione e che potrebbe anche scomparire di nuovo. 
Bisogna anche qui farsi largo attraverso un intrico di semiverità sociologiche, psicologiche e storiche fino al fatto elementare: la coscienza esiste! Esiste in noi quel supremo qualche cosa, che è in relazione col bene, che risponde al bene come l'occhio alla luce.

 La forza di questa risposta può venire infirmata; può, per atavismo o influsso dell'ambiente, venire attutita e tratta in errore da esperienze personali. Ma quando vogliamo vedere una cosa, dobbiamo cercarla là dove si presenta nella sua piena luce; allora siamo in grado di giudicarla, anche quando è offuscata. E allora siamo costretti a dire: la coscienza esiste. 
La portiamo viva in noi. Essa si fa sentire; nel bene come nel male.
E per comprenderne subito la natura particolare, cerchiamo di penetrare un po' la parola: coscienza. È qualche cosa di più che il puro «sapere qualche cosa». Significa consapevolezza di qualche cosa. Vi è incluso dunque un carattere di interiorità; significa un aver presso di sé; un trovarsi, da solo a solo, con qualche cosa; un abbracciare e un penetrare. Racchiude una profondità che si esplica nella proposizione: « Sono conscio, a me stesso, che ciò è bene ». Qualche cosa di intimo dunque; qualche cosa che sta in rapporto con quello che esprime l'antico concetto di «fondo dell'anima», di scintilla animae.

Ma la cosa che si conosce in tal modo è appunto il bene. Lasciamo stare, ora, per un momento tutto questo e procediamo nelle domande.
Il bene - che cos'è il bene? Se ci riflettiamo, rispondiamo interiormente con un atteggiamento stranamente contraddittorio: abbiamo la sensazione di trovarci davanti a qualche cosa che ci è molto familiare. Ci sembra di conoscerlo; di avere chiara la percezione del suo carattere e della sua natura. E al tempo stesso rimaniamo sospesi, disorientati, incapaci di formulare e di concretare. Questo qualche cosa, che pur conosciamo, sembra scivolarci di mano, non appena lo vogliamo afferrare. 
Ricorre alla mente la parola di Agostino: «Se non me lo chiedi, lo so. Ma se me lo chiedi ed io debbo dirlo, allora non lo so ». Che significa questo?
Dapprima e innanzi tutto: il bene è qualche cosa. È non soltanto un «come», una forma, come, ad es., sarebbe espressa nella proposizione: «Importa non tanto quello che si fa, quanto che nel fare si abbia intenzione». Il «fare con buona intenzione» potrebbe essere una pura forma capace di ogni contenuto. Tutto potrebbe «venir fatto con buona intenzione». Ma non è così. Ciò sarebbe relativismo, scetticismo. Se consideriamo a fondo, avvertiamo esattamente che il bene è un qualche cosa che bisogna volere; un contenuto. Ma che cos'è dunque?

Il bene è il bene. Non lo possiamo scomporre in elementi più semplici. Non possiamo dire, a mo' d'esempio: il bene è l'amore del prossimo; ovvero, è la fedeltà verso se stessi. Avremmo soltanto una parte, una manifestazione del bene. D'altro canto non possiamo nemmeno dire: il bene è il vero, bensì - appunto il bene. È quello che è.
È però sempre un contenuto; qualche cosa di positivo; più ancora: è positività pura e semplice. Compendio ideale di dignità, di grandezza, di valore. 
Qualche cosa, oltre la quale non posso spingermi; che esiste in sé, appunto perché è una totalità ideale infinita (unendlicher Inbegriff).

