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martedì 18 ottobre 2022

La principessa - don Bruno Ferrero

 C'era una volta un re che aveva una figlia di grande bellezza e straordinaria intelligenza.
La principessa soffriva però di una misteriosa malattia. Man mano che cresceva, si indebolivano le sue braccia e le sue gambe, mentre vista e udito si affievolivano. Molti medici avevano invano tentato di curarla.
Un giorno arrivò a corte un vecchio, del quale si diceva che conoscesse il segreto della vita. Tutti i cortigiani si affrettarono a chiedergli di aiutare la principessa malata. Il vecchio diede alla fanciulla un cestino di vimini, con un coperchio chiuso, e disse: «Prendilo e abbine cura. Ti guarirà».
Piena di gioia e attesa, la principessa aprì il coperchio, ma quello che vide la sbalordì dolorosamente. Nel cestino giaceva infatti un bambino, devastato dalla malattia, ancor più miserabile e sofferente di lei.
La principessa lasciò crescere nel suo cuore la compassione. Nonostante i dolori prese in braccio il bambino e cominciò a curarlo. Passarono i mesi: la principessa non aveva occhi che per il bambino. Lo nutriva, lo accarezzava, gli sorrideva. Lo vegliava di notte, gli parlava teneramente. Anche se tutto questo le costava una fatica intensa e dolorosa.
Quasi sette anni dopo, accadde qualcosa di incredibile. Un mattino, il bambino cominciò a sorridere e a camminare. La principessa lo prese in braccio e cominciò a danzare, ridendo e cantando. Leggera e bellissima come non era più da gran tempo. Senza accorgersene era guarita anche lei.


Signore, quando ho fame mandami qualcuno che ha bisogno di cibo;
quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua;
quando ho freddo, mandami qualcuno da riscaldare;
quando sono nella sofferenza, mandami qualcuno da consolare;
quando la mia croce diviene pesante, dammi la croce di un altro da condividere;
quando sono povero, portami qualcuno che è nel bisogno;
quando non ho tempo, dammi qualcuno da aiutare per un momento;
quando mi sento scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare;
quando sento il bisogno di essere compreso, dammi qualcuno che ha bisogno della mia comprensione;
quando vorrei che qualcuno si prendesse cura di me, mandami qualcuno di cui prendermi cura;
quando penso a me stesso, rivolgi i miei pensieri ad altri.

- don Bruno Ferrero -
da: "365 storie per l'anima" - Elledici Editore


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lunedì 26 settembre 2022

Il grillo del signor Fabre - don Bruno Ferrero

Siamo a Londra. In una vasta e tumultuosa via alberata di Londra. Strepito di cavalli e di carrozze, vociare di mercanti e di strilloni. Trambusto di uomini e di mezzi. Chi corre perché ha fretta. Chi passeggia. Un po' di tutto. Un via vai continuo. Ma ecco... quel signore che si è fermato. 

Pare in ascolto. Ma di che? Trattiene per un braccio l'amico e gli sussurra: "Senti? C'è un grillo!". L'amico lo guarda stralunato: com'è possibile sentire il cri-cri di un grillo in quel mondo di rumori? "Ma cosa dice, professore? Un grillo?!". E il signore, che si è fermato, come guidato da un radar, si accosta lentamente a un minuscolo ciuffo d'erba ai piedi di un albero. 

Con delicatezza sposta steli e dice: "Eccolo!". L'amico si curva. E' davvero un piccolo grillo. Stupore per il fatto del grillo a Londra. Ma doppio stupore per averlo sentito. D'accordo. Per avvertire certe "voci", occorre grande capacità d'ascolto. E quel signore ce l'aveva.

Era il grande etmologo francese Jean Henry Fabre. E la sua grande capacità di ascolto era rivolta in modo specifico al mondo degli insetti.

"Ma come ha fatto a sentire il grillo in tutto questo chiasso?" domanda l'amico al signor Fabre, mentre riprendono il cammino.

"Perché voglio bene a quelle piccole creature. Tutti sentono le voci che amano, anche se sono debolissime. Vuoi che proviamo?".

Il signor Fabre si ferma. Estrae dal borsellino una sterlina d'oro e la lascia cadere a terra. E' un piccolo din, ma una decina di persone che camminano sul marciapiede si voltano di scatto a fissare la moneta.

"Hai visto" dice il signor Fabre, "Queste persone amano il denaro e ne percepiscono il suono, anche tra lo strepito più chiassoso".

Per avvertire certe "voci" occorre una grande capacità di ascolto. E la capacità di ascolto di certe "voci" c'è, se tu quelle "voci" le ami. 

