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giovedì 10 febbraio 2022

10 febbraio. L'esodo del ricordo verso il Perdono - Padre Antonello Iapicca -

Sessantacinque anni, un bel salto nella vita. Tanti ce ne sono voluti a Mariuccia, mia madre, per sentire ben oltre la superficie delle ferite il potere rigenerante di Cristo. Ne aveva ottanta, infatti, quando è ritornata a Parenzo, la città dell’Istria che la vide nascere, crescere, e poi, a sedici anni, andar via con poche cose tra le mani.
Ci siamo andati insieme, ed è stato come un pellegrinaggio nella memoria. No, non era la prima volta che ci tornava dai tempi dell’ “Esodo”. Ci andò con papà quando era ancora Jugoslavia, e fu difficile. Ci venne altre volte, e fu un dolore acuto e insopportabile dover oltrepassare due frontiere, quelle della Slovenia e della Croazia. E aveva giurato di non farlo più, come moltissimi hanno giurato e fedelmente compiuto.
Ma lei non aveva previsto l’imprevisto, l’amore di Dio che bussa quando meno te lo aspetti, ed è capace di sconvolgere, in bene, ogni vita. E quella di mia madre, incontrandola, l’aveva sconvolta, eccome. Ho avuto la grazia di poterlo vedere, e oggi, “Giorno del ricordo” istituito dal Governo Italiano nel 2004 per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, non posso tener ferma la penna. Devo raccontare quello che ho visto in mia madre; lo devo a lei e ai miei parenti, lo devo ai tanti che hanno sofferto e non ci sono più e a quelli che ci sono ancora, ai loro figli e nipoti.
E lo devo a molti altri italiani che, mi rendo conto scrivendo, non sanno neppure dove o cosa sia l’Istria, e poi le foibe e l’esodo forzato di 350.000 istriani. Non lo sanno i giovani, come per tanto tempo non l’hanno voluto sapere troppi anziani.
Ma oggi capisco anche questo. Non è facile per nessuno affrontare la realtà, specie se è così dura da sconvolgere le proprie certezze. Quelle dei vincitori e quelle dei vinti, quelle dei carnefici e quelle delle vittime. Per questo sento di dover scrivere quello che ho visto in mia madre, nella speranza che sfiori i cuori di tutti, da qualunque parte siano stati. Anche di quanti non sanno nulla di quello che è accaduto in Istria dal 25 aprile del 1945.
Mia madre suole dire che per lei e la sua famiglia la guerra è iniziata proprio il giorno della Liberazione. Guerra che è durata più di mezzo secolo, e forse per molti dura ancora. In politica innanzitutto, tra gli storici, e nei cuori. Almeno così è stato in quello di mia madre. Perché quando vedi ingiustizie brutali piombarti addosso, stroncare la vita di amici e conoscenti, azzerare d’un colpo speranze e certezze, beh ditemi in quale cuore non si innescherebbe la guerra.
L’ingiustizia, infatti, è sempre un detonatore inarrestabile di conflitti. Lo è in famiglia, al lavoro, figuriamoci tra le Nazioni e i popoli. Eppure non è di questo che devo parlare. Vi sono libri e studi che raccontano bene come sono andate le cose. E un’altra storia di dolore non aggiungerebbe nulla, se non qualche fascina al fuoco del risentimento. E dal risentimento non può sorgere la pace, mai.
Mentre è proprio della pace che devo parlarvi, quella firmata da mia madre nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, la magnifica cattedrale bizantina patrimonio dell’Unesco che impreziosisce la già bellissima cittadina. E non è partigianeria eh, andate su Google e fatevi un viaggetto virtuale, vedrete che meraviglia.
La Pace dunque, con la maiuscola sì, perché è uno dei nomi propri di Dio fatto carne. E quel giorno mamma ha finalmente sperimentato la Pace nel suo cuore. In quel momento è stato solo un vagito, ma ormai era fatta. Mai avrebbe pensato di tornare un giorno insieme a suo figlio prete nella chiesa dove era stata battezzata e aveva ricevuto Prima Comunione e Cresima, e dalla quale era stata violentemente strappata. Mai avrebbe pensato di essere un giorno accanto a lui a celebrare l’amore e la fedeltà di Dio intorno a quell’altare.