Ma non basta ancora: il bene è qualche cosa di vivente. Non un'idea astratta, non una semplice «legge», ma qualche cosa di spiritualmente vivo. Me lo dice l'esperienza. Tale mi si presenta interiormente, e come tale tocca la mia coscienza.
Io non posso ridurre il bene ad altra cosa, poiché esso stesso è un termine ultimo. Ma non ne ho nemmeno bisogno, come se per comprenderlo dovessi ricorrere all'aiuto di altri concetti; perché la forza del suo contenuto, del suo « Sì », del suo: «Così », del suo « Questo» è intuitiva. Lo si comprende direttamente.
Inoltre: il contenuto del bene è infinito, come del pari la sua validità è assoluta. Quando cerchiamo di afferrarlo nella sua purezza, sentiamo che la profondità di questo contenuto è insondabile, la sua ampiezza incommensurabile, la sua pienezza inesauribile, la ricchezza delle sue qualità e del suo valore incalcolabile. L'infinità del contenuto appartiene all'essenza del bene. Nello stesso tempo però il bene è affatto semplice. La filosofia greca, per misurare il grado di nobiltà di un essere, conosce un criterio che dice: un essere è tanto più elevato, quanto più ricco contenuto abbraccia e al tempo stesso quanto più è semplice. Ecco dunque: il bene è contenuto infinito e semplicità perfetta.

Ma è appunto di qui che deriva la difficoltà di rispondere alla domanda: che cosa è il bene? Lo sguardo si smarrisce nella pienezza del contenuto; e la semplicità fa sì che questo sfugga all'occhio.Tuttavia la domanda rimane: Che cosa è il bene?
Per mio conto ho cercato di rispondervi nel seguente modo: Il bene vivente batte alla mia coscienza. Accolto dalla mente e dal cuore, esso preme per essere tradotto in azione umana. Il primo e più importante compito della coscienza consiste nell'avvertire la voce imperiosa del bene, che vuol essere attuato in modo degno dell'uomo. Il bene dunque domanda e insiste: «Accoglimi! Intendimi! Voglimi! Attuami!». La coscienza risponde - supponiamo che risponda così! certo può opporre anche un rifiuto o schermirsi - essa risponde dunque: «Voglio! Tu, o bene...». Ma qui si arresta e riflette: «Se ti voglio tradurre in atto... che devo fare? Tu, bene - che cosa sei tu? ». In un primo momento non segue risposta alcuna. Non è infatti possibile esprimere senz'altro ed esaurientemente il bene in contenuti concreti e realizzabili. A tale domanda il bene tace. Ma la cosa non finisce lì. Nell'istante che segue, supponiamo, dev'esser fatto qualche cosa per dovere professionale. Ed ecco venire la risposta: «Ciò che qui va fatto; che venga fatto in retta conformità alle esigenze delle cose, - ecco quello che sono », dice il bene.
In altre parole: che cosa sia il bene, che domanda di essere tradotto in atto, risulta chiaramente da ciò che di volta in volta deve compiersi. 
 Qui abbiamo da chiarirci un concetto importante: quello della situazione.

Noi distinguiamo fra « situazione» e « caso ». Vorrei mettere in evidenza questa distinzione con un aneddoto. In un crocchio si racconta la storia di due mercanti che attraversano il deserto. Un giorno l'acqua accenna ad esaurirsi. La provvista basta ancora appena per uno. Ora i presenti discutono intorno a quello che debbono fare i mercanti. Spartire l'acqua e poi morire? Oppure è il caso che il più anziano beva e il giovane si sacrifichi? O deve cedere il più anziano per amore della vita del giovane? Ma ecco un vecchio signore alzarsi e dire: «Il vostro discorso è ozioso. Nel caso, che noi consideriamo, manca quello che è decisivo, cioè manchiamo noi stessi! Si tratta di un caso puramente teorico, che non ci riguarda. Fossimo noi stessi in quella situazione, allora sì sapremmo quello che ci toccherebbe fare ». 
Ora la distinzione ci balza negli occhi: «caso» significa una combinazione di uomini, di circostanze e di fatti, nella quale non c'entro. Non mi impone doveri. Posso considerarlo da un punto di vista puramente teorico. «Situazione» invece vuol dire un complesso di uomini, di circostanze e di fatti, dei quali io faccio parte; che mi riguardano; che esigono da me qualche cosa. Del caso posso non curarmi, ma della situazione no. Essa esige che io prenda posizione, che mi decida, che agisca.
Ora, è appunto la situazione a dirmi che cosa sia il bene. 
Il comando di esser tradotto in atto da parte del bene, comprensivo di tutto e al tempo stesso affatto semplice, riceve di continuo, ad ogni passo che faccio, un nuovo significato dalla situazione sempre nuova, che si riproduce intorno a me. 
Il rapporto col bene può essere considerato sotto vari aspetti. 
Il punto di vista che noi abbiamo scelto potrà aver naturalmente le sue deficienze; esso ci svelerà però sempre qualche cosa di molto importante: la grandezza di quel rapporto e il fatto ch'esso è vivo e concreto.