Il signor Fabre è stato un grande nel mondo degli insetti per la sua capacità di ascolto, scaturitagli dal suo amore verso quelle piccole creature.

Chi vuol diventare "grande" - in qualunque campo, soprattutto nel "campo" di Dio" - deve avere una grande capacità di ascolto. 

- don Bruno Ferrero - 
da "Il canto del grillo", don Bruno Ferrero, ed. Elledicì


Una giovane e povera donna col suo piccolo bambino era ritornata stanca morta nella grande sala che l’ospitava. Aveva percorso a piedi strade e piazze cercando di elemosinare qualche spicciolo. Mise il bambino a dormire in un angolo e lei si buttò su un vecchio divano sprofondando immediatamente in un sonno profondo.
All’esterno, un martello pneumatico iniziò la sua canzone con un fracasso insostenibile… Erano in corso lavori di restauro. Ma la donna dormiva profondamente. Come facesse a dormire con tutto quel fracasso non si sa.
All’improvviso la donna scattò in piedi tra la sorpresa dei presenti… Un piccolo lamento, quasi un vagito del piccolo ebbe la forza di risvegliare la donna. Nessuno l’aveva sentito: troppo forte era il rumore causato dal martello pneumatico. Ma la mamma l’aveva subito sentito nonostante la stanchezza e il sonno.

Per avvertire certe “voci”, occorre l’amore dell’ascolto. 

- Padre Salvatore Brugnano -


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venerdì 16 settembre 2022

La grotta azzurra - don Bruno Ferrero

Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava a casa spossato e pieno di malumore. Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini del bar.
"Quelli sì che stanno bene", brontolava l'uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d'uva nel torchio. "Non sanno cosa vuol dire tribolare... Tutte rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!".
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell'uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.
"Ah, sei tu, Signore?" disse l'uomo, quando lo vide. "Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant'è pesante la croce che mi hai imposto". L'uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise bonariamente. “Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un'altra scelta", disse.
L'uomo si trovò all'improvviso dentro una enorme grotta azzurra. L'architettura era divina. Ed era tempestata di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
"Sono le croci degli uomini", disse il Signore, “scegline una". L'uomo buttò con malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina. ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e sacrificio.
Un'altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell'uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi.
Afferrò una croce d'argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po' logorata dall'uso. Non era troppo pesante, né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L'uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. "Prendo questa!", esclamò. Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell'istante l'uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.

"Come in un sogno mattutino, la vita si fa sempre più luminosa a mano a mano che la viviamo, e la ragione di ogni cosa appare finalmente chiara" (Ricther).

- don Bruno Ferrero -
da "Il canto del grillo", ed. Elledici


Quando la malattia o un lutto entrano nella nostra vita ci sdraiamo sulla croce e d'improvviso, ci accorgiamo che è già occupata. Lì si incontra Gesù Cristo.

 

Se non trovo altro modo, si può consolare una persona anche col silenzio, con la sola presenza, purché si faccia con amore: basta un sorriso che esprima la dolcezza della comprensione. Meglio se il silenzio è accompagnato dalla preghiera del cuore. In questo caso forse mi sarà suggerita anche qualche parola. Da chi? Dallo Spirito Santo, che è il vero Consolatore.

Agata Fernandez Motzo, Mio tutto oltre la morte


Buona giornata a tutti :-)

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mercoledì 10 agosto 2022

La matassa di lana - don Bruno Ferrero

 Si fece una gran festa alla corte del re, per celebrare il suo ingresso nella città capitale. 
Il re riceveva nel salone delle feste i doni e gli omaggi. Erano tutti doni preziosi: armi cesellate, coppe d’argento, tessuti di broccato ricamato d’oro. 
Il corteo dei donatori stava esaurendosi, quando apparve, zoppicando e appoggiandosi pesantemente ad un bastone, una vecchia contadina con i pesanti zoccoli di legno. In silenzio trasse dalla gerla un pacchetto accuratamente avvolto in un telo. 
Uno scoppio di risate accompagnò il movimento della donna che depose ai piedi del trono una matassa di lana bianca, ricavata dalle due pecore che erano tutta la sua fortuna e filata nelle lunghe sere d’inverno. 
Senza una parola, il re si inchinò dignitosamente poi diede il segnale di incominciare la festa mentre l’anziana contadina attraversava lentamente la sala, scorticata dalle occhiate beffarde dei cortigiani. 
Riprese penosamente il suo lungo cammino, di notte per tornare alla sua baita costruita nella foresta reale dove fino a quel momento la sua presenza era stata tollerata. 
Ma quando arrivò in vista della sua casa si fermò invasa dal panico. La baita era circondata dai soldati del re. 
Stavano piantando dei picchetti tutt’intorno alla povera abitazione, e sui paletti stendevano il filo di lana bianca. 
"Mio Dio", pensò la povera donna, con il cuore piccolo piccolo, "il re si è offeso per il mio dono... Le guardie mi arresteranno e mi porteranno in prigione..."
Quando la vide, il comandante delle guardie si inchinò cortesemente e disse: "Signora, per ordine del nostro buon re, tutta la terra che può essere circondata dal vostro filo di lana d’ora in poi vi appartiene."
Il perimetro della sua nuova proprietà corrispondeva esattamente alla lunghezza della sua matassa di lana.
Aveva ricevuto con la stessa misura con cui aveva donato.