E’ stato come una saetta, un segno di fuoco nel cuore che ha cominciato a cauterizzare nell’intimo la ferita che sino ad allora aveva sputato veleno, sporcando pensieri e gesti di quel senso d’ingiustizia patita che ti porti addosso e non sai come liberartene.
In quella Chiesa aveva passato i momenti più belli della sua infanzia, quelli più puri e innocenti. A poche decine di metri aveva studiato e giocato. Se stai attento, dalle sue navate puoi sentire il rumore del mare e il fischio dei vaporetti, sapori, odori e suoni della sua infanzia e adolescenza che un giorno, senza un perché, le erano stati sottratti.
E in quei pochi ma intensi minuti è stato come se tutto quel passato tornasse in vita, ma non era un peso. Non era più solo nostalgia. I giorni della sua fanciullezza accompagnati da tutti quelli che li hanno seguiti si presentavano a lei con un vestito nuovo. Era bella ora la sua storia; amara come le lacrime che le solcavano il viso, ma non per questo meno bella. Perché uno dei segreti che Dio svela ai suoi amici è proprio questo, che il dolore non è nemico della pace e della felicità autentiche. Anzi, proprio le lacrime sono un segno del paradosso che è una vita toccata da Cristo. Anche quando sono di commozione gioiosa non perdono il loro sale amaro.
E quelle che le scendevano sul viso dicevano a mia madre che finalmente la sua storia aveva svestito gli abiti del risentimento e del rancore per indossare quelli del perdono. E non era stata lei accidenti, non era nulla di magico o moralistico. Era la Grazia che l’aveva abbracciata una ventina d’anni prima con l’annuncio del Vangelo e non l’aveva più lasciata.
E ora, nel cuore della sua storia, dava alla luce il suo frutto più bello. Mamma stava vivendo la sua Messa più vera, perché il Mistero celebrato si era fatto carne in lei. E’ solo in Cristo crocifisso, morto e risorto, infatti, che la storia, qualunque storia, può essere illuminata e trovare senso.
Quante volte aveva sperimentato il perdono, non si contavano. Dio l’aveva attesa con pazienza e misericordia, sino a farsi vicino attraverso la predicazione della Chiesa. Aveva ascoltato le catechesi del Cammino Neocatecumenale insieme a papà, dopo lunghi anni nei quali avevano invece avversato e contestato il Cammino. Io c’ero entrato a 15 anni, e per molto tempo le mie attitudini e i miei comportamenti non gli avevano fatto buona pubblicità, anzi… Ma poi, anche quella volta per pura grazia, è successo qualcosa tra noi: Dio ci aveva profondamente riconciliati in un perdono mai sperimentato prima. E tutto è cambiato. La nostra relazione innanzitutto, autenticamente risuscitata dalle macerie del mio orgoglio.
Il Cammino Neocatecumenale dunque dava frutti, eccome; e allora, da quel perdono, è iniziato il cammino di mia madre. Lunghi anni immersi nella Parola di Dio e nei sacramenti, seguendo le orme di Gesù che la conducevano pian piano dentro i vicoli oscuri della sua storia, quelli macchiati dal risentimento e dall’ingiustizia patita. Passo dopo passo la luce della Pasqua rischiarava le tenebre, e quello che agli occhi della carne bruciati dal rancore sembrava un sepolcro senza speranza cominciava a brillare come un giardino all’aurora.
Perché la storia visitata da Cristo risorto è proprio come un deserto trasformato in giardino, e ogni suo frammento si rivela indispensabile. Non aveva Gesù annunciato più volte ai suoi discepoli che, per risorgere, sarebbe “dovuto” andare a Gerusalemme e lì essere crocifisso, morire e scendere nella tomba? Non ha scritto mille volte San Paolo che l’unico vanto di un cristiano è la Croce? Certo, è proprio così, e così mia madre ha sperimentato.