Il rapporto morale è qualche cosa di grande. Prendiamo la parola nel suo significato più ovvio. Lo scardinamento morale della nostra epoca deriva pure in buona parte non già dal fatto che il dovere morale venga sentito come un peso troppo grave, ma che lo si vede come troppo meschino; dal fatto che lo si degna appena di uno sguardo superficiale e svogliato. Il dovere morale non è una forma vuota, ma pienezza di contenuto; non è povertà, ma ricchezza infinita. Esso batte alla mia coscienza, al mio cuore e vuol esser compreso, affermato, attuato. C'è qualche cosa di inesprimibilmente grande nella consapevolezza di essere quasi un ambasciatore del bene nel mondo, un esecutore della sua missione. Di esser colui, al quale è affidato il destino del bene - che è pur la cosa più sublime, ma anche, appunto per questo, la più delicata, e, in questo mondo di violenze, la più debole. Il bene non diventa realtà, se non lo attuo. Meditiamo tutto ciò col più nobile orgoglio del nostro cuore!
Il bene non è una legge morta. È la vita infinita che vuol essere inserita in questa realtà. Nella sua pura essenza questa vita è per noi inesprimibile; appunto perché è infinita e nello stesso tempo semplicissima. Ma essa vuole assumere una figura terrena, umana. È ciò che avviene nell'azione morale. L'attività morale ha in sé qualche cosa di misterioso. Non è soltanto adempimento di una legge, esecuzione di una norma, ma donazione di vita. È una generazione e una immissione di nuova vita nella realtà finita, realtà finita ed umana che con ciò consegue una pienezza di senso eterna.

Il fare il bene equivale perciò ad una vera creazione. Non è semplice esecuzione di un ordine, ma attuazione creatrice di qualche cosa che ancora non è. La nostra vita morale s'impoverisce perché diventa noiosa. Perché per lungo tempo, sotto l'influsso di un'etica razionalistica, sotto l'influsso del formalismo kantiano e di una morale schematizzata, venne concepita come semplice esecuzione di ordini. Ma non è così. Dobbiamo accostarci una volta con orecchio intento a Platone, in cui per primo si fece strada la coscienza del problema, per sentir tutta la passione creatrice dell'azione morale. Nell'attività morale si tratta di render reale, umanamente reale quello che ancora non lo è. Si tratta di dar forma terrena a qualche cosa di eterno e di infinito.
Ma ciò importa due cose: anzitutto, che noi afferriamo quella cosa grande ed eterna, che è il bene. Come? Con qual mezzo? Con l'unica forza che può afferrarlo: con la libertà della nostra volontà, o meglio del nostro cuore, la quale dice: «Sì, sono pronta al bene»; la quale si erge e vuole e si protende verso il bene, ne «sente la fame e la sete», e lotta per raggiungerlo col sentimento profondo, che si apre, accoglie, ospita, «fino che tutto è lievitato», tutto purificato e nobilitato. E quanto più pura la prontezza, quanto più risoluta la volontà; quanto più profondo e più forte il desiderio; quanto più aperto, più puro e più pienamente disposto il nostro intimo, tanto più saldamente e pienamente possediamo il bene, nel nostro spirito e nel nostro cuore.
Ma poi, con le opere, dobbiamo trasfondere il bene nella realtà, altrimenti esso resta aspirazione infeconda. Bisogna che ne imprimiamo la forma nella materia della realtà che ci circonda: nella situazione. Ciò vuol dire che dobbiamo afferrare ciò che è nuovo; quello che qui mi sta attorno: uomini, avvenimenti, cose, circostanze. Tutto ciò arriva, diviene, si articola, qui, adesso - e in questo momento bisogna che lo afferri. Devo vedere: che cosa importa per me tutto questo che mi circonda? A quali cose devo rivolgere il mio sguardo? Il mio giudizio? Che cos'è qui il bene? Vedere, giudicare, deliberare, fare tutto ciò; chiaramente, magnanimamente, ponderatamente, risolutamente; con atto energico e netto, che abbia sangue e colore, lo slancio del cuore e la sicurezza della mano - questo significa fare il bene.

