Lentamente mi accorsi che il cancro era diventato anche
una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel
che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del
quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione.
Col
cancro mi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di
non avere più sensi di colpa.
Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano,
e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.
«Possibile che bisogna proprio avere il cancro per
godere della vita?» mi scrisse un vecchio amico inglese. Aveva sentito dire
del mio essere scomparso e per e-mail mi aveva chiesto notizie.
Gli avevo risposto che quella « notizia » era un mio scoop e che sì, dal mio punto di vista quello era, se non proprio il più bello, certo il più coinvolgente periodo della mia esistenza.
Gli avevo risposto che quella « notizia » era un mio scoop e che sì, dal mio punto di vista quello era, se non proprio il più bello, certo il più coinvolgente periodo della mia esistenza.
Viaggiare era sempre stato per me un modo di
vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio
involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il
quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino
ad allora era il più impegnativo, il più intenso.
Tutto quello che succedeva mi toccava direttamente. Gli
scrissi che godesse di non avere il cancro, ma che, se voleva fare un esercizio
interessante, immaginasse per un giorno di averlo e riflettesse su come non
solo la vita, ma le persone e le cose che ci stanno attorno improvvisamente
appaiono in una luce diversa. Forse una luce più giusta.
Nella vecchia Cina molti tenevano in casa la loro bara
per ricordarsi della propria mortalità; alcuni ci si mettevano dentro quando
dovevano prendere decisioni importanti, come per avere una migliore
prospettiva sulla transitorietà del tutto.
Perché non fingere per un
attimo di essere ammalati, di avere i giorni contati - come in verità si hanno
comunque - per rendersi conto di quanto preziosi sono quei giorni?
Gli indiani se lo rammentano con la storia dell'uomo
che, rincorso da una tigre, scivola in un baratro. Cadendo nel vuoto il
poveretto riesce ad aggrapparsi a un arbusto, ma anche quello comincia a
cedere. Non ha scampo: sopra di sé le fauci della tigre, sotto l'abisso. In
quel momento però, proprio lì, a portata di mano, fra i sassi del dirupo,
l'uomo vede una bella fragola rossa e fresca.
La coglie e... mai una fragola gli parve così dolce come quell'ultima.
La coglie e... mai una fragola gli parve così dolce come quell'ultima.
Se a me toccava la parte di quel poveretto, la fragola
di quei giorni, di quelle settimane e mesi di solitària pace a New York
era dolcissima.
Ma non per questo ero rassegnato a precipitare. Anzi: cercavo
ogni mezzo per aiutarmi. Ma come? Potevo io, con la mia mente o con altro, fare
qualcosa perché l'arbusto a cui ero aggrappato resistesse? E se ero stato io,
come persona, a portare il mio corpo in quella scomoda posizione, cosa potevo
fare per togliercelo? I medici, a cui fra un esame e l'altro ponevo queste
domande, non avevano risposte. Alcuni sapevano che sarebbe stato importante
cercarle, ma nessuno lo faceva.
- Tiziano Terzani -
“L’altro problema è che continuo ad
identificare la pace interiore con la solitudine, la mia armonia col vivere in
un eremo in montagna.
La lontananza del mondo è ancora una condizione necessaria del mio stare in equilibrio. E questo è segno che ho molto da lavorare. Per questo ho cominciato da poco a fare un esercizio che i tibetani, i sufi e tanti altri hanno fatto per secoli.
La lontananza del mondo è ancora una condizione necessaria del mio stare in equilibrio. E questo è segno che ho molto da lavorare. Per questo ho cominciato da poco a fare un esercizio che i tibetani, i sufi e tanti altri hanno fatto per secoli.
Disteso per terra guardo il cielo. Contro
l’azzurro si muovono, leggere,
delle nuvole. Ne fisso una, la seguo, mi ci identifico. Presto divento quella
nuvola e, come quella nuvola, senza peso, senza pensieri, senza emozioni, sena
desideri, senza resistenza, senza direzione mi lascio andare nell’immenso
spazio del cielo. Non ci sono sentieri da seguire , non una meta da raggiungere.
Semplicemente vagare, aleggiare, vuoto come la nuvola. E come la nuvola cambio
forma, prendo tante forme, poi divento evanescente, mi disfaccio, scompaio. La
nuvola non c’è più. Io non ci sono più. Resta
solo la coscienza, libera, senza legami, una coscienza
che si espande.
- Tiziano Terzani -
da: "Un altro giro di giostra" di Tiziano Terzani
Camminavo sulla spiaggia raccogliendo qua e
là piccoli strani sassi che avevo notato. Erano di colore rosa, piatti e
levigati. Al centro avevano un cerchio nero, come l’occhio fossilizzato di un
qualche essere di tanto tempo fa. Godevo dell’antichità del mondo. Ero solo e
mi sentì travolgere, commuovere dalla grandiosità della natura.
Lo spumeggiare delle acque teneva sospesa
nell’aria una nebbiolina umida che mi nascondeva il sole, ma quel soffuso
biancore senza contorni mi fece sentire ancora di più l’infinità dell’oceano e
pensare all’eternità non come a un tempo senza fine, ma a un momento senza
tempo.
Come quel momento lì: un momento in cui anche a me parve di essere eterno, perché la grandezza da cui mi sentivo avvolto, la grandezza che era fuori di me, mi sembrò di averla anche dentro.
Come quel momento lì: un momento in cui anche a me parve di essere eterno, perché la grandezza da cui mi sentivo avvolto, la grandezza che era fuori di me, mi sembrò di averla anche dentro.
- Tiziano Terzani -
"Questo è un altro aspetto rasserenante della
natura: la sua immensa bellezza è lì per tutti. Nessuno può pensare di portarsi
a casa un’alba o un tramonto" .
- Tiziano Terzani -
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