"Ma se pensa ad una casa fondata sulla roccia, tuo
figlio dice che è una roccia anche se sbagli, anche se non le indovini tutte.
"
"...Tuo figlio, con quel tira e molla pazzesco per
cui ti saltano i nervi e con il quale ti mette alla prova, vuol sapere se suo
padre e sua madre stanno, restano, sono la roccia di cui lui ha bisogno.
E su
cosa è posta questa casa, se sulla roccia: lo vogliono sapere.
E ti mettono
alla prova, tirano, mollano per vedere se la corda si spezza, ma tu stai.
Invece l’altro errore che facciamo per non lasciarli andare, cioè per non patir
la ferita di questa libertà, l’altro ragionamento assolutamente sbagliato che
facciamo, preoccupati come siamo della sorte dei nostri figli, è quello di
chiudere la casa e di dire: «Vengo anch’io con te».
Vengo anch’io così lo tengo
d’occhio, così almeno è più vicino, è più sotto controllo.
Ma pensate quel
figliol prodigo se il giorno in cui si accorge di essere uno sciocco che si è
ridotto a mangiare le carrube, che mangiano i porci, invece di un padre che lo
aspetta dovesse avere il padre che è lì, poveraccio come lui, e la casa non c’è
più.
Che disperazione! Avere il desiderio di tornare a casa e tuo padre, per
star con te, ha chiuso la casa e l’ha venduta, e non abbiamo più una casa.
Non
c’è più chi ci perdona! Come ne "I due orfani" di Pascoli, che Giussani ci ha
insegnato a leggere.
Non c’è più chi ci perdona; cioè non c’è più né un padre,
né una madre, non siamo più di nessuno, siamo orfani appunto.
I due errori:
chiudere la casa per non farli uscire, oppure uscire con loro.
Invece l’adulto
è quello che sta.
La mia povera mamma quando di dieci figli, uno lasciò la
famiglia, il primo, per mesi, preparò un piatto in più e lo teneva in caldo.
Dopo per dieci giorni noi dicevamo: «Mamma, è andato, è andato, piantala! È
andato!» e lei serissima che ci diceva: «Potrebbe tornare questa sera. Potrebbe
tornare stasera». e per mesi e mesi ha voluto preparare il posto per mio
fratello, il primo, il posto tra quello del mio papà e quello del secondo
figlio. Apparecchiava il posto perché sarebbe potuto tornare stasera.
Questa è
la statura dei nostri genitori! Ed è la statura che chiedono a noi i nostri
figli. Gente che sta, che resta per la felicità che gode lui, per il bene che
intravede lui, per la speranza che vive lui.
Questa è l’unica cosa di cui hanno
bisogno i nostri figli, e se è così scattano due o tre conseguenze che vi
accenno soltanto.
Per esempio, primo: non abbiate mai paura di sbagliare, per i
nostri figli siamo i migliori genitori possibili. Se l’educazione è quel che ho
detto, non c’è il problema della coerenza, dell’incoerenza: i tuoi figli non
sono stupidi, sanno che sei incoerente e far finta di vendergli l’idea di un
padre particolarmente buono, bravo, coerente è una cosa che non li convincerà,
non ce la farete mai a fregarli; lo sanno troppo bene di che incoerenza siamo
capaci; cioè lo sanno che siamo straccioni come loro, non li convincerete mai
del contrario.
I nostri figli non hanno bisogno della nostra coerenza in senso
moralistico, hanno bisogno della nostra coerenza ideale, quella che Giussani ne "Il rischio educativo" chiama «funzione di coerenza»
L’adulto, l’autorità
dell’adulto la chiama «funzione di coerenza»: è questo stare che vi dicevo
prima. Non abbiate paura di sbagliare perché i figli sanno che sbaglierete e vi
perdoneranno molto più di quello che siete disposti a perdonargli voi; perché i
nostri figli ci perdonano questo. Non ci perdonano il non coraggio, la non
responsabilità di fronte al reale, la non certezza ultima rispetto al destino:
questo non ci perdonano. Quando in sessanta metri quadrati voi costringete a
vivere i dieci figli, da zero a quindici anni, è un bel macello.