Agire moralmente significa quindi creare qualche cosa; non in pietra o in colore o in suono, ma nella materia reale della vita. Il mondo è sempre incompiuto. Esso ci viene incontro incessantemente sotto forma della situazione, affinché, con l'attività morale, lo portiamo a compimento, dandogli l'impronta del bene. La vita morale è disertata su larga scala. Le forze creatrici si sono trasferite al servizio di un'arte raffinata, di un'attività politica sfrenata, di un'economia pura o di qualsiasi altra cosa. È tempo che riconosciamo di nuovo che l'attività morale è una creazione e vi convogliamo di nuovo le vive energie morali.

La moralità non è un affare speciale, accanto ad altri, poiché essa si estende a tutta la realtà. Il suo contenuto si estende a tutto ciò che esiste. Tommaso d'Aquino dice: «Bisogna fare il bene. Ma che cos'è il bene? Quello che di volta in volta si presenta come ragionevole, conforme all'essere ». Ma questa «cosa di volta in volta conforme all'essere» è appunto la situazione con tutta la pienezza del suo contenuto; la vita che nella situazione mi viene incontro in forma sempre nuova, con tutto quello che in essa si contiene. Tanto più grande è il valore dell'atto morale, quanto più pienamente io afferro il ricco contenuto della situazione dal fatto che io veda la pienezza di contenuto della realtà, affinché il bene, semplice e comprensivo, possa manifestarvi la sua ricchezza.
Ma con ciò torniamo alla questione del disorientamento morale del nostro tempo. Questo disorientamento esiste. E non soltanto perché manca la gioia della creazione morale, ma anche perché, in mezzo a tutte le trasformazioni della nostra epoca, si sono perse di vista le linee fondamentali della morale. Hanno preso campo la confusione nella terminologia morale stessa e la diffidenza contro le forme morali correnti. Non investighiamo le cause di questo fenomeno. Saranno da ricercarsi nel soggettivismo, nell'insofferenza di freni e nella sbrigliatezza, che sono la caratteristica della nostra età. In parte dovranno attribuirsi anche al pensiero morale tradizionale, che per molti riguardi si è fossilizzato in forme lontane dalla viva realtà. Ognuno la pensi come vuole. In ogni caso sta il fatto che ci troviamo di fronte ad un disinteressamento e ad un disorientamento morali assai diffusi. A giudizio di molti l'atto morale non compensa il serio sforzo che esige. Altri a loro volta, che sarebbero pronti a tale sforzo, non sanno da che parte incominciare. Si sentono come sperduti nel caos, non vedono chiaro circa le norme e non sanno mettersi d'accordo.
Qui si vuol stimolare al lavoro; della ricerca, del pensiero, dello scambio d'idee. Importante soprattutto però ci sembra che vengano incoraggiate in tutti i modi le energie dell'attività morale; che l'uomo comprenda il dovere morale nella sua grandezza e nella sua pienezza. Che acquisti consapevolezza delle sue forze. Che purifichi sinceramente i suoi sentimenti e poi si metta all'opera con fiducia. Bisogna che sorga l'uomo, che compie con gioia e con serietà il dovere morale; che brama il bene; che si sente incalzato, eccitato e intimamente assorbito dal dovere morale; che ha gli occhi aperti per quello «che deve fare» e per quello che gli uomini, avvenimenti e cose reclamano; che sa volere e sa impegnarsi a fondo. Che quest'uomo sorga, che si metta all'opera e poi il ristagno morale sarà superato. I doveri allora si presentano da sé e le mète diventano chiare. Le parole vengono senza fatica, e si ricostituisce la comprensione e l'unione delle volontà. Allora tutta la pienezza della verità e della sapienza, contenuta nella morale cristiana, verrà di nuovo sentita e sarà accolta con rispetto.
Se questo è importante per l'uomo, è importante anche dal punto di vista della donna, la quale oggi ha una larga parte nel pensiero e nell'azione. L'uomo in fin dei conti può anche vivere sotto una ferrea disciplina; diciamo meglio: lo può meglio d'altri. Ma la donna intristisce in tale condizione. Tutta la sua attività in prima linea è diretta non ad un lavoro. Anche al lavoro; ma in prima linea e più propriamente alla vita. La donna non attua delle norme, ma a quello che interiormente incalza dà corpo e terrena esistenza. La via dalla ricchezza infinita alla forma particolare: ecco il suo compito più profondo. La realtà dell'essere e della vita, ovunque si manifestino e in tutta la loro ricchezza, è ciò che la sostanzia. Questa realtà deve accostarsela al cuore e metterla in contatto con la sua vita, affinché diventi materia capace di quella forma.

