INTROIBO
Il 28 settembre 1941 i Tedeschi
ordinarono agli ebrei di Kiev di presentarsi il giorno successivo nella zona
dei Cimiteri pena la fucilazione. Alle prime luci dell'alba del 29 settembre
una grande folla si radunò nel luogo stabilito. Le famiglie avevano cotto il
pane per il viaggio. Noleggiato carri e calessi. I vecchi procedevano
sorreggendosi l’un l’altro. Le madri tenevano in braccio i neonati. Spingevano
le carrozzine. Trascinavano sacchi gli ebrei di Kiev, casse e valigie. La folla
procedeva come la corrente di un fiume. Sui marciapiedi tedeschi in pattuglia.
Questa processione di morte durò tre giorni e tre notti. La città ammutolì.
Migliaia di persone, soprattutto vecchi, donne e bambini avanzavano verso Babij
Jar.
Ah Signore quanti bambini. I vecchi presto non ce la facevano più ed erano
sorretti dai figli, dai parenti. Avanzavano in silenzio. Come condannati a
morte. Poi alla fine della strada, delle scrivanie come in un ufficio postale.
C'era un posto di blocco prima di un burrone orrendo. Documenti e oggetti di
valore venivano ritirati. Per terra si alzò presto uno strato di carte
d’identità, di passaporti.
I tedeschi obbligavano tutti a spogliarsi. Via i
bagagli, i cappotti, le scarpe. In un minuto restavano tutti nudi e indifesi.
Non c'era nessuna distinzione fra uomini donne bambini. Poi a tutti sparavano
alla nuca e facevano cadere i corpi in un dirupo e tutti si accorsero
all'improvviso che cos’era Babij Jar.
da: Babij Jar , editore Adelphi
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Vostro onore, non riuscivo ancora a
comprendere quello che stava succedendo quando imboccai un lungo passaggio tra due
file di soldati che tenevano in mano manganelli di gomma e grossi bastoni. Se
qualcuno indugiava gli strappavano a forza i vestiti e lo picchiavano a sangue,
ubriachi di odio e di rabbia, in una sorta di frenesia incontenibile. Non si
vedeva bene che cosa ci fosse oltre quella scoscesa parete sabbiosa ma era da
là che provenivano gli spari e le raffiche della mitraglia. Guardai giù e mi
vennero delle vertigini e dei conati di vomito nello scorgere un mare di corpi
insanguinati, accatastati uno sull’altro, come i pezzetti di un puzzle
abbandonati da un bambino capriccioso. Un istante dopo ero in quella vasca di
sangue, un odore fetido e nauseante mi costrinse ad intuire che ero ancora viva
anche se rischiavo di morire soffocata dai corpi che venivano continuamente
catapultati giù insieme a tonnellate di sabbia. Da lontano riuscii a scorgere
tedeschi e polizei ucraini che selezionavano e ammucchiavano oggetti, altri
uomini in divisa, dopo aver stuprato due ragazze, le pugnalarono velocemente e
le gettarono giù nella voragine come fossero bambole di pezza. Le immagini
cominciarono a farsi indistinte, immaginai di avere ancora accanto i volti di
mio padre e mia madre che mi dicevano: “Bambina mia, andiamo a pagare il nostro
ultimo debito a Dio”. Sono trascorsi cinque anni vostro onore, ed io ho provato
a raccontare quell’orrore, ho tentato di combattere con i miei demoni e con le
mie crisi cardiache, ho denunciato quell’inferno a cui sono miracolosamente
scampata ma nessuno mi crede, sento intorno a me lo stesso astio e la stessa
antica diffidenza nei confronti degli sporchi giudei e allora… tanto vale
confidare i miei incubi solo alle marionette del Teatro di Kiev dove lavoravo
come attrice e burattinaia, magari per provare a convincere me stessa che Babij
Jar era stato un gioco, una recita di marionette vocianti e pupazzi dipinti di
un rosso acceso che, chissà perché, mi avevano turbata e spaventata….- Dina –
da: Babij Jar , editore Adelphi
Sul bordo del dirupo mi strapparono di
mano la mia borsa. Mi presero a bastonate e subito avevo il sangue sul
cappotto. Mi dissero di spogliarmi e un cane mi morse un braccio mentre cadevo
nudo sui primi corpi abbattuti come agnelli. In basso vidi uno strato di corpi
su cui gettavano la terra e le persone ancora si muovevano. Mi hanno sparato
alla tempia senza uccidermi nel trambusto colossale. Caddi nel vuoto come un
sasso. Mi ritrovai sotto un carico di corpi sanguinanti e non potevo muovermi.
I tedeschi scendevano e sparavano a qualsiasi cosa si muoveva. Avevo una
bambina morta sulla faccia. Ero nascosto sotto i suoi capelli rossi. Trattenevo
il respiro. Un soldato mi calpestò il petto credendomi morto poi piovve terra
per un tempo infinito . Respiravo sotto la schiena di una donna. Poi venne la
sera e una luna beffarda splendeva sul massacro. Si sentivano gemiti, lamenti e
subito dopo colpi di pistola. Nel silenzio dell'alba strisciai fuori dai corpi
come una serpe insanguinata. Ero magro, agile allora tanto che cominciai a
risalire il dirupo di corpi aggrappandomi a spalle, teste, braccia. Trovai una
catasta di cappotti, ne presi uno militare e mi gettai in un buco aperto in
fondo alla collina. Mi nascosi per riprendere le forze. Avevo nelle orecchie la
voce di una bambina che diceva -ma perché mi gettate della sabbia negli occhi
in questo modo?-
da: Babij Jar , editore Adelphi
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Quando mio padre mi disse che saremmo
partiti la mia gioia fu grande. Volevo andarmene da Kiev. La gente intorno a me
non sorrideva più e non era più un’abitudine guardarsi negli occhi.