Tutto il bene, dunque, che possiamo fare a qualunque essere umano, facciamolo subito. 
Non rimandiamo a più tardi, né trascuriamolo poiché non passeremo nel mondo due volte.
Nella vita si riceve sempre con la stessa misura con cui si ha donato...

- don Bruno Ferrero - 


“Le stelle non si allineeranno mai, e i semafori della vita non saranno mai tutti verdi nello stesso momento. 
L’universo non cospira contro di te, ma nemmeno si impegna per renderti le cose facili. Le condizioni non sono mai perfette. 
“Prima o poi” è una malattia che ti porterà a non realizzare mai i tuoi sogni. 
Le liste di pro e contro hanno quasi lo stesso effetto. 
Se qualcosa è importante per te, e vuoi “prima o poi” realizzarla, fallo. 
Avrai tempo per correggere gli errori lungo il cammino.” 

- Tim Ferriss - 


 “Se le tue azioni ispirano gli altri a sognare di più, a imparare di più, a fare di più e a diventare di più, sei un leader.” 

- John Quincy Adams . Sesto Presidente degli Stati Uniti


Buona giornata a tutti :-)





giovedì 31 marzo 2022

Allora questo è il momento favorevole - Don Bruno Ferrero sdb

Dalla sua finestra affacciata sulla piazza del mercato il Maestro vide uno dei suoi allievi, un certo Haikel, che camminava in fretta, tutto indaffarato.
Lo chiamò e lo invitò a raggiungerlo.
“Haikel, hai visto il cielo stamattina?”.
“No, Maestro”.
“E la strada, Haikel? La strada l’hai vista stamattina?”.
“Sì, Maestro”.
“E ora, la vedi ancora?”.
“Sì, Maestro, la vedo”.
“Dimmi che cosa vedi”.
“Gente, cavalli, carretti, mercanti che si agitano, contadini che si scaldano, uomini e donne che vanno e vengono, ecco che cosa vedo”.
“Haikel, Haikel – lo ammonì benevolmente il Maestro -, fra cinquant’anni, fra due volte cinquant’anni ci sarà ancora una strada come questa e un altro mercato simile a questo. Altre vetture porteranno altri mercanti per acquistare e vendere altri cavalli. Ma io non ci sarò più, tu non ci sarai più. Allora io ti chiedo, Haikel, perché corri se non hai nemmeno il tempo di guardare il cielo?”.
 
