Dalla sua finestra affacciata sulla
piazza del mercato il Maestro vide uno dei suoi allievi, un certo Haikel, che
camminava in fretta, tutto indaffarato.
Lo chiamò e lo invitò a raggiungerlo.
“Haikel, hai visto il cielo stamattina?”.
“No, Maestro”.
“E la strada, Haikel? La strada l’hai vista stamattina?”.
“Sì, Maestro”.
“E ora, la vedi ancora?”.
“Sì, Maestro, la vedo”.
“Dimmi che cosa vedi”.
“Gente, cavalli, carretti, mercanti che si agitano, contadini che si scaldano, uomini e donne che vanno e vengono, ecco che cosa vedo”.
“Haikel, Haikel – lo ammonì benevolmente il Maestro -, fra cinquant’anni, fra due volte cinquant’anni ci sarà ancora una strada come questa e un altro mercato simile a questo. Altre vetture porteranno altri mercanti per acquistare e vendere altri cavalli. Ma io non ci sarò più, tu non ci sarai più. Allora io ti chiedo, Haikel, perché corri se non hai nemmeno il tempo di guardare il cielo?”.
Probabilmente non abbiamo guardato il
cielo stamattina. Neanche per vedere che tempo fa. Ce lo dice la tv.
Eppure, tutto in chiesa oggi ci parla di qualcosa di diverso dal solito tran tran quotidiano, qualcosa di nuovo che è incominciato.
Quando si sente la prima aria di primavera, ci vien voglia di spalancare le finestre di casa. Il sole sembra nuovo e scaccia l’odore dell’inverno. Togliamo la polvere che si è accumulata, i colori ritrovano il loro splendore, la casa sembra bella come nei primi giorni.
Ogni anno, gli amici di Gesù si prendono del tempo per aprire i loro cuori affinché entri la luce di Dio fin negli angoli più nascosti, là dove nascono i pensieri, i rancori e i desideri d’amare.
Sono i 40 giorni prima di Pasqua, è la Quaresima.
Quaranta giorni di deserto
Come Mosè.
Lascia la sua gente, sale sulla montagna e resta solo. Nel silenzio, si prepara per ascoltare il Signore, come si ascolta un amico, quando si scambiano parole preziose.
Come Elia, il profeta.
Ha la passione per Dio, intraprende un lungo viaggio, affaticato, triste, abbandonato da tutti. Ma al termine del viaggio l’attende Dio, fresco come una brezza tra le rocce. Rinfrancato da nuove energie, Elia torna tra i suoi.
Come Gesù.
Prima di incontrare gli uomini per annunciare il Lieto Messaggio di Dio, si ritira nel deserto. Lontano da tutto, povero e senza amici. Gli restano solo la sabbia e il vento. Là sono soli: Lui e Dio.
Così può affermare a Dio che è più importante del cibo, dell’acqua, di tutto il potere del mondo. È Dio che ha il primo posto.
Come noi.
Quaranta giorni di deserto, per ritrovare il Signore, per sentire la felicità di essere amici suoi e fargli posto nella nostra vita, come a qualcuno che si ama.
Per questo la Quaresima è incominciata con il segno di qualcosa volatile, leggero e apparentemente inutile come la sabbia del deserto: un po’ di cenere. Sulla fronte dei fedeli il prete ha deposto un pizzico di cenere.
La cenere è un simbolo che ci richiama alla mente molte cose.
Talvolta ascoltiamo solo le nostre voglie, decidiamo quello che ci piace senza curarci degli altri, lasciamo le cose a metà, rifiutiamo i consigli, siamo volubili, incostanti. Cose da niente ci portano via.
Siamo come la cenere che sfugge a tutto, siamo come polvere dispersa dal vento.
Talvolta siamo privi di tenerezza. Curiamo i vestiti, ma il nostro cuore è arido. Non ci accorgiamo della fatica di chi ci sta accanto, pensiamo solo a noi stessi, dimentichiamo il Signore.
Siamo come la cenere, fuoco morto: non scalda più nessuno.
Talvolta agiamo senza tener conto della parola del Signore. Non portiamo gioia. Trascuriamo chi ha bisogno di noi. Non ci chiniamo sugli amici sofferenti. Dalla nostra bocca escono parole che fanno male.
Siamo come la cenere: nessuna fiamma divampa più per squarciare la notte e illuminare il cammino.
Allora questo è il momento favorevole.
Quaranta giorni per sbarazzare la nostra anima dalla cenere che si è posata. E ritrovare il fuoco nuovo che nasce dall’incontro con il Signore e le sue parole. A tu per tu.
Un tempo per ritrovare il cielo.
Non è così facile. C’è qualcosa da conquistare. Ci sono forze maligne che vogliono ridurre in cenere le nostre intenzioni di bene.
