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martedì 21 aprile 2020

Dominus tecum, figlio mio

Tutto ciò che sto per narrarvi accadde tanto tempo fa, in un paese di cui nessuno ricorda il nome.
Era un paese prospero e allegro, sdraiato su una dolce collina coltivata con cura e perizia. I suoi abitanti, contadini dall'animo semplice e gentile, erano sempre pronti al sorriso e generosi fra di loro e con i forestieri.
La vita trascorreva senza grandi scosse, con quel tanto di dolce e di amaro che abitualmente l'attraversa quando la si sa guardare con occhio benevolo.
Finché, improvvisamente, qualcosa di insolito e malvagio percorse le strade di quel luogo e incominciò a colpire ora questa, ora quella famiglia. 
Ogni giorno di festa per la nascita di un bimbo si trasformava in un giorno di dolore perché, senza che nessuno potesse darne una spiegazione, il neonato moriva dopo poche ore dalla nascita.
Neppure il vecchio prete, che tante ne aveva viste e passate, riusciva a comprendere da dove quel terribile morbo provenisse e perché si accanisse tanto contro quelle piccole e innocenti creature. 
Dopo aver consultato gli antichi libri, racchiusi nella cripta della chiesa, il brav'uomo cominciò a pensare che forse un folletto malvagio, inviato dalle oscure dimore degli spiriti negativi, si aggirava nel paese, spinto dall'invidia per quel placido angolo di serenità.
Ben presto gli abitanti divennero preda di un'angoscia mai prima d'allora conosciuta, non sapendo spiegarsi come mai la vita si accanisse proprio contro di loro. Essi pregavano con fervore il buon Dio che ogni cosa conosce, perché li aiutasse a uscire da quell'incubo in cui parevano sprofondare sempre di più.
Potete immaginare a questo punto in quale stato d'animo essi si trovarono quando Prospero, il panettiere, annunciò all'intera comunità, riunita per la messa, la prossima nascita di un figlio.
«Ma sei proprio matto!» esclamarono in coro. «Non ti basta quello che già è successo? Non capisci che qualche maleficio si è abbattuto sul nostro paese?».
Prospero, attanagliato dalla paura, non sapeva che dire. 
Ormai non poteva far altro che attendere, rassegnato a sopportare la sua parte di dolore.
Intanto il vecchio prete non aveva smesso per un solo giorno di sfogliare le enigmatiche pagine di quegli antichi testi che le umide pietre della cripta avevano custodito gelosamente così a lungo. Come poteva Dio non aver previsto tutto ciò che stava accadendo e non aver messo a loro disposizione un suggerimento che potesse aiutarli?
Il sant'uomo leggeva e rileggeva, studiava e rifletteva, percependo in cuor suo che dietro tutta quest'affannosa ricerca doveva nascondersi qualcosa di molto più semplice, come solo Dio sa essere semplice.
Nel frattempo i mesi erano trascorsi veloci e il piccolo figlio del panettiere era nato in una assolata quanto fredda mattina di febbraio.
Nella casa, che avrebbe dovuto accoglierlo con gioia, regnava invece un cupo dolore e la giovane mamma scrutava preoccupata il visetto paffuto aspettandosi di vederne volar via la vita, come già tante altre volte era accaduto nel villaggio.
Mentre tutti se ne stavano lì tristi e piangenti, ecco spalancarsi la porta ed entrare il vecchio prete.
«Che splendido bambino, miei cari!» esclamò, abbracciando la stanza con un largo sorriso.
Poi si rivolse alla donna china sul lettino del neonato: «Non piangere, cara, asciuga piuttosto i tuoi occhi e fai quanto ora ti dico!».
Fra la meraviglia generale l'uomo fece sollevare il bimbo, ordinando alla madre di tenerlo in grembo fino a quando lui non avesse deciso altrimenti.
La donna pareva incerta, ma la forza che il vecchio emanava era così concreta che sembrava impossibile contrastarla. 
Prese il piccolo e lo tenne sulle ginocchia finché il bimbo fece un leggero starnuto.
«Dominus tecum, figlio mio!» esclamò subito il vecchio solennemente. 
Nel medesimo istante s'intese una voce sgradevole e irritata provenire dalla cappa del camino.
«Vecchiaccio! Mille volte maledetto! Chi ti ha insegnato tutto ciò?» e, nel dire questo, un folletto ghignante e storpio attraversò di corsa la stanza, uscendo con un balzo dalla porta e scomparendo in un battibaleno dalla vista degli increduli spettatori.
Sotto la forma di una tremolante ombra scura, il male se ne scappò via, vinto dalla forza di due sole parole che però non ammettevano dubbio alcuno.
È inutile che vi diciamo che quel bimbo, come tutti quelli che nacquero da allora in poi, crebbe sano e vispo così come il paese ritrovò tutta la serenità e l'allegria di un tempo.
Se però in questi giorni vi capitasse di passare per caso di là, certamente lo riconoscerete, perché gli abitanti, in segno di buon augurio, vi saluteranno dicendovi: «Dominus tecum, figlio mio, il Signore sia con te!».

- Leggenda popolare spagnola -da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


.... No. Non chiamatela sfiga. Vero, il virus è sbarcato in Italia prima di altrove perché così doveva andare, ma i tagli alla nostra sanità pubblica hanno padri e padroni nascosti nelle pieghe della storia recente del nostro Paese. 
Mascherine, tamponi, reagenti, difesa del personale sanitario impegnato nella prima linea del fronte: il nulla colorato di rosso. Come la croce che più volte abbiamo visto sfrecciare sulle ambulanze che raccoglievano i feriti di una guerra mai dichiarata. Se non dai bollettini della Protezione civile.
Chiamatela inefficienza, inettitudine, cupidigia, ignoranza. 
Chiamatela come volete. Ma non chiamatela sfiga. 
Quella non basta per spiegare le ragioni del male che affligge l'Italia da decenni. 
Non basta per spiegare il dolore che per sempre rimarrà impresso nella nostra memoria.