Probabilmente non abbiamo guardato il cielo stamattina. Neanche per vedere che tempo fa. Ce lo dice la tv.
Eppure, tutto in chiesa oggi ci parla di qualcosa di diverso dal solito tran tran quotidiano, qualcosa di nuovo che è incominciato.
Quando si sente la prima aria di primavera, ci vien voglia di spalancare le finestre di casa. Il sole sembra nuovo e scaccia l’odore dell’inverno. Togliamo la polvere che si è accumulata, i colori ritrovano il loro splendore, la casa sembra bella come nei primi giorni.
Ogni anno, gli amici di Gesù si prendono del tempo per aprire i loro cuori affinché entri la luce di Dio fin negli angoli più nascosti, là dove nascono i pensieri, i rancori e i desideri d’amare.
Sono i 40 giorni prima di Pasqua, è la Quaresima.
Quaranta giorni di deserto
Come Mosè.
Lascia la sua gente, sale sulla montagna e resta solo. Nel silenzio, si prepara per ascoltare il Signore, come si ascolta un amico, quando si scambiano parole preziose.
Come Elia, il profeta.
Ha la passione per Dio, intraprende un lungo viaggio, affaticato, triste, abbandonato da tutti. Ma al termine del viaggio l’attende Dio, fresco come una brezza tra le rocce. Rinfrancato da nuove energie, Elia torna tra i suoi.
Come Gesù.
Prima di incontrare gli uomini per annunciare il Lieto Messaggio di Dio, si ritira nel deserto. Lontano da tutto, povero e senza amici. Gli restano solo la sabbia e il vento. Là sono soli: Lui e Dio.
Così può affermare a Dio che è più importante del cibo, dell’acqua, di tutto il potere del mondo. È Dio che ha il primo posto.
Come noi.
Quaranta giorni di deserto, per ritrovare il Signore, per sentire la felicità di essere amici suoi e fargli posto nella nostra vita, come a qualcuno che si ama.
Per questo la Quaresima è incominciata con il segno di qualcosa volatile, leggero e apparentemente inutile come la sabbia del deserto: un po’ di cenere. Sulla fronte dei fedeli il prete ha deposto un pizzico di cenere.
La cenere è un simbolo che ci richiama alla mente molte cose.
Talvolta ascoltiamo solo le nostre voglie, decidiamo quello che ci piace senza curarci degli altri, lasciamo le cose a metà, rifiutiamo i consigli, siamo volubili, incostanti. Cose da niente ci portano via.
Siamo come la cenere che sfugge a tutto, siamo come polvere dispersa dal vento.
Talvolta siamo privi di tenerezza. Curiamo i vestiti, ma il nostro cuore è arido. Non ci accorgiamo della fatica di chi ci sta accanto, pensiamo solo a noi stessi, dimentichiamo il Signore.
Siamo come la cenere, fuoco morto: non scalda più nessuno.
Talvolta agiamo senza tener conto della parola del Signore. Non portiamo gioia. Trascuriamo chi ha bisogno di noi. Non ci chiniamo sugli amici sofferenti. Dalla nostra bocca escono parole che fanno male.
Siamo come la cenere: nessuna fiamma divampa più per squarciare la notte e illuminare il cammino.
Allora questo è il momento favorevole.
Quaranta giorni per sbarazzare la nostra anima dalla cenere che si è posata. E ritrovare il fuoco nuovo che nasce dall’incontro con il Signore e le sue parole. A tu per tu.
Un tempo per ritrovare il cielo.
Non è così facile. C’è qualcosa da conquistare. Ci sono forze maligne che vogliono ridurre in cenere le nostre intenzioni di bene.
Tra l’Egitto e la Terra Promessa, il popolo di Dio è passato nel deserto. Ed ha perso, soccombendo alle tentazioni.
Anche Gesù, prima dell’annuncio del Regno, passa attraverso il deserto, viene messo alla prova, ma vince. E insegna a noi la via per fare altrettanto. Perché anche noi, se vogliamo veramente arrivare a Dio, dobbiamo attraversare il deserto delle prove. In un certo senso, la vita è un cammino di purificazione, di scelte. Perché la strada che porta a Dio, quindi alla felicità, è fatta di forza e decisione.
L’avversario di Dio, per quattro volte chiamato diavolo, dimostra di conoscere molto bene il suo piano e sapendo che Gesù è il Messia, lo invita in modo subdolo a realizzare un messianismo trionfante, cerca di distoglierlo da quella follia. Gli propone in successione la scelta della ricchezza, dei beni materiali, del piacere; poi del potere, dell’idolatria; infine del prodigio, della magia, non la fatica di tutti giorni, la fatica dell’essere fedeli. Insinua in fondo il dubbio su Dio.
Sono state le tentazioni del popolo ebraico.
Sono le nostre tentazioni.
Gesù vince e ci regala il segreto per vincere a nostra volta.
La sua forza è la parola di Dio.
“Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo””.
“Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto””.
“È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo””.
Gesù afferma chiaramente che Dio è affidabile. Gesù si fida totalmente di Lui. E anche noi.
Anche se la tentazione si insinua dappertutto come la polvere, come la cenere.
Il nostro diavolo si chiama “a che pro? A che serve tutto questo?”
È Il settimo vizio capitale, quello dal nome bizzarro: accidia. È molto più grave della pigrizia, quel difetto quasi banale che ci induce a rimanere a letto quando suona la sveglia, o a rimandare a domani quello che si poteva fare ieri. La sua definizione latina, la “tristitia de bono divino”, richiama più un buon vino degustato sotto i pergolati che un pericolo mortale.
La “tristezza del bene divino” procede mascherata: si adorna di un’etichetta da vino pregiato e si nasconde sotto gli orpelli della pigrizia come una vipera mascherata da biscia. Il suo morso è indolore, ma il suo veleno paralizza l’anima nel suo slancio verso Dio, insensibilmente. Questo assopimento spirituale è il peccato dei discepoli di Cristo nel Getsemani.
Ci tocca tutti, un giorno o l’altro.
Gli Antichi definivano l’accidia “demonio del mezzogiorno”, o “tentazione della metà del giorno”, perché questa grande stanchezza interiore, questa apatia spirituale, questo disgusto per le cose di Dio, questo desiderio di andare a vedere altrove, caratterizza soprattutto il mezzogiorno della vita.
La nostra società accidiosa diffonde il disgusto per Dio per un’altra ragione: l’uomo del XXI secolo, soprattutto l’Occidentale, non crede più alla grandezza e immensità della sua vocazione. Roso da un dubbio metafisico profondo, “non vuole credere che Dio si occupi di lui, lo conosca, lo ami, lo guardi, sia al suo fianco”, spiega il cardinale Ratzinger in una penetrante analisi della nostra società. Una vocazione così bella, una felicità così grande? È troppo bello per essere vero!
Il demonio dell’accidia instilla alla nostra epoca…
… un “curioso odio dell’uomo contro la propria grandezza”, prosegue il Papa. Una rivolta intima e profonda. Al punto che arriva a “considerarsi di troppo”. S’immagina guastafeste della natura, creatura mancata, segnata dal nulla. “La sua liberazione e quella del mondo consisterebbe dunque nel dissolversi”. L’accidia porta alla disperazione. Cela una cultura di morte.
Una piccola falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour. “Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro”, gli spiegò. “Le lampade, a quelle sì puoi svolazzare dietro”.
“Almeno lì approdi a qualcosa”, disse il padre. “Andando dietro alle stelle non approdi a niente”.
Ma il falenino non diede ascolto né all’uno né all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo.
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.