Tra l’Egitto e la Terra Promessa, il popolo di Dio è passato nel deserto. Ed ha perso, soccombendo alle tentazioni.
Anche Gesù, prima dell’annuncio del Regno, passa attraverso il deserto, viene messo alla prova, ma vince. E insegna a noi la via per fare altrettanto. Perché anche noi, se vogliamo veramente arrivare a Dio, dobbiamo attraversare il deserto delle prove. In un certo senso, la vita è un cammino di purificazione, di scelte. Perché la strada che porta a Dio, quindi alla felicità, è fatta di forza e decisione.
L’avversario di Dio, per quattro volte chiamato diavolo, dimostra di conoscere molto bene il suo piano e sapendo che Gesù è il Messia, lo invita in modo subdolo a realizzare un messianismo trionfante, cerca di distoglierlo da quella follia. Gli propone in successione la scelta della ricchezza, dei beni materiali, del piacere; poi del potere, dell’idolatria; infine del prodigio, della magia, non la fatica di tutti giorni, la fatica dell’essere fedeli. Insinua in fondo il dubbio su Dio.
Sono state le tentazioni del popolo ebraico.
Sono le nostre tentazioni.
Gesù vince e ci regala il segreto per vincere a nostra volta.
La sua forza è la parola di Dio.
“Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo””.
“Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto””.
“È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo””.
Gesù afferma chiaramente che Dio è affidabile. Gesù si fida totalmente di Lui. E anche noi.
Anche se la tentazione si insinua dappertutto come la polvere, come la cenere.
Il nostro diavolo si chiama “a che pro? A che serve tutto questo?”
È Il settimo vizio capitale, quello dal nome bizzarro: accidia. È molto più grave della pigrizia, quel difetto quasi banale che ci induce a rimanere a letto quando suona la sveglia, o a rimandare a domani quello che si poteva fare ieri. La sua definizione latina, la “tristitia de bono divino”, richiama più un buon vino degustato sotto i pergolati che un pericolo mortale.
La “tristezza del bene divino” procede mascherata: si adorna di un’etichetta da vino pregiato e si nasconde sotto gli orpelli della pigrizia come una vipera mascherata da biscia. Il suo morso è indolore, ma il suo veleno paralizza l’anima nel suo slancio verso Dio, insensibilmente. Questo assopimento spirituale è il peccato dei discepoli di Cristo nel Getsemani.
Ci tocca tutti, un giorno o l’altro.
Gli Antichi definivano l’accidia “demonio del mezzogiorno”, o “tentazione della metà del giorno”, perché questa grande stanchezza interiore, questa apatia spirituale, questo disgusto per le cose di Dio, questo desiderio di andare a vedere altrove, caratterizza soprattutto il mezzogiorno della vita.
La nostra società accidiosa diffonde il disgusto per Dio per un’altra ragione: l’uomo del XXI secolo, soprattutto l’Occidentale, non crede più alla grandezza e immensità della sua vocazione. Roso da un dubbio metafisico profondo, “non vuole credere che Dio si occupi di lui, lo conosca, lo ami, lo guardi, sia al suo fianco”, spiega il cardinale Ratzinger in una penetrante analisi della nostra società. Una vocazione così bella, una felicità così grande? È troppo bello per essere vero!
Il demonio dell’accidia instilla alla nostra epoca…
… un “curioso odio dell’uomo contro la propria grandezza”, prosegue il Papa. Una rivolta intima e profonda. Al punto che arriva a “considerarsi di troppo”. S’immagina guastafeste della natura, creatura mancata, segnata dal nulla. “La sua liberazione e quella del mondo consisterebbe dunque nel dissolversi”. L’accidia porta alla disperazione. Cela una cultura di morte.
Una piccola falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour. “Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro”, gli spiegò. “Le lampade, a quelle sì puoi svolazzare dietro”.
“Almeno lì approdi a qualcosa”, disse il padre. “Andando dietro alle stelle non approdi a niente”.
Ma il falenino non diede ascolto né all’uno né all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo.
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.
Lo chiamò e lo invitò a raggiungerlo.
“Haikel, hai visto il cielo stamattina?”.
“No, Maestro”.
“E la strada, Haikel? La strada l’hai vista stamattina?”.
“Sì, Maestro”.
“E ora, la vedi ancora?”.
“Sì, Maestro, la vedo”.
“Dimmi che cosa vedi”.
“Gente, cavalli, carretti, mercanti che si agitano, contadini che si scaldano, uomini e donne che vanno e vengono, ecco che cosa vedo”.
“Haikel, Haikel – lo ammonì benevolmente il Maestro -, fra cinquant’anni, fra due volte cinquant’anni ci sarà ancora una strada come questa e un altro mercato simile a questo. Altre vetture porteranno altri mercanti per acquistare e vendere altri cavalli. Ma io non ci sarò più, tu non ci sarai più. Allora io ti chiedo, Haikel, perché corri se non hai nemmeno il tempo di guardare il cielo?”.