- Dario Pellizzari - 

A Bergamo, nella serata di mercoledì 18 marzo, sono arrivati i mezzi dell’esercito per trasportare le bare di alcune delle persone morte di COVID-19 dal cimitero monumentale ai forni crematori di altre città. Bergamo, la provincia con il maggior numero di contagi da coronavirus in tutta Italia, non riusciva più a gestire la situazione e le attese per le cremazioni – pratica scelta dalla maggioranza delle famiglie delle persone morte – avevano ormai superato la settimana. A Bergamo c’è un solo forno crematorio che sta lavorando a pieno regime, 24 ore al giorno, ma può cremare al massimo 25 defunti al giorno. Anche la camera mortuaria del cimitero non aveva più spazio disponibile, e nei giorni scorsi era stato necessario mettere le bare nella chiesa di Ognissanti, sempre all’interno del cimitero. (da Il-Post)

Buona giornata a tutti. :-)




martedì 17 dicembre 2019

L'angelo e l'albero di Natale - Leggenda popolare della Gran Bretagna

Come si sa, l'uomo ha vagabondato per tutta la terra fondando diversi insediamenti che, nel corso dei secoli, si sono sempre più allargati creando società diverse e poi nazioni.
Sebbene il piccolo Gesù sia nato in Palestina, un paese caldo nel quale sicuramente non si trovano alberi quali gli abeti, le popolazioni del nord del mondo usano addobbare proprio pini e abeti in occasione del Natale.
Anche in Inghilterra, paese del nord dell'Europa, ogni anno, il venticinque di dicembre, piazze e giardini si illuminano di splendide decorazioni con cui la gente riveste gli alberi che diventeranno il simbolo di questa festa così speciale.
In un villaggio inglese viveva molti anni fa un bambino di nome Giacomo.
Era un bimbo molto dolce e sensibile che la sorte aveva però toccato in modo speciale. 
Non aveva ricevuto infatti il dono della vista e si affidava ai racconti degli adulti o degli amici per immaginare dentro di sé tutto ciò che lo circondava.
Se da un lato poteva essere considerato sfortunato, da un altro aveva però ricevuto un regalo: il suo angelo custode, che era davvero straordinario.
A questo angelo era stato affidato proprio Giacomo e lui si dedicava al suo piccolo protetto con un entusiasmo e una dedizione come solo fra gli abitanti del Paradiso si possono trovare.
Il bimbo in realtà non era mai solo e quello che non riusciva a immaginare con la fantasia gli veniva dipinto direttamente nella mente dal suo attentissimo angelo.
A volte questa capacità di intuire le forme della realtà lasciava tutti sbalorditi e alcuni borbottavano a mezza voce che quel bambino riusciva a mettersi in contatto con una dimensione sconosciuta.
Poteva anche capitare, a chi si trovava vicino a lui, di udirlo bisbigliare con qualcuno che, naturalmente, nessuno vedeva, chiedendo dettagli su questa o quella cosa che si trovava lì appresso. 
Giacomo non aveva mai parlato con nessuno di questo prezioso amico, né con mamma né con papà, né, tanto meno, con i suoi giovani amici, ma lo aveva semplicemente accolto nella sua vita come ognuno di noi accoglie la parte più preziosa e profonda di se stesso.
Come ogni anno, anche quella volta stava per arrivare la vigilia di Natale e i preparativi per l'addobbo più bello fervevano in ogni famiglia.
Mamme, papà, nonni, zii e parenti tutti non facevano che correre da un negozio all'altro per riuscire a trovare qualcosa di veramente speciale con cui meravigliare i piccoli e gli amici.
Ognuno lasciava andare a briglia sciolta la propria fantasia e il villaggio, giorno dopo giorno, si stava trasformando in un quadro animato, dove colori e luci rendevano ogni cosa spettacolare e quasi irreale.
Naturalmente la fantasia di Giacomo galoppava più di ogni altra e lui non faceva che chiedere e richiedere, ora a questo e ora a quello, ma proprio in quell'occasione non riusciva a creare dentro di sé l'immagine del "misterioso" albero di Natale.
Spesso pregava il buon Dio perché almeno quella volta, solo per pochi attimi, gli facesse dono della vista permettendogli di ammirare quel prodigioso sfavillio di luci. 
Sapeva bene che Dio era più buono di chiunque altro perché il suo amico segreto gli aveva raccontato su di Lui delle storie meravigliose.
Giacomo intuiva dentro di sé che quell'albero rappresentava qualcosa di ancor più prezioso e profondo di quello che l'apparenza mostrava.
«Quelle luci che giocano con le ombre dei rami sono come tanti sorrisi che si nascondono dentro le pieghe dell'anima» gli sussurrò l'angelo.
«Ma perché si mostrano solo la notte di Natale?» rispose Giacomo perplesso.
«Non si mostrano solo in quella notte, ma ogni qualvolta l'uomo si sente particolarmente vicino a Dio. E la notte di Natale è una di quelle volte.»
«Dimmi tu quale sarà l'albero con i sorrisi più belli, perché io non potrò vederlo». Disse allora sconsolato il bambino all'angelo.
«Mio dolce amico, l'albero più bello sarà quello che brillerà nel tuo cuore!»
Giacomo stava ancora riflettendo su quelle parole quando la mamma lo chiamò.
«Vieni, Giacomino, ti farò toccare tutti gli oggetti che ho appeso al nostro albero: ci sono anche le caramelle che ti piacciono tanto e papà ha appeso una bella sorpresa per te. Sono sicura che ti piacerà tantissimo.»
"Com'è dolce la voce della mamma! Dio è stato veramente buono con me" pensò il bambino, assaporando il tepore che l'amore dei suoi genitori sapeva infondergli.
In quell'attimo dal suo cuore sgorgò un'emozione così profonda che si sentì scosso da un brivido e, guardando nella grande stanza, Giacomo vide brillare il suo albero di Natale.
Non solo Giacomo vide per la prima volta tutto ciò che lo circondava, ma, affacciato alla finestra, fra lo scintillio della neve, distinse chiaramente una figura luminosa che agitava la mano verso di lui in segno di saluto.
Nessuno nel villaggio dimenticò quel Natale in cui avvenne il miracolo del piccolo cieco, e, anche se i medici diedero a quell'inconsueto fenomeno un nome scientifico, tutti vollero sempre considerarlo solo e soltanto un miracolo.
Giacomo crebbe e divenne un uomo. Non si chiese mai cosa fosse successo quella notte, ma accettò pieno di gratitudine e basta.
Il suo misterioso compagno sparì nello stesso attimo in cui lui riacquistò la vista, ma lui non lo dimenticò mai.
Passarono gli anni e Giacomo ebbe a sua volta dei figli e dei nipoti per i quali, ogni Natale, non mancò mai di addobbare bellissimi alberi luminosi, ricordando loro che ogni luce era un sorriso che durante l'anno essi avevano dedicato a Dio.
Ma arrivò un Natale in cui Giacomo non ebbe più la forza di addobbare il grande abete che faceva bella mostra di sé nella sala della sua casa e per lui lo fecero i figli e i nipoti. E lo fecero con tanto amore che mai albero di Natale gli parve più bello.
Seduto nella poltrona preferita, il vecchio Giacomo guardava i suoi cari intorno all'albero luccicante e pareva che la loro gioia riempisse tutto il mondo.
Il suo ultimo pensiero fu: "Dio è stato veramente buono con me!" e lo sguardo andò alla finestra, oltre la quale una figura luminosa, fra lo scintillio della neve, lo stava aspettando.