La stella della speranza è un segno distintivo.
Ogni giorno dovremmo chiedere la fede per osare l’impossibile.
Chi desidera operare con Cristo e, di conseguenza, trasformare il mondo, deve sentire tutto il coraggio che sgorga dalla forza di Dio e della sua Parola.
Fare cose impossibili è il realismo di coloro che conoscono la voce del loro Signore.
C’è una stella nel cielo della nostra vita: non possiamo perdere tempo a scottarci a qualche lampadina.

Don Bruno FERRERO sdb
Fonte:http://www.donbosco-torino.it/



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mercoledì 30 marzo 2022

Il falenino e la stella - don Bruno Ferrero


Una piccola falena d'animo delicato s'invaghì una volta di una stella. 
Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d'invaghirsi invece di un abat-jour. «Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro», gli spiegò. 
«Le lampade, a quelle sì puoi svolazzare dietro».
«Almeno lì approdi a qualcosa», disse il padre. «Andando dietro alle stelle non approdi a niente».
Ma il falenino non diede ascolto né all'uno né all'altra. 
Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s'avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all'alba, se ne tornava a casa stremato dall'immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: «Non ti bruci un'ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!».
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada ne intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo.
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. 
I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.

La stella della speranza è un segno distintivo. Ogni giorno dovresti chiedere la fede per osare l'impossibile. 
Chi desidera operare con Cristo e, di conseguenza, trasformare il mondo, rifiuterà di adeguarsi a leggi ed ordinamenti precostituiti. 
Sarà disobbediente, quando altri obbediranno, eseguirà quando altri troveranno insensato l'ordine impartito. 
Il mondo gli apparirà una prigione, quando altri parleranno di libertà, ed esso sarà trasparente agli occhi della sua fede, quando altri saranno disperati, sentendosi prigionieri. 
Fare cose impossibili è il realismo di coloro che conoscono la voce del loro Signore.

Se c'è una stella nel cielo della tua vita, non perdere tempo a scottarti a qualche lampadina.

- don Bruno Ferrero - 
da: "40 storie nel deserto" - Ed. Elledici

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lunedì 31 gennaio 2022

Una luce alla finestra - don Bruno Ferrero

La strana epidemia si abbatté sulla città all'improvviso. Iniziava come un raffreddore: i colpiti cominciavano a starnutire, poi prendevano uno strano colore grigiastro, finché la malattia esplodeva in tutta la sua virulenza e i colpiti diventavano prima avidi, poi prepotenti e arraffatori, perfino ladri e tremendamente sospettosi gli uni degli altri. Il pensiero del denaro intaccava e annullava tutti gli altri pensieri. " Ciò che conta sono i soldi. Con i soldi si fa tutto", sostenevano. 

Insieme al pensiero dei soldi arrivava anche la paura. 

I venditori di casseforti e porte blindate non riuscivano a star dietro agli ordini. In certi alloggi la porta d'ingresso arrivava ad avere diciotto serrature a prova di tutto, anche di bazooka. Nelle famiglie, i papà e le mamme rubavano i soldi dai salvadanai dei bambini. I bambini chiedevano: «Quanto mi date per sparecchiare?». Non solo per asciugare i piatti o per fare i compiti; anche per andare nei giardinetti a giocare. Un sabato pomeriggio, nella via principale, scoppiò un tremendo tafferuglio per una moneta da cinque centesimi. Perfino il dottore fu contagiato e cominciò a vendere le medicine scadute, che prima buttava via con molta attenzione. 