Ed ora ritorniamo al concetto della coscienza. 
Coscienza è, anzitutto, quell'organo, per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo: « Il bene esiste; ha un'importanza assoluta; il fine ultimo della mia esistenza è legato ad esso; il bene bisogna farlo; questo fare decide di un destino supremo ». La coscienza però è anche l'organo, mediante il quale dalla situazione ricavo il chiarimento e la specificazione del bene; mediante il quale posso conoscere che cosa sia il bene in questo determinato luogo e in questo determinato momento. L'atto della coscienza è dunque quell'atto, col quale penetro di volta in volta la situazione e intendo che cosa sia, in tale situazione, il giusto, e per ciò stesso il bene (1).
Così la coscienza è anche la porta, per la quale l'eterno entra nel tempo. È la culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga « storia », la quale significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno entra nel tempo.
Ma ciò non corre così liscio e cozza contro difficoltà.
Anzitutto la «situazione» è spesso tutt'altro che semplice. Esigenze molteplici e perfino contraddittorie vi trovan luogo. Le più diverse relazioni d'uomini e di cose vi si collegano, si incrociano e si contraddicono a vicenda. Quanto più desta è la sensibilità per le esigenze degli uomini, delle cose e delle circostanze, tanto più difficile diventa il riconoscere quello che in definitiva si debba fare. Formare la coscienza vuol dire appunto allargare l'angustia dello sguardo per abbracciare la molteplicità delle forme, superare l'ottusità della sensibilità ai molteplici valori che ci rivolgono il loro appello, significa che l'uomo affini la sua sensibilità per comprendere a pieno e nelle loro sfumature le esigenze morali. Ma nella misura in cui questo avviene, cresce il pericolo opposto: che egli si perda in questa molteplicità e che a furia di voler vedere, capire e rettificare, non arrivi alla decisione e all'azione.
In secondo luogo: ogni situazione, che mi si presenta, arriva un'unica volta. Essa non è mai esistita e non tornerà più. Vi sono, è vero, delle somiglianze. Non è la prima volta che un uomo viene e chiede di essere aiutato. In realtà però esiste, non « un uomo », ma sempre solo « quest'uomo ». E che « egli» com'è, si presenti a me, come sono, in queste determinate circostanze e con questa domanda, avviene quest'unica volta. E se tornasse anche domani con la stessa preghiera, e per il medesimo favore, si sarebbe modificato in noi almeno questo, che la nostra età avrebbe fatto un passo innanzi e che si sarebbe accumulato in noi tutto quello che dopo l'ultimo incontro avremmo fatto ed esperimentato. Ogni situazione si presenta una unica volta. Per cui anche quello che deve avvenire in essa non è mai avvenuto e non tornerà più. Bisogna dunque che venga divinato e plasmato per la prima volta. Certo ci giova l'esperienza del passato; ci giovano gli educatori, gli amici, l'ambiente, con princìpi generali e con esempi analoghi. Ci soccorrono il comandamento positivo divino e il precetto dell'autorità legittima posta da Dio. Ma con ciò non veniamo esonerati dal compito di afferrare questa situazione nelle sue specifiche particolarità, di interpretarla e di decidere quello che debba esser fatto, per corrispondere appieno alle sue esigenze. E il grado di perfezione dell'azione morale dipende appunto dalla misura, nella quale vien capita la situazione nella sua unicità. Certo abbiamo bisogno della regola. Essa ci mostra quello che vi è di tipico nella situazioni e ci aiuta così a comprenderle. Ma quanto più nell'agire badiamo a ciò che è tipico, tanto più ci accorgiamo di svuotare la situazione, e ci sentiamo spronati ad attendere al momento contrapposto, vale a dire, a ciò che è specifico, anzi unico.
E ancora una terza cosa: ci fosse pure concesso di volere inequivocabilmente il bene in tal modo comandato! Ma purtroppo non è così! In verità noi siamo spesso ricalcitranti, se non proprio con la nostra volontà consapevole, almeno con una resistenza incosciente. Quello che la dottrina della fede ci insegna del male nascosto nell'uomo, e cioè della sua resistenza al bene, trova nella psicologia moderna il suo fondamento scientifico formale. Questa ci mostra infatti che noi non siamo mai senza impulsi della volontà e senza tendenze. Anche quando crediamo di esaminare senza prevenzioni e di agire oggettivamente, stiamo sotto l'influsso di impulsi positivi o negativi. Questi in certe circostanze sono del tutto inconsci e perciò inaccessibili alla nostra consapevole esperienza; ovvero provengono dalla subcoscienza e balenano appena..., e così attraverso tutte le gradazioni di parziali consapevolezze fino alle intenzioni chiare. Questi impulsi però non sono affatto sempre rivolti al bene. Al contrario. Ed influiscono non soltanto su quello che facciamo, ma anche sulla nostra conoscenza e sul nostro giudizio. Essi deviano lo sguardo dal suo oggetto; accentuano nell'oggetto dei lati particolari o li attenuano; lumeggiano od offuscano; alterano; anzi possono far scomparire del tutto una circostanza di fatto.