- Leggenda popolare della Gran Bretagna - 
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 







Buona giornata a tutti. :-)






lunedì 18 novembre 2019

Saturnino vola in Paradiso - leggenda medievale

Il Maligno stava scrutando con attenzione gli uomini sulla terra, attento come sempre alla possibilità di accaparrarsi qualche nuova anima.
Guarda di qua e guarda di là, fu attratto da una gran profusione di persone che stavano uscendo da una chiesa. Aguzzò ulteriormente lo sguardo tendendo le orecchie come due antenne e, in un baleno, fu come se lui stesso si trovasse in mezzo a quella gente.
Sentì quindi tutti gli elogi con cui chi aveva assistito alla funzione domenicale apostrofava il vescovo della città che, a quanto pareva, aveva appena tenuto uno dei suoi famosi sermoni.
Potete immaginarvi la curiosità di Satana. Chi era questo famoso predicatore sfuggito alle sue sgrinfie?
Si trattava di san Donato, vescovo di Arezzo, le cui argomentazioni, forgiate con voce possente, erano riuscite a sconfiggere i più grandi avversari della Chiesa.
Seduto nel suo antro fumoso, Satana cominciò a rimuginare sul da farsi, ma prima di prendere qualsiasi decisione volle sfogliare la grande enciclopedia in cui ogni anima veniva citata dettagliatamente.
Ecco cosa trovò alla voce "Anima di san Donato".