La vita in città divenne insopportabile. Il sindaco e i suoi consiglieri decisero di recarsi per un consulto dal famoso Barbadoro, che era un eremita, per chiedere una medicina o almeno un consiglio. L'eremita dalla lunga barba bianca li ascoltò con attenzione, poi lisciandosi la barba disse: "Conosco la malattia che ha colpito il vostro villaggio. E' dovuta ad un virus che si chiama "sgrinfiacchiappa" ed è terribile, perché chi è colpito diventa sempre più insensibile, il suo cuore si indurisce fino a diventare di pietra. Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta.

Si può sfuggire al contagio per un po' di tempo compiendo atti di bontà e di generosità, ma per debellare veramente la malattia c'è un solo rimedio: l'acqua della Montagna-Che-Canta. Dovete trovare un giovane forte e coraggioso, completamente disinteressato. Deve affrontare questo impegno solo per amore della gente. Perché l'acqua della generosità funziona solo se è veramente voluta, aspettata, accolta. Logico, no? Perciò se troverete il giovane adatto in grado di affrontare le difficoltà dell'impresa (e non è cosa da poco) la medicina farà effetto solo se ci sarà qualcuno ad aspettarla». «Noi aspetteremo. Tutti!», giurarono il sindaco e i consiglieri. «Dobbiamo assolutamente uscire da questa epidemia che rende infelice la nostra città». «...e vuota le casse comunali», aggiunse l'assessore alle finanze, che aveva la pelle grigia di chi veniva colpito dalla malattia del virus «sgrinfiacchiappa». Il giorno dopo su tutti i muri della città era affisso un bando: «Cercasi giovane coraggioso per impresa eroica». Si presentarono in duemila. Ma appena gli aspiranti eroi venivano a sapere che non ci avrebbero guadagnato niente, si ritiravano. Tutti, meno uno. Era un giovane robusto e simpatico, preoccupato dalla malattia che colpiva i suoi concittadini e che rendeva infelici tante persone. Si chiamava Giosuè. 

Il sindaco e i consiglieri gli spiegarono quello che doveva fare, anche se non avevano alcuna idea di dove si trovasse la Montagna-Che-Canta. «La cercherò», disse tranquillamente Giosuè. «Noi ti aspetteremo», promise la gente. «Metteremo una luce sulla finestra tutte le notti, così saprai che ti aspettiamo». Giosuè mise un po' di biancheria e pane e formaggio in una bisaccia, baciò la mamma e il papà, abbracciò Mariarosa, la sua fidanzata, che gli sussurrò: «Anch'io ti aspetterò». Salutò tutti e partì. Per tre giorni Giosuè camminò risolutamente verso le montagne, che tremolavano nella luce azzurrina dell'orizzonte. «Una volta là, mi basterà cercare la Montagna-Che-Canta. Non deve essere difficile», pensava. Ma si illudeva. 8 Dopo dieci giorni di marcia, le montagne continuavano ad apparire lontane, come profili di giganti dormienti, all'orizzonte. Ma Giosuè non si fermava. Pensava agli abitanti della città che certamente si ricordavano di lui e lo aspettavano, ai suoi genitori e a Mariarosa e, ogni mattina, anche se i piedi gli dolevano ricominciava la marcia. Passarono altri dieci giorni, poi dieci mesi. 