D’inverno poi,
quando non si può uscire e andare all’oratorio!
Per cui mio padre arrivava a
casa la sera stanco dal lavoro e, a volte, era una specie di giungla, erano
saltati tutti i paletti, e non gli restavano molte risorse poveretto! Magari
mia mamma non stava bene, era incinta o allattava.
Allora sfilava la cinghia
dei pantaloni e pata-pim e pata-pum, chi ciapa ciapa e chi la dura scapa; nel
senso che trovato un vetro rotto, due feriti, la moglie in lacrime, il bambino
più piccolo che piange, non è che avesse il tempo di fare le indagini
preliminari su chi fosse quella volta lì che aveva cominciato.
Allora mi
ricordo di quella volta che arrivo a casa da scuola, non faccio a tempo a
togliermi lo zaino e appoggiarlo per terra, che dietro arriva mio padre. Vede
un macello pazzesco, io non sono stato sufficientemente svelto quella volta ed
è toccato a me: me ne ha date un sacco e una sporta.
La mia povera mamma, che
aveva anche un debole per me, è corsa in mio soccorso e lo ha fermato, ma me ne
aveva già date abbastanza! Lo ha fermato e gli ha detto: «Ma Dario, Franco è
rientrato in casa non c’entra niente!».
Mio padre, serissimo, mi ha messo una
mano sulla spalla e mi ha detto: «Va bene, mettile vie per la prossima volta».
Non gli è venuto il problema di dire: «O Dio! Adesso Franchino resterà
traumatizzato dalle botte paterne immeritate!».
Mi ha detto: «Mettile via per
la prossima volta» e io vi assicuro che ho odiato fortemente i miei fratelli
perché erano stati più veloci – solo per quello! – ma non mi ha attraversato
neanche l’anticamera del cervello l’idea che mio padre non mi volesse bene. È
un pensiero che nella vita non mi ha mai sfiorato, neanche in quel frangente
dove aveva palesemente sbagliato; aveva peccato d’ingiustizia grave, almeno le
botte a me erano sembrate gravi, nei miei confronti.
È questo che intendo dire
quando dico: «Non preoccupatevi». Anche tutta questa mania per cui dovremmo
tutti avere lo psicologo fisso in casa!
Nessuno è più capace di fare il padre,
nessuna è più capace di fare la madre, al primo problema bisogna andare
dall’esperto: l’ospedalizzazione del rapporto educativo a scuola e in famiglia.
Bisogna avere tre lauree per tirar su un bambino! Basta con questa storia!
Basta, perché siete i migliori genitori possibili e non preoccupatevi se
sbagliate perché non è quello che traumatizza i bambini.
Li traumatizza la
sensazione di camminare sulle sabbie mobili, li traumatizza lo sguardo incerto
di padri e madri quando si guardano, quando stanno a tavola, li traumatizza
l’impressione che la loro casa sia costruita sulla sabbia e che basti un filo
di vento per portar via tutto.
Questo li spaventa la notte e non li fa dormire,
anche se non urlano e non hanno gli incubi. Ma se pensa ad una casa fondata
sulla roccia, tuo figlio dice che è una roccia anche se sbagli, anche se non le
indovini tutte.
Diversamente ci facciamo dei problemi pazzeschi: «Gli do una
sberla o non gliela do? O Dio, ho letto che lo psicologo diceva che quel
ragazzo si è buttato giù da un ponte perché ha preso quattro in matematica.
Cosa devo fare? La Carla dice sempre il contrario di quello che dico io. Se
gliele voglio dare, mia moglie dice di no; se non gliele voglio dare io lo
vuole la moglie!». Dargliele e basta! Nell’incertezza io suggerisco di
dargliele! Non è qui il problema! "
da: Franco Nembrini "Di padre in figlio.