L'anima di questo soggetto possiede grande forza, la sua struttura è legata a un corpo altrettanto forte e robusto. Cresciuto in ambiente contadino, ne ha ereditato i saldi principi legati al rispetto della natura e dell'essere umano che da essa trae vigore.
Di temperamento focoso, Donato ama cimentarsi in qualsiasi tipo di disputa e non disdegna neppure qualche baruffa.
Questa anima non appartiene al tipo ascetico, considerando la sua permanenza sulla terra una palestra di prova per rinforzare se stessa e lo spirito che la guida.
L'uomo che ospita quest'anima apprezza i piaceri della compagnia, della buona tavola e del buon bere.
«Caspita!» pensò il diavolo. «Questo qui me lo lavoro io a dovere! Se il fiuto non m'inganna, il terreno è fertile per piantare le mie radici». E così si mise a considerare quale dei suoi aiutanti poteva impegnare in quell'opera.
Gli venne in mente un diavoletto decisamente maligno e furbo che, uscito a pieni voti dal corso di "tentatore", aveva già dato buona prova delle sue capacità.
Il Maligno fece così chiamare Saturnino, questo era il nome del diavoletto, e gli affidò il delicato incarico di circuire l'anima di Donato e di farne una sua conquista.
A Saturnino non parve vero di tenersi un po' in forma con le tentazioni che da qualche tempo non esercitava più, avendo avuto solo incarichi amministrativi.
Per prima cosa seguì Donato per diversi giorni, tenendosi però lontano da lui, anche a causa di quell'odore di zolfo che sempre gli rimaneva appiccicato addosso quando usciva dall'Inferno.
Poi, fattosi un'idea più precisa sul sant'uomo, preparò un dettagliato piano di attacco.
La prima mossa coinvolse l'ignara perpetua che da tanti anni provvedeva alla cura della canonica.
Teresa, ormai di mezza età, era rimasta vedova ancora giovane e aveva potuto allevare i tre figli grazie alla generosità del suo vescovo; così le era sembrato più che giusto rendersi utile occupandosi di lui come una affezionata sorella.
Donna di grande giudizio, aveva accudito Donato con la stessa dedizione con cui aveva cresciuto i suoi figli, né mai il suo sguardo si era posato su di lui con occhio diverso da quello di una madre.
Lo rispettava profondamente e lo ammirava per la forza con cui affrontava ogni problema della sua diocesi, occupandosi anche dei più piccoli dettagli.
Eccellente cuoca, Teresa indulgeva verso le golosità del suo benefattore e la tavola di Donato era rinomata per i manicaretti che la brava donna riusciva a preparare anche con poca spesa, senza contare che chiunque si trovasse nell'indigenza poteva sempre fare affidamento su quel generoso desco.
Saturnino pensò quindi di mettere in pratica una delle più antiche tentazioni: quella della sensualità femminile. Non diceva anche la Bibbia che la donna è la prima fonte di peccato?
Fu così che l'ignara Teresa finì preda di quel furbacchione.
Figurarsi la sorpresa di Donato quando una sera vide la sua brava perpetua presentarsi con il solito bicchiere di latte, ma...
Le vesti erano inequivocabilmente provocanti e, diciamolo fra noi, anche ridotte all'essenziale. I capelli, solitamente raccolti in una crocchia, facevano bella mostra, morbidamente sciolti sulle spalle; e quella voce suadente...
"Perbacco! Cos'è accaduto?" pensò sconcertato l'uomo.
Ma se Saturnino era furbo, il vescovo non era da meno. Senza lasciarsi trarre in inganno, Donato si alzò in piedi e, dall'alto della sua imponente mole, gridò con quanto fiato avesse in gola: «Fuori da lì, manigoldo!».
E, così dicendo, prese la scodella del latte, lo benedisse e si mise ad aspergere la donna e tutto quanto si trovasse lì intorno.
A contatto con il liquido benedetto Saturnino non poté resistere dal bruciore, gli sembrava di essere ustionato da olio bollente. Per tutti i diavoli, ma quello era peggio dell'Inferno!
Con un balzo uscì dalla donna, andando a nascondersi nel primo anfratto buio che trovò sulla sua strada. Bella figura aveva fatto! E ora, che avrebbe raccontato al suo signore?
Intanto, nella canonica, Teresa, tornata in sé, stava valutando la situazione con grande imbarazzo, non riuscendo a capire come mai si trovasse lì in quelle condizioni.
«Portami un'altra tazza di latte, per favore, e non preoccuparti» le disse gentilmente il vescovo: «non è successo niente, abbiamo solo ricevuto una visita inattesa, ma adesso è tutto sistemato».
Passò un po' di tempo e il nostro diavoletto si riprese alla grande dallo smacco e dallo spavento di quella sera.
Gironzolando intorno a Donato, in attesa di un momento favorevole per intervenire, gli si presentò ben presto l'occasione di introdursi nei suoi sogni. Quale momento migliore per trovare quell'uomo indifeso e vulnerabile?
Approfittando di un pisolino che il vescovo si era concesso dopo il pasto di mezzogiorno, si avvicinò cauto bisbigliandogli all'orecchio: «Ascolta la voce di un amico... Io posso darti potere e gloria... Abbandona la strada del bene ed entra a far parte dei servitori del mio signore: lui ti colmerà di tutto ciò che un uomo possa desiderare!».
Donato stava godendosi il sonnellino pomeridiano ma, messo in allerta dalla prima visita di quell'abitante degli inferi, non abbandonava mai completamente le sue difese.
Così, nella parte vigile della sua mente, suonò immediatamente un campanello
d'allarme: "Attento, si sente odore di zolfo!".
Il sant'uomo finse allora di russare rumorosamente, ma in realtà si stava preparando ad attaccare contando sulla sorpresa.
Infatti Saturnino si era messo tranquillo di fianco all'uomo addormentato e continuava imperterrito a sciorinare promesse e lusinghe.
D'un balzo Donato si alzò e, prendendo il diavoletto per gli zoccoli, cominciò a sbatacchiarlo di qua e di là come un tappetino; poi, con uno scatto veloce, inusuale per un uomo della sua mole, lo afferrò per la gola stringendo così forte che a Saturnino non rimase che chiedere indulgenza.
«Abbi pietà, buon vescovo» tossicchiava il miserello: «se mi lascerai andare, non ti importunerò mai più, parola di diavolo!».