Nella città, le prime notti erano state un vero spettacolo. Sui davanzali di quasi tutte le finestre brillava una luce. Era il segno della speranza: aspettavano l'acqua della generosità portata da Giosuè. Ma con il passare del tempo, molte lampade si spensero. Alcuni se ne dimenticarono semplicemente, altri, colpiti dalla malattia, si affrettarono a spegnerle per risparmiare. La maggioranza dei cittadini, dopo qualche mese, scuoteva la testa dicendo: «Non ce l'ha fatta. Non tornerà più». Ogni notte, c'era qualche luce in meno alle finestre. Ma Giosuè, dopo un anno, arrivò alle montagne. Le prime erano montagnole da poco e le valli che le dividevano larghe e facili. Poi si fecero sempre più aspre, rocciose, disseminate di ostacoli. Giosuè stava con le orecchie tese per individuare la Montagna-Che-Canta. Qualche picco, grazie al vento, fischiava. Qualche montagna, grazie ai ghiacciai e ai torrenti, rombava. Ma nessuna cantava. In una piccola baita, aggrappata al fianco di una montagna, incontrò un vecchio pastore e gli chiese qualche informazione. Il pastore gli regalò una scodella di latte fresco e poi gli disse: «La Montagna-Che-Canta? Certo che so dov'è. Non mi fa dormire quando porto le mie pecore a pascolare da quelle parti. Ma è un accidenti di montagna! Ripida e levigata come un obelisco e con il gigante Soffione». «Chi è?». «Un gigante burlone che si diverte a soffiare giù chi cerca di salire sulla montagna». «Pazienza, ma io devo salire lassù», disse Giosuè. Il vecchio pastore lo accompagnò fino ai piedi della montagna e lo salutò: «Buona fortuna!». La montagna cantava davvero, con un vocione allegro e un po' stonato. Giosuè cominciò subito ad arrampicarsi. Le pareti della montagna avevano pochi appigli e il povero giovane si ritrovò presto con le mani rovinate dalla roccia. Era quasi a metà della salita, quando un soffio di vento violento lo staccò dalla parete e lo fece rimbalzare in giù per parecchi metri. Mentre cadeva sentiva la risata del gigante Soffione, felice per lo scherzo che gli aveva giocato. Neanche questa volta Giosuè si scoraggiò. Si riempì le tasche e la camicia di sassi e ricominciò a salire. Pesante com'era, ogni centimetro gli costava una fatica terribile, ma il gigante Soffione aveva un bel soffiare. Non riusciva neanche a farlo vacillare. Dopo un po' il gigante cominciò a tossire e infine smise di soffiare. Così Giosuè arrivò sulla vetta e vide la sorgente cristallina dell'acqua della generosità. Aveva compiuto la missione che gli era stata affidata e il suo cuore era leggero e lieto: la gente della città sarebbe tornata felice come prima. Portava sulle spalle una botticella della preziosa acqua. Se non fosse bastata per tutti, ormai sapeva la strada. 

Una notte senza luna e senza stelle, Giosuè arrivò sulla collina da cui si vedeva la città. Guardò giù ansimando perché aveva fatto di corsa gli ultimi metri. Quello che vide gli riempì gli occhi di lacrime e il cuore di amarezza. La città era completamente avvolta dal buio. Non c'erano luci sui davanzali delle finestre. Nessuno lo aveva aspettato. «E' stato tutto inutile... Se nessuno mi ha aspettato, l'acqua non farà effetto... Tutta la mia fatica è stata inutile». Si avviò mestamente. Aveva voglia di buttar via l'acqua che gli era costata tanto. Stava per farlo, quando qualcosa lo fermò. C'era una luce, laggiù! Un lumino, piccolo, tremante, lottava con la notte, in mezzo ai muri neri delle case. «Qualcuno mi ha aspettato!». Giosuè rise forte per la felicità e partì di corsa. Riconobbe la finestra e la casa. In fondo al cuore non ne aveva mai dubitato. Mariarosa e i suoi genitori lo avevano aspettato!

 - don Bruno Ferrero - 

da: "Storie belle e buone" di Bruno Ferrero, edizioni Elledici

"Chiaro di luna"- William Turner, 1797

Non penserò che la conoscenza che attualmente possiedo sia la verità assoluta e immutabile. Eviterò di avere una mente ristretta, limitata alle mie opinioni attuali. Praticherò il non attaccamento alle credenze per rimanere aperto al punto di vista degli altri. La verità si trova nella vita, non nelle nozioni intellettuali. Mi manterrò sempre disponibile a imparare dalla vita, osservando costantemente la realtà in me stesso e nel mondo.

- Thich Nhat Hanh -

monaco buddhista, poeta e attivista per la pace

 




Buona giornata a tutti :-)