Eppure, tutto in chiesa oggi ci parla di qualcosa di diverso dal solito tran tran quotidiano, qualcosa di nuovo che è incominciato.
Quando si sente la prima aria di primavera, ci vien voglia di spalancare le finestre di casa. Il sole sembra nuovo e scaccia l’odore dell’inverno. Togliamo la polvere che si è accumulata, i colori ritrovano il loro splendore, la casa sembra bella come nei primi giorni.
Ogni anno, gli amici di Gesù si prendono del tempo per aprire i loro cuori affinché entri la luce di Dio fin negli angoli più nascosti, là dove nascono i pensieri, i rancori e i desideri d’amare.
Sono i 40 giorni prima di Pasqua, è la Quaresima.
Quaranta giorni di deserto
Come Mosè.
Lascia la sua gente, sale sulla montagna e resta solo. Nel silenzio, si prepara per ascoltare il Signore, come si ascolta un amico, quando si scambiano parole preziose.
Come Elia, il profeta.
Ha la passione per Dio, intraprende un lungo viaggio, affaticato, triste, abbandonato da tutti. Ma al termine del viaggio l’attende Dio, fresco come una brezza tra le rocce. Rinfrancato da nuove energie, Elia torna tra i suoi.
Come Gesù.
Prima di incontrare gli uomini per annunciare il Lieto Messaggio di Dio, si ritira nel deserto. Lontano da tutto, povero e senza amici. Gli restano solo la sabbia e il vento. Là sono soli: Lui e Dio.
Così può affermare a Dio che è più importante del cibo, dell’acqua, di tutto il potere del mondo. È Dio che ha il primo posto.
Come noi.
Quaranta giorni di deserto, per ritrovare il Signore, per sentire la felicità di essere amici suoi e fargli posto nella nostra vita, come a qualcuno che si ama.
Per questo la Quaresima è incominciata con il segno di qualcosa volatile, leggero e apparentemente inutile come la sabbia del deserto: un po’ di cenere. Sulla fronte dei fedeli il prete ha deposto un pizzico di cenere.
La cenere è un simbolo che ci richiama alla mente molte cose.
Talvolta ascoltiamo solo le nostre voglie, decidiamo quello che ci piace senza curarci degli altri, lasciamo le cose a metà, rifiutiamo i consigli, siamo volubili, incostanti. Cose da niente ci portano via.
Siamo come la cenere che sfugge a tutto, siamo come polvere dispersa dal vento.
Talvolta siamo privi di tenerezza. Curiamo i vestiti, ma il nostro cuore è arido. Non ci accorgiamo della fatica di chi ci sta accanto, pensiamo solo a noi stessi, dimentichiamo il Signore.
Siamo come la cenere, fuoco morto: non scalda più nessuno.
Talvolta agiamo senza tener conto della parola del Signore. Non portiamo gioia. Trascuriamo chi ha bisogno di noi. Non ci chiniamo sugli amici sofferenti. Dalla nostra bocca escono parole che fanno male.
Siamo come la cenere: nessuna fiamma divampa più per squarciare la notte e illuminare il cammino.
Allora questo è il momento favorevole.
Quaranta giorni per sbarazzare la nostra anima dalla cenere che si è posata. E ritrovare il fuoco nuovo che nasce dall’incontro con il Signore e le sue parole. A tu per tu.
Un tempo per ritrovare il cielo.
Non è così facile. C’è qualcosa da conquistare. Ci sono forze maligne che vogliono ridurre in cenere le nostre intenzioni di bene.
Tra l’Egitto e la Terra Promessa, il popolo di Dio è passato nel deserto. Ed ha perso, soccombendo alle tentazioni.
Anche Gesù, prima dell’annuncio del Regno, passa attraverso il deserto, viene messo alla prova, ma vince. E insegna a noi la via per fare altrettanto. Perché anche noi, se vogliamo veramente arrivare a Dio, dobbiamo attraversare il deserto delle prove. In un certo senso, la vita è un cammino di purificazione, di scelte. Perché la strada che porta a Dio, quindi alla felicità, è fatta di forza e decisione.
L’avversario di Dio, per quattro volte chiamato diavolo, dimostra di conoscere molto bene il suo piano e sapendo che Gesù è il Messia, lo invita in modo subdolo a realizzare un messianismo trionfante, cerca di distoglierlo da quella follia. Gli propone in successione la scelta della ricchezza, dei beni materiali, del piacere; poi del potere, dell’idolatria; infine del prodigio, della magia, non la fatica di tutti giorni, la fatica dell’essere fedeli. Insinua in fondo il dubbio su Dio.
Sono state le tentazioni del popolo ebraico.
Sono le nostre tentazioni.