Conversazioni sul rischio di educare" Ed. Ares
"Ci si dimentica di chiedere l’obbedienza"
"...Anzi, datemi ancora due minuti perché volevo
anche dire che secondo me moltissime difficoltà che oggi i genitori vivono
nascono dal di dentro (le difficoltà hanno sempre un’origine, non cadono dal
cielo e non sono casuali). Si tratta secondo me di una debolezza del genitore
rispetto alla propria autorevolezza.
Mi spiego: posso puntare il dito? Non lo
punto mai una volta tanto lo faccio. Siete voi per primi che non credete alla
vostra autorevolezza.
Siete voi per primi che non
date fiducia alle vostre certezze, al vostro compito. E questo se lo collegate
al problema che dicevo prima, cioè che vi hanno proposto di essere solo
curativi e capaci di rispondere ai bisogni, viene di conseguenza che un
genitore non esprime più la propria autorevolezza. Moltissime difficoltà che ci
sono oggi coi figli vengono da questa debolezza.
I primi a dover riconoscere la
vostra autorevolezza siete voi!
Essere genitori vi costituisce guida, faro di
orientamento, capacità di decisione, capacità di rischiare, capacità di
scegliere, di segnare il passo, di guidare nella realtà. Noi siamo lontani
mille miglia dall’essere solo servizio ai figli. Una conseguenza di questa
debolezza genitoriale è che ci si dimentica, dentro la famiglia, di educare
all’obbedienza. L’atteggiamento di servizio al figlio non struttura
l’obbedienza del figlio.
Ci si dimentica di chiedere l’obbedienza.
E’ così
difficile entrare in un legame che possa esaltare la crescita di un
figlio e la propria.
E’ così difficile entrare in un legame che dà la
soddisfazione piena di essere dentro l’essere, dentro l’essere del figlio. Noi
chiediamo di tutto ai nostri figli, ma non chiediamo la cosa fondamentale, cioè
di essere figlio. E cosa fa un figlio? Obbedisce al genitore, ascolta il
genitore, interiorizza il genitore.
Se lo porta dentro. Io credo che molte
difficoltà trovino nella debolezza dell’autorevolezza la loro radice, la loro
origine."
(da una testimonianza della psicologa Vittoria Maioli
Sanese)
"...Infine ci sono altre due lettere che mi hanno
impressionato, Una dice:
" Ormai per me è tardi". Non potete dire così, nessuno di noi può dir
così!
Io conosco situazioni terribili, dolorosissime, che qualcuno vive con i figli;
ma non possiamo dire " Ormai è tardi!".
Noi siamo i tifosi di
Nicodemo. il vecchio che va da Gesù di notte vergognandosi, e gli va a dire:
" Ormai è tardi, sono vecchio"; e Gesù gli risponde che non è vero, è
possibile ricominciare da capo ( come i nostri
figli: " Papà, è possibile ricominciare da capo?" ).
" Gesù, è possibile rinascere di nuovo, può un
vecchio come me ritornare nel ventre di sua madre? " Gesù gli ha risposto
di sì, che è un dono che lo Spirito può dare, si può rinascere. Allora
l'educatore è combattente sempre, è la madre trafitta dal male di suo figlio
che però non demorde mai, non riesce a dire " Basta, non mi
interessi" , qualunque cosa accada , fino all'ultimo respiro, suo figlio è
suo figlio e ci crede e spera e prega perchè qualcosa possa accadere, qualcosa
lo possa riprendere.
L'insegnante è uguale. L' alunno che ti fa disperare,
proprio il più duro di tutti, è quello cui dici:" Non ti mollo fino
all'ultimo minuto dell'ultima ora di scuola del 12 giugno, tu sei mio e io sono
qui per te e non cedo. Poi sarà quel che vorrai tu, quel che la tua libertà ti
consentirà di essere, ma io sono qui, fino all'ultimo secondo dell'ultimo
minuto dell'ultima ora di lezione": L'adulto, l'educatore non può mai
dire." Per me ormai è tardi", non esiste!"
da: Franco Nembrini, "Di padre in figlio.
Conversazioni sul rischio di educare", Ed. Ares
Buona giornata a tutti. :-)