Ed ecco che appare chiaro, quale compito spetti alla coscienza.
Il suo sguardo dev'essere aperto per abbracciare pienamente tutto il contenuto della situazione; per vedere gli uomini, quali sono; per sapere quali siano le circostanze e quali i rapporti, e quali esigenze debbano venir prese in considerazione. Questo sguardo deve tenersi libero da tutto ciò che può offuscarlo, impedirlo e distrarlo. Sempre più interiormente deve compenetrarlo la limpidezza, la quale sa vedere, perché vuole veramente vedere. Tutta la molteplicità oggettiva della situazione deve venir colta e interpretata secondo la visuale definitiva, che ne dia il significato.
Significato definitivo di una situazione non ancora esistita e che non tornerà più; per la quale posso però e debbo imparare dall'esperienza dell'umanità, dall'esperienza di coloro che mi hanno educato e dalla mia stessa esperienza precedente, poiché il principio universale e l'incontro vivo e concreto si spiegano l'un l'altro reciprocamente. 
Tutto questo però non mi solleva dal compito di appigliarmi al nuovo che si presenta soltanto qui e di plasmarlo con gli elementi che esso stesso mi offre; dal compito di guardare e di interpretare, di ardire e di creare.
Ma quando la situazione è tale da ammettere diverse interpretazioni e da non offrire alcuna chiara direttiva per l'azione, allora è la coscienza che deve decidere. 
Allora essa deve dichiarare: «Il meglio è questo. Così bisogna agire! ». E tale decisione deve mantenerla ed eseguirla.
La coscienza è dunque l'organo per l'eterna esigenza del bene, che deve venir attuato: la coscienza è per l'uomo come una finestra aperta sull'eternità. 
Una finestra però che allo stesso tempo dà anche sul corso del tempo e sugli avvenimenti quotidiani. 
La coscienza è l'organo, che trae l'interpretazione del comandamento del bene, eterno e sempre nuovo, dai fatti concreti; l'organo col quale sempre di nuovo si riconosce in qual modo il bene eterno ed infinito debba venir attuato nella specificazione del tempo. 
È un obbedire e al tempo stesso un creare; un comprendere e un giudicare; un penetrare e un decidere.
  