Gesù vince e ci regala il segreto per vincere a nostra volta.
La sua forza è la parola di Dio.
“Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo””.
“Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto””.
“È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo””.
Gesù afferma chiaramente che Dio è affidabile. Gesù si fida totalmente di Lui. E anche noi.
Anche se la tentazione si insinua dappertutto come la polvere, come la cenere.
Il nostro diavolo si chiama “a che pro? A che serve tutto questo?”
È Il settimo vizio capitale, quello dal nome bizzarro: accidia. È molto più grave della pigrizia, quel difetto quasi banale che ci induce a rimanere a letto quando suona la sveglia, o a rimandare a domani quello che si poteva fare ieri. La sua definizione latina, la “tristitia de bono divino”, richiama più un buon vino degustato sotto i pergolati che un pericolo mortale.
La “tristezza del bene divino” procede mascherata: si adorna di un’etichetta da vino pregiato e si nasconde sotto gli orpelli della pigrizia come una vipera mascherata da biscia. Il suo morso è indolore, ma il suo veleno paralizza l’anima nel suo slancio verso Dio, insensibilmente. Questo assopimento spirituale è il peccato dei discepoli di Cristo nel Getsemani.
Ci tocca tutti, un giorno o l’altro.
Gli Antichi definivano l’accidia “demonio del mezzogiorno”, o “tentazione della metà del giorno”, perché questa grande stanchezza interiore, questa apatia spirituale, questo disgusto per le cose di Dio, questo desiderio di andare a vedere altrove, caratterizza soprattutto il mezzogiorno della vita.
La nostra società accidiosa diffonde il disgusto per Dio per un’altra ragione: l’uomo del XXI secolo, soprattutto l’Occidentale, non crede più alla grandezza e immensità della sua vocazione. Roso da un dubbio metafisico profondo, “non vuole credere che Dio si occupi di lui, lo conosca, lo ami, lo guardi, sia al suo fianco”, spiega il cardinale Ratzinger in una penetrante analisi della nostra società. Una vocazione così bella, una felicità così grande? È troppo bello per essere vero!
Il demonio dell’accidia instilla alla nostra epoca…
… un “curioso odio dell’uomo contro la propria grandezza”, prosegue il Papa. Una rivolta intima e profonda. Al punto che arriva a “considerarsi di troppo”. S’immagina guastafeste della natura, creatura mancata, segnata dal nulla. “La sua liberazione e quella del mondo consisterebbe dunque nel dissolversi”. L’accidia porta alla disperazione. Cela una cultura di morte.
Una piccola falena d’animo delicato s’invaghì una volta di una stella. Ne parlò alla madre e questa gli consigliò d’invaghirsi invece di un abat-jour. “Le stelle non son fatte per svolazzarci dietro”, gli spiegò. “Le lampade, a quelle sì puoi svolazzare dietro”.
“Almeno lì approdi a qualcosa”, disse il padre. “Andando dietro alle stelle non approdi a niente”.
Ma il falenino non diede ascolto né all’uno né all’altra. Ogni sera, al tramonto, quando la stella spuntava s’avviava in volo verso di essa e ogni mattina, all’alba, se ne tornava a casa stremato dall’immane e vana fatica.
Un giorno il padre lo chiamò e gli disse: “Non ti bruci un’ala da mesi, ragazzo mio, e ho paura che non te la brucerai mai. Tutti i tuoi fratelli si sono bruciacchiati ben bene volteggiando intorno ai lampioni di strada, e tutte le tue sorelle si sono scottate a dovere intorno alle lampade di casa. Su avanti, datti da fare, vai a prenderti una bella scottatura! Un falenotto forte e robusto come te senza neppure un segno addosso!”.
Il falenino lasciò la casa paterna ma non andò a volteggiare intorno ai lampioni di strada né intorno alle lampade di casa: continuò ostinatamente i suoi tentativi di raggiungere la stella, che era lontana migliaia di anni luce. Lui credeva invece che fosse impigliata tra i rami più alti di un olmo.
Provare e riprovare, puntando alla stella, notte dopo notte, gli dava un certo piacere, tanto che visse fino a tardissima età. I genitori, i fratelli e le sorelle erano invece morti tutti bruciati ancora giovanissimi.
Ogni giorno dovremmo chiedere la fede per osare l’impossibile.
Chi desidera operare con Cristo e, di conseguenza, trasformare il mondo, deve sentire tutto il coraggio che sgorga dalla forza di Dio e della sua Parola.
Fare cose impossibili è il realismo di coloro che conoscono la voce del loro Signore.
C’è una stella nel cielo della nostra vita: non possiamo perdere tempo a scottarci a qualche lampadina.
Don Bruno FERRERO sdb
Fonte:http://www.donbosco-torino.it/
seguimi sul mio canale YouTube
Nessun commento:
Posta un commento