Era necessaria quella Croce piantata nel suo cuore adolescente. Era necessario che scendesse sino in fondo – e che dolore – per svelare quello che aveva lì, nel cuore. Perché tutti, quando urtiamo contro l’ingiustizia, abbiamo la stessa identica reazione, ben diversa da quella dell’Agnello di Dio. E per questo soffriamo e non troviamo pace, non avendo da offrire al male che altro male. Non scandalizzatevi se potete, anche se lo so, la Croce è scandalo e stoltezza per tutti, religiosi e atei o agnostici razionali.
Per questo oggi devo raccontare il miracolo legato a questo giorno speciale per tutti gli istriani. Devo annunciare attraverso la storia di mia madre che la Croce è l’unica porta che si apre sul Cielo, il destino preparato per ogni uomo. Che non è un cumulo di parole oppiate inventate dai preti per ingannare e sottomettere le masse.
La Croce che si faceva manto di misericordia e presenza viva di Cristo nel baldacchino della Basilica di Parenzo abbracciava mia madre mostrandole con dolcezza ogni istante della sua vita come un frammento degli splendidi mosaici che ne rivestono le pareti. Eccone uno, c’è dentro la foto di quando era uscita in fretta sotto gli occhi velenosi dei finanzieri di Tito. Eccone un altro, racconta di quando aveva dovuto viaggiare sui treni di notte attraverso la sua Italia, la Patria per la quale aveva lasciato la sua terra; nessuno doveva vederli quegli istriani, erano di sicuro infettati dal veleno del fascismo se sfuggivano dal paradiso comunista.
Un altro ancora, ci sono impresse le impronte digitali che le presero neanche fosse una criminale. E molti altri, sino a quelli più recenti, che fissano i momenti umilianti di quando, per rinnovare il passaporto o la carta di identità, per prenotare le analisi o un biglietto d’aereo, nel dire il proprio luogo di nascita ha dovuto (e deve…) sgolarsi in inutili spiegazioni. Parenzo non esiste più, ora è Porec, Croazia; ma mia madre non è nata in Croazia…
E allora? Sarebbero state necessarie tutte queste umiliazioni? Dai, non scherzare, il “Giorno del ricordo” è stato istituito proprio per non dimenticare e far conoscere a tutti gli italiani questa storia di ingiustizie. E così, forse, certi crimini non si ripeteranno. Forse, appunto… Non basta il ricordo, guarda quello dei lager appena celebrato. Ti sembra che in Europa siano cambiate le cose? No, per nulla, anzi peggiorate, perché ora quello che si sperimentava nel segreto dei campi di concentramento si fa alla luce del sole, benedetto da leggi di Stati che si ritengono all’avanguardia della civiltà.
No, non basta il ricordo, abbiamo bisogno invece di imparare a vivere un “memoriale”. E’ questo che ho visto in mia madre, una “memoria – reale”, i fatti di dolore che si facevano contemporanei ma trasfigurati nel perdono.
Nella Bibbia ebraica il verbo “ricordare” descrive innanzitutto il comportamento di Dio. Per un ebreo il “memoriale” è lasciare che Dio entri di nuovo nella storia attraverso lo stesso modo in cui si è comportato nel passato. Così il presente si fonde con il passato ed è accolto nell’eternità di Dio, che significa, essenzialmente, il suo amore.
E il momento più importante della Storia di Israele – il “memoriale” più prezioso – è la Pasqua che si distende nell’Esodo sino all’ingresso nella Terra Promessa. Gli ebrei lo celebrano solennemente in quella che chiamano la “notte delle notti”. In essa tutta la famiglia riunita in casa torna sulle sponde del Mar Rosso, posa i piedi all’asciutto mentre lo attraversa, si volta a guardare i carri del faraone sprofondare nelle acque; ogni ebreo cammina nel deserto, si ferma alle falde del Sinai, e, finalmente, entra nella Terra che Dio ha preparato per lui.
Ogni padre ha il dovere di raccontare ogni evento dell’Esodo ai propri figli, perché siano immersi nelle opere di Dio, sperimentarne la presenza nella loro storia, e crescere nella fede. Ancora oggi, infatti, durante il Seder pasquale dice ai suoi figli che “Ognuno è tenuto a vedersi come essendo proprio lui uscito dall’Egitto” (Haggadah).