1) Affinché si chiarisca completamente quel che s'è detto, dovrei accennare al fatto che alla situazione appartiene tutto quello che concerne la persona la quale vi si trova, e che il suo peso si commisura al significato che ha in se stessa. La parola della Rivelazione, la dottrina della Chiesa, la tradizione cristiana perciò le appartengono ed esigono di ricevere una valutazione corrispondente al loro peso ontologico proprio nel giudizio d'essa. Una interpretazione della situazione, che prescindesse da tali elementi, non coglierebbe la realtà quale essa è.


Romano Guardini
Fonte: La coscienza,  Ed. Morcelliana, 1977


Si racconta che un giorno i demoni mentre Macario stava mietendo, gli presero la falce e minacciarono di ucciderlo. Macario però non si impaurì ma gridò: “Se il Signore ve ne ha dato il potere, fatela cadere su di me, altrimenti andatevene nelle tenebre”. 
Vinti dal coraggio di Macario i demoni si misero a gridare: “Con te abbiamo finito per sempre perché tutta la fatica affrontata per combatterti è stata vana. Non abbiamo guadagnato nulla da te”. 
E Macario rispose: “Non è la mia forza a far questo, ma la grazia di Dio”

- s. Macario il Grande -
da: Vita copta





Buona giornata a tutti. :-)



venerdì 6 marzo 2020

Al Suo Posto - don Bruno Ferrero

Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina. In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevùto il significativo titolo di "Cristo delle grazie". 

Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.

Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all'immagine, pregò: "Signore, voglio soffrire con te. Lasciami prendere il tuo posto. Voglio stare io sulla croce".
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.
Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse: "Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione: qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio".
"Te lo prometto, Signore".
Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c'era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell'eremita. 


I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva. Finché un giorno...

Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d'oro. Sebastiano vide, ma conservò il silenzio. 


Non parlò neppure un'ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò. Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare. Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l'uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d'oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.

Si udì allora un grido: "Fermi!".
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare. Sebastiano spiegò come erano andate le cose. Il ricco corse allora a cercare il povero. Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio. Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò.
"Scendi dalla croce. Non sei degno di occupare il mio posto. Non hai saputo stare zitto".
"Ma, Signore" protestò, confuso, Sebastiano. "Dovevo permettere quell'ingiustizia?".
"Tu non sai" rispose il Signore, "che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un'ingiustizia. Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro. Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l'imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare".

- don Bruno Ferrero -
Fonte: C'è Qualcuno Lassù, Casa Editrice: ElleDiCi





La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano. 

- Papa Benedetto XVI -
(Caritas in veritate, 34) 




Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno, tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l’altrui sviluppo integrale. 
Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio.

- Papa Benedetto XVI -
(Caritas in Veritate, 43)



Buona giornata a tutti. :-)


iscriviti al mio canale YouTube.