Sbuffando come un mantice, Donato si accontentò di immergere il malcapitato nell'acquasantiera della sacrestia, dove lo lasciò in ammollo più morto che vivo.
Quando finalmente riuscì ad aggrapparsi ai bordi dell'ampio bacile, Saturnino trovò a malapena la forza per sgattaiolare fuori e raggiungere una buia grotta fuori città, direttamente collegata con le gallerie infernali e lì, finalmente, poté riprendere fiato e farsi curare dagli gnomi dell'oscurità.
Rimessosi in forze, il nostro diavolo pensò che forse sarebbe stato meglio lasciar perdere quella missione e starsene per un po' lontano da quei luoghi. 
A lui che importava di Donato e della sua virtù? Se la tenesse... in fondo Saturnino era sempre stato un assertore del libero arbitrio.
Ma non così la pensava Satana, che subito lo mandò a chiamare, minacciandolo di tremendi castighi se non gli avesse portato al più presto l'anima di quel cocciuto seguace della bontà e, pronunciando quella parola, storse la bocca in un terribile ghigno di disprezzo.
Tutto mogio, il nostro diavolo si rimise in cammino, ma l'antica baldanza era completamente svanita.
Magro da far pena, spelacchiato e in preda a frequenti tremori, Saturnino si aggirava per le strade di Arezzo indeciso sul da farsi.
Tanto per tenersi in allenamento, si nascondeva negli antri più scuri o agli angoli dei vicoli per balzar fuori all'improvviso e spaventare gli occasionali passanti, ma i più lo guardavano con disgusto, scambiandolo per un cane randagio, oltretutto un po' rognosetto.
Il suo orgoglio era profondamente ferito, doveva ad ogni costo raccogliere quello che rimaneva dell'antico vigore e affrontare nuovamente il vescovo. S'intrufolò nella sua casa e, approfittando della momentanea assenza di Teresa dalla cucina, cominciò con lo sbafarsi la rimanenza della cena; poi, rimuginando su quale tipo di tentazione mettere in atto, finì con l'intrufolarsi dentro un abito di Donato.
Era il mese di gennaio e quell'anno il freddo non scherzava; così Saturnino, abbondantemente rifocillato, finì con l'addormentarsi sodo e al calduccio.
Ma quando si risvegliò si trovò avvinghiato dalla stretta terrificante di quella che avrebbe dovuto essere la sua preda.
«Diavolaccio malefico» stava gridando Donato, «ti farò passare io la voglia di importunare i vescovi!».
Quindi lo portò sul campanile legandolo strettamente al batacchio della campana grande, così che ogni volta questa suonava il diavolo veniva scosso, urtato, tirato e frastornato come un cencio battuto sulla pietra.
I topi che abitavano la torre campanaria si chiesero ben presto che ci facesse lì quel coso e cominciarono a rosicchiare la corda che lo teneva legato, finché, finalmente, lo liberarono dall'incomoda situazione facendolo cadere con un tonfo sul pavimento. 
Per la prima volta Saturnino cominciava seriamente a dubitare sulla sua natura diabolica, eppure non voleva ancora darsi per vinto. Alla prima occasione scese cautamente nelle stanze di Donato e si nascose nella sua tabacchiera; così, quando questi ne sollevò il coperchio, balzò fuori con un urlo da far accapponare la pelle. Ma non era così facile intimorire un santo, e tanto meno quello.
«Sei dunque tornato, spiritello malvagio» gli disse, osservandone con soddisfazione l'aspetto malconcio. «Ora ti sistemo una volta per tutte, così potrai riferire al tuo padrone che con me non c'è niente da fare!».
Detto questo, Donato prese il diavolo per un orecchio e lo ficcò dentro il ripostiglio dove erano conservate tutte le preghiere che il vescovo aveva rivolto al buon Dio.
Questo fu il colmo! Saturnino strabuzzò gli occhi, si contorse in preda a spasimi atroci mentre le sue fibre erano sottoposte a inimmaginabili sconvolgimenti. Infine, al colmo della disperazione, svenne e tutto sprofondò in un grande silenzio.
A cominciare dal quel giorno il nostro diavoletto non osò più tormentare il santo né tanto meno tornare dal suo padrone, il maligno Signore delle Tenebre.
Si aggirava per la casa e per il giardino cercando di passare inosservato, sgattaiolava lungo i muri accontentandosi di qualche avanzo della cucina e di poter nascondersi in quel luogo che cominciava quasi a piacergli.
Intanto il tempo passava e Donato perdeva sempre più le sue forze avvicinandosi ormai alla vecchiaia.
Quando infine si ammalò, da quell'uomo robusto che era si ridusse in un letto preso da estrema debolezza.
Saturnino considerò allora che forse poteva essere giunto il tempo della sua rivincita e, avvicinandosi stancamente al capezzale del suo temuto antagonista, gli sussurrò con quel po' di voce che anche a lui era rimasta: «Dammi finalmente retta, io posso ridarti salute e giovinezza se tu ti affiderai al mio signore! Basta un tuo cenno, anzi il solo tuo desiderio, e potrai tornare quello di un tempo: giovane, forte e protetto dal più potente dei principi».
II santo guardò quel malconcio demonio spelacchiato e smunto, ormai sfinito dopo tante inutili lotte, e provò per lui una grande pietà.
«Ascolta, se il tuo padrone può fare tutto ciò che dici, per quale motivo non ne approfitti tu stesso?».
Saturnino non sapeva che rispondere, ma quelle parole lo fecero riflettere.
«Posso forse proporre io un patto a te» proseguì Donato con un filo di voce. «Non posso certo trasformarti così sui due piedi in un angelo, ma posso sottrarti al potere del tuo sgradevole padrone».
E visto che il diavoletto sembrava contento di quella proposta, Donato si rivolse al buon Dio affinché si prendesse cura Lui di quella creatura. 
In quello stesso istante, la sgraziata ombra scura che si trovava accanto al santo si trasformò per incanto in un grazioso e variopinto uccellino dal canto melodioso.
Per tutti i giorni in cui Donato giacque ammalato il piccolo animale non lasciò più la stanza, cercando di dare conforto al moribondo con il trillo del suo canto.
Passò poco tempo e il santo lasciò questa terra per raggiungere il Paradiso dove, statene pur certi, fece in modo che fosse chiamato anche un certo uccellino.