Ecco, accolta e formata nella Chiesa, quel giorno a Parenzo mia madre ha vissuto, proprio come un ebreo, il suo “memoriale”; diverso certo, perché era quello del compimento della Pasqua Ebraica, ovvero l’Eucarestia. Il Mistero della morte e risurrezione di Cristo si era compiuto in ogni istante della sua vita, sino a quella Messa: Cristo, infatti, era sceso a prenderla nella tomba del dolore e del risentimento, l’aveva perdonata e risuscitata, per accompagnarla sino alla Terra promessa della Pace del cuore, anticipo e primizia del Paradiso.
E’ così, è la realtà, quello che avvelena il cuore non sono gli alimenti che mandiamo giù, ma quello dal cuore esce perché è già lì. Non è la storia che ci uccide, per quanto triste e piena di ingiustizie. E’ il peccato che ha fatto la sua tana dentro di noi che ci fa soffrire, perché frustra il desiderio di bene e di amore che in tutti Dio ha seminato.
Per questo è un’illusione credere che la giustizia umana possa donarci pace. Falso! Checchè raccontino film e libri, politici e filosofi, ogni giustizia umana ha partorito sempre nuove ingiustizie. Con ciò non voglio dire che essa non debba fare il suo corso, e punire i responsabili dei crimini. Ma che essa ha dei limiti, e non può guarire il cuore.
Per questo è necessario il perdono, impossibile agli uomini se prima non l’hanno sperimentato, immeritato, nella propria vita. Il perdono che tagli alla radice il peccato che ci impedisce di perdonare e amare, ed essere finalmente persone libere che vivono e annunciano la Pace.
In quell’Eucarestia mia madre ha visto la sua storia redenta nello stesso perdono che aveva sanato il suo cuore. Solo in questa luce si può comprendere come anche il dolore che l’ha accompagnata per cinque decenni sia stato necessario per curarla nell’incontro decisivo con l’amore di Cristo più forte di ogni ingiustizia.
Era volontà di Dio la guerra, e poi le foibe e quell’ingiustizia macchiata di sangue innocente? Era volontà di Dio che tante famiglie venissero strappate dalla propria terra? No, assolutamente, come non lo fu la disobbedienza di Adamo ed Eva. Eppure, dal giorno in cui Cristo è salito sulla Croce ed è entrato nel sepolcro, Dio ha come allargato le maglie della sua volontà, assorbendo anche gli orrori della storia e le nostre cadute. Cristo infatti è sceso con ogni uomo ucciso barbaramente nelle foibe, per fare di quelle cavità carsiche il suo sepolcro e risuscitare quei morti e per lasciare su quelle rocce il suo sangue perché anche gli assassini avessero speranza. La volontà di Dio, infatti, è una sola: che nessuno vada perduto e tutti gli uomini siano salvati.
E così è stato: da quella messa mia madre è uscita trasformata. E’ accaduto l’impensabile di poter abbracciare in un segno di Pace autentico tanti fratelli croati; di ascoltare le loro storie e i loro dolori, e di sentire dentro nascere amore vero per ognuno. Al punto di ospitarli a Roma, e lasciar loro il suo letto. Sino a pregare ogni giorno per Tito e i suoi partigiani, insieme ovviamente a tutti i suoi fratelli istriani.
Certo ancora molto cammino l’attende. Nessuna beatificazione anticipata, ci mancherebbe. Mia madre è, come tutti, una persona debolissima, e certo non è insensibile alle immagini e ai racconti di quegli anni, anzi. Il dolore è lì, come quello di chiunque abbia perso un figlio o una persona cara, e quella “terra benedetta” come la chiama lei, le è cosa molto, molto cara. Ma Dio è stato fedele con lei, e oggi è Lui che devo celebrare, offrendo una testimonianza che sia un segno di speranza per tanti, per chi ha vissuto la stessa esperienza, per chi ne vive altre simili, e per chi non conosce questa storia italiana.
Una cosa è certa, mia madre mai avrebbe potuto entrare nella Pace della riconciliazione se non avesse percorso con Cristo il suo Esodo dal rancore al perdono, trasfigurando in esso quello che oggi ogni italiano è chiamato a celebrare.