giovedì 30 dicembre 2021

I tre agnellini - don Bruno Ferrero

Lassù sulle montagne del Tirolo, c’era un piccolo villaggio dove tutti sapevano scolpire santi e Madonne con grande abilità. Ma giunse il tempo in cui non ci furono più ordinazioni per le loro belle statuine religiose. 
Un pomeriggio Dritte, uno dei maestri intagliatori, entrando nella sua bottega trovò un fanciullo biondo, che giocava con le statuine del presepio. 
Dritte gli disse con fare burbero che le statuine del presepio non erano giocattoli. 
Il bambino rispose: “A Gesù non importa, lui sa che non ho giocattoli per giocare . 
Maestro Dritte commosso gli promise un agnellino di legno con la testa che si muoveva. “Vienilo a prendere domani pomeriggio, però, strano che non ti abbia mai visto, dove abiti?”. “Là”, rispose il fanciullo indicando vagamente l’alto. Il giorno dopo, prima di mezzogiorno, l’agnellino era pronto, bello da sembrare vivo. Ad un tratto si affacciò alla porta della bottega di Dritte una giovane zingara con un bambino in braccio. Il bambino appena vide l’agnellino protese le braccine e l’afferrò. Quando glielo vollero togliere di mano si mise a piangere disperato. Dritte che non aveva nulla da dare alla povera donna disse sospirando: “Tienilo pure intaglierò un altro agnellino”. Nel pomeriggio tardi Dritte aveva appena terminato il secondo agnellino quando Pino, un povero orfanello, venne a salutarlo. “Oh! Che meraviglioso agnello”, disse. “Posso averlo per piacere?”. “Sì tienilo pure, Pino, io ne intaglierò un altro”. 
E così fece. Ma il bambino dai capelli d’oro non ritornò, e l’agnellino rimase abbandonato sullo scaffale della bottega. 
La situazione del villaggio continuava a peggiorare e Dritte cominciò ad intagliare giocattoli per i bambini del villaggio per far loro dimenticare la fame. 
Un giorno un mercante di passaggio si offrì di comperare tutti i giocattoli che Dritte riusciva ad intagliare. Dritte rifiutò di intagliare giocattoli per denaro: “Sono alla locanda”, disse il commerciante, “in caso cambiaste idea”. 
La piccola Marta era molto malata e Dritte, per farla sorridere, le regalò l’agnellino che aveva conservato sullo scaffale della sua bottega. 
Mentre tornava dalla casa di Marta, incontrò il bambino dai capelli d’oro. “Ho tenuto l’agnellino fino ad oggi, ma tu non sei venuto. 
Ne farò subito un altro”. “Non ho bisogno dì un altro agnellino” disse il fanciullo scuotendo il capo, “quelli che hai donato al piccolo zingaro, a Pino e a Marta li hai donati anche a me. Fare un giocattolo può servire alla gloria di Dio quanto intagliare un santo”. 
Un attimo dopo il fanciullo era scomparso. 
Quella notte Dritte si recò alla locanda. “Costruirò giocattoli per voi”, disse. “Allora avete cambiato idea” sussurro il mercante. “No”, rispose Dritte con gli occhi scintillanti, “ma ho ricevuto un segno da Dio!”.

- don Bruno Ferrero -
da: "Novena di Natale", Ed. Elledicì



Vergine umile e sconosciuta

"La Beatissima Trinità decretò che il Verbo si sarebbe incarnato per redimere l'uomo colpevole; fra tutte le donne che sarebbero esistite nei secoli, scelse la SS. Vergine Maria, concepita senza peccato originale e preparata, con ogni grazia, perché fosse la degna Madre del Figlio di Dio. 
Dio scelse per Madre una vergine umile e sconosciuta agli uomini, povera e semplice, in un angolo della Giudea: era chiamata Maria, ed era sposa di un falegname, il glo­rioso san Giuseppe. 
Essi vivevano una vita modesta e si gua­dagnavano il pane col sudore della fronte. 
Questa Vergine così semplice, ma pura e ricca di ogni virtù davanti a Dio, fa scelta per essere Sua Madre, benedetta da tutte le donne e piena di grazia."

- Sant'Enrico de Ossò -
 da: "Il quarto d'ora d'orazione"


...C'è qualcosa che non può non colpirci in questa nascita della luce, in quest'ingresso del bene nel mondo, e che ci riempie di un'inquieta domanda: il grande evento del Natale è davvero accaduto là, nella stalla di Betlemme? 
Il sole è grande, magnifico, potente; nessuno può far finta di non vedere il suo corso, la sua marcia trionfale nel cielo e del ciclo annuale del cosmo. 
Ma il suo Creatore, non dovrebbe essere ancora più potente e abbagliante nella sua venuta? 
La nascita di Dio, il sorgere del sole della storia, non dovrebbe inondare il volto della terra di un indicibile splendore?
E invece...Quanto è misero tutto ciò di cui ci parla il Vangelo! O forse non dovranno essere proprio questa povertà e l'insignificanza per il mondo il segno con cui il Creatore manifesta la sua presenza?...
A Betlemme Dio...ha posto definitivamente il segno della piccolezza come distintivo essenziale della sua presenza in questo mondo.
Ecco la decisione della notte santa, la fede: noi accogliamo Dio in questo segno e ci fidiamo di Lui senza mormorare. 
Accoglierlo significa: porre se stessi sotto questo segno, sotto la verità e l'amore, che sono i valori più alti e più simili a Dio e, allo stesso tempo, i più dimenticati e i più silenziosi...

- card. Joseph Ratzinger  -
da "Dogma e predicazione" 





Buona giornata a tutti. :-)