- Leggenda medievale - 

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 





Buona giornata a tutti. :-)





giovedì 17 ottobre 2019

Don Martino va all'Inferno - leggenda medievale

Questa è la storia di don Martino, reverendo parroco di Cucugnano. 
Fin da giovane Martino sognava di diventare un buon parroco e di portare pace e serenità nel cuore di quelli che sarebbero stati i suoi parrocchiani, facendo del suo paese una sorta di isola felice in un mondo pieno di odio e di rancore.
Martino studiò alacremente e fu ordinato sacerdote. Poi, finalmente, un giorno il vescovo lo convocò per comunicargli che gli era stata affidata la parrocchia di Cucugnano.
Don Martino arrivò alla sua parrocchia una mattina molto presto e si accorse che nessuno lo stava aspettando. Ne rimase un po' deluso, ma non si scoraggiò, e già da quello stesso giorno si mise all'opera per realizzare il suo sogno.
«Il nostro parroco è come il prezzemolo, ce lo ritroviamo dappertutto» mormoravano gli abitanti di Cucugnano. Però gli volevano un gran bene anche se di andare in chiesa, o di pregare, non ne avevano proprio voglia.
Don Martino non trascurava nessuno: il suo santo zelo lo portava in ogni casa e chiunque in paese poteva dire di aver ricevuto da lui qualche parola buona o utili consigli.
La domenica però pochi contraccambiavano i favori del loro parroco recandosi in chiesa e questo era per lui un grande cruccio.
Fu così che don Martino, salito sul pulpito una domenica mattina, guardando la desolata chiesa semivuota se ne uscì con queste parole: «Vorrei rivelare ai miei amati parrocchiani il modo per mettere le mani su un tesoro che potrà far diventare tutti ricchi e felici. Però, dal momento che oggi non c'è quasi nessuno, preferisco svelarne il segreto la prossima domenica, di modo che ciascuno abbia la propria parte».
Scese quindi dal pulpito senza aggiungere altro.
Potete immaginare quale pienone ci fu in chiesa la domenica seguente! Chi si sarebbe lasciato scappare l'occasione per sapere dov'era un tesoro?
Il parroco salì sul pulpito nel silenzio generale, tutti lo guardavano in trepidante attesa.
«State tranquilli, il tesoro c'è ed è per tutti. Dove si trova lo saprete ben presto. Ora ascoltate attentamente quanto mi è successo.
L'altra notte fui svegliato all'improvviso da un vento strano che entrava nella mia stanza. Mi alzai, guardai fuori dalla finestra e sapete cosa vidi? 
Un angelo tutto bianco che mi faceva cenno con la mano di seguirlo. 
Bastò il mio desiderio di andare con lui e in un lampo fui trasportato fin sulla porta del Paradiso. Era bellissima, grande e tutta lucente. Mi aprì san Pietro in persona che aveva in mano delle chiavi d'oro con le quali poteva aprire la porta per uscire dal tempo ed entrare nella dimensione eterna. 
Là san Pietro teneva un librone enorme sul quale comparivano tutte le anime del Paradiso, quelle che furono e quelle che saranno. Allora, giusto perché ero lì e che erano stati loro a invitarmi, azzardai a chiedere quanti abitanti di Cucugnano si trovassero sul suo libro.
San Pietro, che vi assicuro è un uomo molto cordiale, spulciò attentamente ogni pagina e, essendo fuori dal tempo, non impiegò che un attimo.
Potete immaginare come rimasi quando mi comunicò che nessun cucugnanese si trovava fra quei nomi. Io cominciai a disperarmi: "Come, proprio nessuno?".
San Pietro mi consolò rincuorandomi: "Non angustiatevi, don Martino, vedrete che i vostri parrocchiani avranno dovuto scontare qualche peccatuccio. Li troverete senz'altro in Purgatorio. Ora vi mando a mio nome dal Santo Portinaio e lì potrete verificare voi stesso".
Sempre accompagnato dall'angelo silenzioso, scesi di qualche piano e bussai alle porte del Purgatorio. La strada era stata disastrosa. Era piena di ciottoli pungenti e profondi precipizi, e in ogni dove si sentivano lunghi sospiri simili a folate di vento. Mi fu aperto dal Santo Portinaio che era stato già avvisato del mio arrivo.
Mentre controllavamo il grande libro dell'Espiazione udivo voci indistinte che mormoravano in continuazione: "Oh, se non avessi fatto...". "Ah, se non avessi detto...". "Ma come ho potuto non capire...". "Eppure sarebbe stato così semplice...".
Quelle povere anime mi facevano una gran pena: quanto avrei voluto avere la possibilità di aiutare ognuna di loro!
Finalmente giungemmo all'ultima pagina del libro e il Santo Portinaio mi disse, tirando un grosso sospiro: "State tranquillo, reverendo, di cucugnanesi qui in Purgatorio non c'è nemmeno l'ombra: saranno certamente tutti in Paradiso".
Mi sentii mancare! Come? Se non c'erano cucugnanesi né in Paradiso né in Purgatorio, voleva dire che... non osavo portare a termine il terribile pensiero.
Il buon angelo che mi accompagnava sembrava titubante. Sarei andato anche laggiù?
Sì, mi sarei sincerato personalmente che non si fosse trattato di un equivoco. Ero deciso a scendere anche all'Inferno!
Il Portinaio del Purgatorio mi guardò con comprensione, mi consegnò delle scarpe speciali con le quali non mi sarei ustionato i piedi lungo la strada degli inferi e mi diede grossi occhiali scuri attraverso i quali scrutare fra le fiamme.