- Antonello Iapicca - 
Sacerdote missionario cattolico presso la città di Takamatsu

fonte: http://www.ildomaniditalia.eu/lesodo-del-ricordo-verso-il-perdono/


Voglio gridare!

Voglio gridare
che la vita è indistruttibile,
nonostante la morte;
che la speranza è la brezza
che spazza la disperazione;
che l'altro è un fratello
prima d'essere un nemico;
che non bisogna mai disperare
di se stessi e del mondo;
che le forze che sono in noi
sono forze che possono sollevarci
e sono inesauribili;
che si deve parlare l'amore,
e non parole di tempesta e caos;
che la vita incomincia oggi
e ogni giorno, e che è Speranza.

Mietek Grayewski, versi scritti in un campo di concentramento.




Buona giornata a tutti :-)



venerdì 10 febbraio 2017

Lo chiamavano il treno della vergogna -


Lo chiamavano il Treno della vergogna. Ancora oggi è la locuzione popolare con cui si ricorda il convoglio ferroviario che il 10 febbraio del 1947 trasportò dalla stazione di Ancona chi proveniva dal quarto convoglio marittimo di Pola, carico di esuli italiani che al termine della seconda guerra mondiale furono costretti ad abbandonare i loro paesi, le loro abitazioni e le loro proprietà in Istria, Quarnaro e Dalmazia nel contesto storico generale ricordato come l'esodo istriano. 
Una buona parte dei ferrovieri di allora, lo aveva definito il treno dei fascisti, a testimonianza della disinformazione e del contesto estremamente politicizzato in cui tale vicenda si consumò.
A quel treno, un carro merci da bestiame, nessuno poteva avvicinarsi, nemmeno il personale della Croce Rossa, nessuno per dare acqua, cibo o latte alle centinaia di bambini che ci viaggiavano.
Da Ancona a Bologna, il treno dei fascisti, il treno di profughi italiani che fuggivano dall'Istria, minacciati, perseguiti, spogliati di ogni bene e possesso.
Il treno dei fascisti, il treno della vergogna, di quelli che fuggivano dalle foibe e dai partigiani del maresciallo Tito.
Non un treno, ma un viaggio della vergogna, la pagina più vergognosa, schifosa e misera di quella guerra finita, di quei marchi che gli stessi italiani apponevano sulla pelle dei loro stessi connazionali.
Ci facciamo belli a condannare i fascisti, i nazisti e noi nel 1947 siamo stati capaci di un gesto così vergognoso e vile.
Nel 2007 alla stazione di Bologna, accanto alla ex sala mensa dei ferrovieri, lungo il binario  1 fu apposta una lapide ipocrita:
“Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati: italiani costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e la conseguenza della guerra d’aggressione intrapresa dal fascismo. 
Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un’accoglienza che è nelle sue tradizioni, molti di quegli esuli facendo suoi cittadini. 
Oggi vuole ricordare quei momenti drammatici della storia nazionale. Bologna 1947-2007." 

Per quanto scritto su quella targa, tanti profughi ed esuli di allora, si ribellarono per l'ipocrisia di quanto e come era stato ricordato e per aver nascosto l'insulto e la cattiveria degli italiani, dei comunisti che con le bandiere con falce e martello ripudiavano i loro stessi connazionali. 
Alla fine prevalse il pensiero: purchè se ne parli.



Dal libro “Magazzino 18” di Simone Criticchi:

“Il treno rallentò piano piano fino a fermarsi. Ad accoglierci trovammo tanta gente, con le bandiere rosse. Le stesse di Tito. Non capivo. Allora mi girai verso la mamma e le chiesi: «Mamma, ma il treno si è sbagliato? Siamo tornati a Fiume?». No. Erano gli operai e i ferrovieri comunisti che improvvisavano uno sciopero per impedire al convoglio di fermarsi nella loro città. «Fascisti, viaaa!» gridavano. «Siete tutti criminali fascisti!» 

La nostra patria era affamata, diffidente. Diversi erano convinti che chi fuggiva dall’Istria «rossa», dal paradiso del comunismo, fosse un criminale. 
Alle dame di carità, arrivate in stazione per darci latte e coperte, fu impedito di avvicinarsi. Nemmeno il latte ai bambini. Le porte del treno rimasero chiuse. Non so neanche quante ore passarono, il viaggio mi parve infinito.”