Passeggiando per le strade della città, mi accorsi che molti mi squadravano, mi
osservavano dall’alto verso il basso con una strana espressione che non sono
riuscita a decifrare, ma che di sicuro mi metteva una certa angoscia. Così
diedi un leggero strattone alla giacca di mio padre e lo guardai negli occhi
come per chiedere: “Perché? Cos’ho che non va?”. Lui distolse subito lo sguardo
e non rispose. Mi accorsi solo dopo che una lacrima gli aveva rigato la
guancia.
La notizia della partenza aveva acceso un lume di speranza negli occhi
di molte persone. Tanti erano euforici. Volevano ripartire da zero in un’altra
città. La tristezza che si respirava nel nostro quartiere, adesso si era
dissolta del tutto, lasciando spazio alla spensieratezza, ai pianti di gioia.
Osservando gli altri appartamenti dalla finestrella della cucina, il naso appiccicato
al vetro, mi accorgevo di come l’impazienza crescesse nelle persone in
concomitanza con l’ottimismo che nei loro occhi non avevo mai visto e di come
ognuno si dedicasse con attenzione e scrupolo alla preparazione dei propri
bagagli.
Io non mi preoccupavo molto di cosa mi sarebbe stato utile, mi
soffermavo piuttosto ad immaginare la mia vita nuova di zecca, perciò andò a
finire che scaraventai in una borsa le prime cose che mi capitarono sotto mano,
per poi tornare ad esaminare i comportamenti altrui.
Il giorno della partenza
era il 29 settembre e noi fummo tra i primi a partire.
A svegliarci fu il
trambusto che c’era per strada: gente che si accalcava per raggiungere la prima
fila, amici e parenti che si abbracciavano in segno di riconoscenza e bambini
che schiamazzavano e correvano facendo infuriare i genitori. Uscimmo di casa
giusto in tempo per avvertire il grido di un soldato vestito di tutto punto e
con un fucile a tracolla, il quale ci ordinò di fare silenzio, disporci in file
ordinate e seguirlo. Il cuore mi batteva forte per l’emozione. Ci incamminammo
con un certo ritmo e col passare dei minuti mi tranquillizzai. Guardavo le
persone che mi trovavo intorno: un uomo di mezza età, barba e capelli grigi,
con una borsa di cuoio ed un enorme orologio da polso; due giovani innamorati
che camminavano mano nella mano, rallentando a volte per scambiarsi carezze e
occhiate piene d’amore .
Pensai: “Chissà se mi innamorerò mai anch’ io…”.
Avevamo già percorso tanta strada e qualcuno iniziò ad essere inquieto per il
proprio destino. Ad un certo punto lo stesso soldato che ci aveva dato il
segnale della partenza ci arrestò e iniziò ad urlare parole al vento che non
capivo ma quando mi voltai verso mio padre per chiedergli spiegazioni, era come
pietrificato.
Vidi l’intera folla trasformarsi in un ammasso di scarafaggi che
si buttavano l’uno addosso all’altro per cercare una via di fuga da non so che
cosa, le madri in lacrime spingevano i figli più lontano possibile gridando
loro di fuggire e di non voltarsi mai, di non preoccuparsi per loro perché
prima o poi si sarebbero rivisti. Si levò un coro di voci terrorizzate che
mandò in frantumi qualcosa dentro di me, una parte remota in fondo al mio
stomaco. L’ultima immagine che vedo con chiarezza è mio padre cadere in
ginocchio e abbracciarmi come non aveva mai fatto prima. Percepii il battito
del suo cuore attraverso la pelle e mi sentii felice un’ultima volta, finché
lui non mi fu strappato via insieme alla mia stessa vita. Il nostro viaggio era
terminato, eravamo arrivati a destinazione. Ora ne comprendo il significato. Mi
mancherai.
da: Babij Jar , editore Adelphi
Monumento in ricordo della strage
Io, Asatolij Vasil'evič Kuznecov,
autore di questo libro, nato il 18 agosto 1929 nella città di Kiev. Mia madre è
ucraina, mio padre russo. Sul mio passaporto interno era scritto “nazionalità
russa”.
Sono cresciuto a Kurenëvka, alla
periferia di Kiev, non lontano dal grande burrone il cui nome al tempo era noto
solo agli abitanti del posto: Babij Jar.
Come gli altri dintorni di Kurenëvka, era
un luogo dei nostri giochi, un luogo, come si dice, della mia infanzia.
Poi di colpo, in un solo giorno, diventò
famoso.
Per più di due anni fu zona proibita,
con un recinto di spinato ad alta tensione, con un campo di concentramento, dei
cartelli ammonivano che si sarebbe aperto il fuoco contro chiunque si fosse
avvicinato............
l'autore: Asatolij Vasil'evič Kuznecov
Buona giornata a tutti :-)