Mi feci coraggio e, seguendo l'angelo, cominciai a scendere sempre più giù.
Il caldo si faceva insopportabile, non ce l'avrei fatta se ogni tanto l'angelo non mi avesse sfiorato con le grandi ali regalandomi un po' di frescura.
In fondo a quella strada buia e torrida vidi a un tratto le porte dell'Inferno, spalancate come le fauci di un mostro!»
A questo punto don Martino fece una pausa nel suo racconto tergendosi il sudore con un fazzolettone, come se bastasse quella rievocazione per fargli patire un gran caldo.
I parrocchiani, a naso in su, non fiatavano.
«Dunque, ero proprio all'Inferno» riprese il buon prete. «L'angelo non ne varcò la soglia e anch'io sinceramente ne avrei fatto volentieri a meno. Non si sentivano che urla e lamenti, l'aria era impregnata dei più sgradevoli odori e ogni tanto qualcuno prorompeva in tremendi schiamazzi.
"Allora, ti decidi o no?" mi domandò all'improvviso un diavolo gobbo con un grosso forcone in mano.
"Lasciami stare" implorai pieno di spavento. "Sono un servo di Dio!".
"Per tutti i satanassi! E allora cosa vieni a fare qui? A prendermi in giro? Guarda che non ti conviene! Servo di Dio o no, ti arrostisco per bene". Poi, visto al di là della soglia l'angelo in attesa, mi chiese nuovamente: "Dimmi quello che vuoi e andatevene, tu e il tuo sbiadito accompagnatore".
Mi feci un po' di coraggio e chiesi: "Io vorrei solo sapere se qui presso di voi avete qualcuno dei miei parrocchiani di Cucugnano...".
Il diavolo non mi lasciò finire la frase e proruppe in una risata che da noi avrebbe scosso tutto il paese: "Ma dico, sei forse scemo? Chi non sa che gli abitanti di Cucugnano stanno tutti qui?".
Io, preso da uno sgomento che non so spiegarvi, guardai in quell'aria densa e opaca e, tra pianti e grida, vi vidi proprio tutti...
Rimasi talmente inorridito che mi paralizzai proprio lì, davanti a quel diavolo puzzolente, tanto che l'angelo stese veloce un'ala oltre la soglia dell'Inferno e mi portò via con sé.
E ora eccomi qui a raccontarvi questa incredibile avventura. Ma si può andare avanti così e infilarsi come beoti proprio dentro le fauci dell'Inferno?»
Don Martino tacque all'improvviso, scrutando l'effetto delle sue parole.
Sbalorditi e impressionati dalla miracolosa avventura toccata al loro parroco, i cucugnanesi tacevano, ma erano tutti pallidi e tremanti.
Il prete riprese fiato e, approfittando di quell'attimo di sbigottimento generale, proseguì: «Dunque così non va e io ho deciso di fare tutto il possibile per sottrarvi all'abisso verso cui vi state avviando. Cominceremo da domani. Lunedì confesserò i vecchi, spero di non avere molto da fare. Martedì i bambini, e questa sarà una giornata di riposo. Mercoledì confesserò gli uomini e sarà una vera giornataccia. Giovedì le donne..., povere le mie orecchie. Venerdì so io chi confesserò... glielo farò sapere a quattr'occhi. Sabato mattina sarete tutti a posto e con le coscienze tranquille, pronti per la messa di domenica, in barba a quei furboni di diavoli che già gongolano pensando a voi».
«E il tesoro?» chiese timidamente qualcuno.
«Il vero tesoro non è altro che la pace nel cuore e la serenità di una vita spesa all'ombra del buon Dio. Non bisogna fare grandi cose, basta amarlo... il resto va da sé».
«E adesso fate una buona giornata e così sia!» tagliò corto don Martino.
Dopo la predica di quella domenica le cose cambiarono a Cucugnano. Non che tutti divennero santi, per carità! Ma don Martino sognava tutte le notti di guidare una grande processione in cui lui e i suoi parrocchiani percorrevano una strada stellata verso la città di Dio.

- leggenda medievale -
da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 



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mercoledì 25 settembre 2019

Il furbo falegname - leggenda medievale


C'era una volta un falegname che sarebbe stato una vera perla d'uomo se non avesse avuto il brutto vizio di giocare alle carte.
E sentite dunque come quel furbacchione seppe sfruttare ciò che la sorte gli aveva dato.
Un bel giorno gli capitarono in bottega Gesù e san Pietro, che erano scesi in terra a controllare come andavano le cose.
Tutto buon cuore, il falegname, ignaro di chi fossero i due viandanti, offrì loro pane, companatico e ottimo vino, con tale gentilezza che Gesù volle ricompensarlo. Al momento del commiato gli disse: «Chiedimi tre grazie e sarai accontentato».
«Chiedi la salute dell'anima!» gli mormorò san Pietro.
«Domanderò quel che mi pare» rispose il falegname. «Ecco i miei tre desideri. Primo: che ogni volta io giochi, vinca; 
secondo: che chi si siede sul mio sgabello vi rimanga attaccato e non possa alzarsi senza il mio permesso; 
terzo: che chi sale sul mio albero di fichi ci resti imprigionato».
«Ti sia concesso» disse Gesù.
San Pietro, fuori di sé dalla collera, borbottò: «Disgraziato, dovevi chiedere la salute dell'anima!».
«Taci, sei proprio noioso con i tuoi consigli» gli rispose il falegname.
Così Gesù e san Pietro se ne andarono e il nostro falegname... via di volata a giocare! Giocò tutta la sera, onestamente si capisce, e vinse fino alla fine. Una vera cuccagna!
Divenuto quasi ricco, credete che smettesse di piallare e segare? Neanche per sogno! Era un buon uomo, giusto e laborioso: donò gran parte del denaro vinto al gioco ai poveri e continuò a lavorare come prima perché il lavoro, diceva lui, scaccia i cattivi pensieri.
Quando si trovava un po' al verde, tornava puntualmente al tavolo da gioco vincendo fior di quattrini. Passarono così felicemente molti anni. Una sera, avvolta in un gran manto nero, la Signora Morte arrivò a prenderlo.
Particolarmente stanca per il gran camminare di quella giornata, si sedette sullo sgabello del falegname, tanto per riposare un po' prima di riprendere il viaggio.
«Ma brava» la beffò l'uomo: «ora prova ad alzarti!».
La Morte lo guardò stupita, pensando che il poveretto fosse andato fuori di testa nel vederla e fece per alzarsi ma, malgrado tutti gli sforzi, naturalmente non ci riuscì.
«Oh povera me!» si lamentava la Morte, rendendosi conto di essere preda di uno strano incantamento. «Come faccio ora?».
«Che cosa puoi concedermi se ti libero?» rispose il furbo ometto.

«Chiedi pure ciò che vuoi e te lo concederò» promise la Morte, smaniosa di alzarsi da quello sgabello.
«Voglio ancora cento anni di vita.»
«Oh, che esagerazione! Te ne concederò cinquanta!»
«Bene, mi accontenterò, vada per altri cinquant'anni di vita!». E, presi i debiti accordi, la Morte si rimise in cammino.
Cinquant'anni dopo, neppure un minuto di più, eccola che torna ben decisa a prendersi quanto le spettava.
Il falegname, che era diventato un arzillo vecchietto, era pronto ad accoglierla ma, naturalmente, a modo suo.
«Eccoti di nuovo! Ma come ti trovo sciupata, mia cara Morte... così magra... Guarda che splendidi fichi ho sulla mia pianta: prima di partire, perché non sali tu stessa e ne cogli qualcuno?»
In effetti, quell'idea non dispiacque affatto alla Signora, alla quale non capitava spesso che qualcuno le offrisse gentilmente qualcosa con cui rifocillarsi. Perché non approfittarne?
Così la Morte salì sul fico e... potete immaginare cosa successe. Vi rimase impiantata più salda di uno dei suoi rami.
La poveretta se ne uscì in lamenti e imprecazioni, ma ciò non le servì a liberarsi; solo il furbo vecchietto poteva aiutarla.
«Cosa mi concedi se ti faccio scendere dal mio fico?» chiese l'uomo.
«Chiedi ciò che vuoi e te lo concederò» rispose esasperata la Morte.
«Duecento anni di vita ancora!»
«Facciamo cento e sia finita lì!». Il tono con cui la Signora rispose suggerì al falegname di accontentarsi.
Si misero d'accordo per la seconda volta e la Morte se ne andò rodendosi dalla rabbia.
Passati i cento anni, il nostro falegname era proprio uno straccetto, persino stanco di vivere e, difficile a credersi, di giocare a carte. Era comunque soddisfatto di quella lunga vita che volgeva al termine e moriva da onest'uomo così come era vissuto.
Se ne partì quindi in compagnia della nera Signora, che lo portò diritto alla porta del Paradiso.
«Ecco» disse rivolta a san Pietro: «finalmente ti ho portato il falegname!».
«Quale falegname?» chiese il santo. «Forse quello che non seguì il mio suggerimento di chiedere la salvezza dell'anima? E adesso vorrebbe entrare? Via di qui!».
«Buon Santo» si intromise l'omino, «con il denaro vinto al gioco io ho fatto tutto il bene che ho potuto e sono rimasto sempre un onesto lavoratore».
Ma san Pietro non volle sentir ragione e, con un gran tonfo, sbatté la porta del Paradiso.
Allora la Morte, tutta trafelata, se lo riprese avviandosi verso il Purgatorio. Aveva proprio voglia di liberarsi di quel problema, anche se in cuor suo quell'omino cominciava a esserle quasi simpatico.
«Un giocatore?» gridò l'Angelo guardiano del Purgatorio. «Via di qui! Non vogliamo gente di tale risma! Che se ne vada all'Inferno!».
E la povera Morte, sbuffando, si riprese il suo carico e si tuffò giù verso il Regno degli Inferi.
Lucifero in persona li accolse con grande entusiasmo: «Ma guarda un po' chi c'è! Il falegname. Avevo una gran voglia di conoscerti. Duecento anni di vita sono un bel vivere, furbacchione!».
E subito lo volle portare nel suo antro fumoso, dove nessuno sa quali cose tremende accadono.
«Sono stato un giocatore, è vero» gli disse il vecchio uomo, «ma un giocatore onesto. Ho reso felice molta gente con il mio guadagno, ho sempre lavorato e non ho mai fatto del male a nessuno».
«Vincere sempre a carte e non fare mai del male a nessuno sono due cose che non vanno d'accordo» gli rispose Lucifero. «Un giocatore che vince sempre deve essere per forza un baro, quindi resterai qui».
«Beh!» ribatté il falegname. «Hai un mazzo di carte?».
«Mi prendi forse in giro? Non sai che tutte le carte della terra vengono fabbricate proprio qui e che noi ne conserviamo gli stampi?» gli rispose orgoglioso Lucifero.
«Ebbene, allora giochiamo! Ti dimostrerò che posso vincere anche te.»
«Vincere me che sono il re del gioco? Mi fai giusto ridere! Voglio proprio divertirmi! Ma tu cosa hai da giocarti?»
«Ormai non ho che la mia povera anima.»
«E sia, giochiamoci questa tua animalaccia!» urlò divertito il diavolo.
Gioca e gioca e gioca, non so dirvi per quanto tempo Lucifero e il falegname si accanirono sulle carte. Una partita dopo l'altra, il falegname non faceva che vincere. Alla fine il diavolo batté un poderoso pugno sul tavolo, tanto che tutto l'Inferno ne fu sconquassato.
«Basta!» gridò inviperito. «Vattene da qui e non farti più vedere da me!».
Il nostro uomo se ne tornò allora alla soglia del Paradiso e cominciò a bussare, ma san Pietro non ne voleva proprio sapere di aprirgli.
A Gesù non rimase altro da fare che intervenire personalmente.
«Suvvia, Pietro, lascialo entrare. Da un dono che avrebbe potuto portare molto male, sia a lui sia agli altri, quest'uomo ha saputo invece trarre del bene per tutti. Non è solo chiedendo la salvezza dell'anima che la si ottiene!». E così dicendo aprì il grande portone dorato.

- Leggenda medievale -

da: "Leggende Cristiane. Storie straordinarie di santi, martiri, eremiti e pellegrini", a cura di Roberta Bellinzaghi, © 2004 - Edizioni Piemme S.p.A. 


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