Per onore della cronaca furono 270 mila gli italiani che dopo il trattato di Parigi dovettero lasciare l'Istria e la Dalmazia.
Almeno 11 mila invece furono infoibati, ma questa è un'altra storia.



Vengono definiti massacri delle foibe o, semplicemente, "foibe", le uccisioni di migliaia di cittadini italiani, compiute per motivi etnici-politici dall'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, alla fine (e durante) la seconda guerra mondiale. I massacri avvennero in Venezia Giulia e Dalmazia. 
Il nome deriva da "foibe", inghiottitoi di natura carsica, dove furono rivenuti i cadaveri di centinaia di vittime. Per estensione i termini "foibe" e il neologismo "infoibare" sono in seguito diventati sinonimi degli eccidi, che furono in realtà perpetrati con diverse modalità. Il vero e proprio "massacro delle foibe" si ebbe subito dopo la fine della guerra, anche se un preambolo si ebbe nel corso dell'occupazione delle città dalmate dove risiedevano comunità italiane, come a Zara (ottobre 1944). 
A partire dal maggio del 1945, i massacri si verificarono in tutta la Venezia Giulia (Trieste, Gorizia, Istria e Fiume). A Gorizia e Trieste (occupate dai il 1° maggio), i massacri cessarono con l'arrivo degli alleati il 12 giugno: si riscontrò l'uccisione di diverse migliaia di persone, molte delle quali gettate VIVE nelle foibe.  


http://digilander.libero.it/lefoibe/testimonianze.htm

I baratri venivano usati per l'occultamento di cadaveri con tre scopi: eliminare gli oppositori politici e i cittadini italiani che si opponevano (o avrebbero potuto opporsi) alle politiche del Partito Comunista Jugoslavo di Tito; dominare e terrorizzare la popolazione italiana delle zone contese ed in qualche caso vendicarsi di nemici personali, magari per ottenere un immediato beneficio patrimoniale. 
Nelle foibe sono stati gettati molti dei cadaveri delle persone eliminate dai partigiani jugoslavi. Le vittime civili e militari sono state fucilate e gettate in foiba. In alcuni casi, come è stato possibile documentare, furono precipitate nell'abisso non colpite o solo ferite.




Tra i caduti figurano membri del Partito nazionale fascista, ufficiali e funzionari pubblici, parte dell’alta dirigenza italiana contraria sia al comunismo, sia al fascismo (tra cui compaiono numerosi capi di organizzazioni partigiane anti-fasciste) sloveni e croati anti-comunisti, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini. 
Nel dopoguerra e dopo, non furono mai effettuate stime scientifiche del numero delle vittime, che venivano usualmente indicate in 15.000 (e talvolta 20.000). Studi rigorosi sono stati effettuati solo a partire dagli anni '90. Una quantificazione precisa è impossibile, vi è infatti una generale mancanza di documenti, che spesso non furono nemmeno emanati dalle autorità jugoslave. Il governo jugoslavo (e successivamente quello croato) non ha inoltre mai accettato di partecipare a inchieste per determinare il numero di decessi.
Gli studi effettuati valutano il numero delle vittime come compreso tra le 5.000 e le 11.000.
Non va inoltre dimenticato che gli infoibati in senso stretto sono solo una parte delle vittime, che in grande maggioranza scomparvero nei campi di concentramento e nelle prigioni jugoslave. 

« ... va ricordato l'imperdonabile orrore contro l'umanità costituito dalle foibe (...) e va ricordata (...) la "congiura del silenzio", "la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell'oblio". 
Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell'aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell'averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali. » 

- Giorgio Napolitano - 



Preghiera per i martiri delle “foibe”

O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre,
dalle profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te.
Ascolta, o Signore, la nostra voce. 

De profundis clamo ad Te, Domine.
Domine, audi vocem meam.

Oggi tutti i Morti attendono una preghiera, un gesto di pietà, un ricordo di affetto. E anche noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l’insegnamento 
che sale dal sacrificio di questi Morti.
E ci rivolgiamo a Te, perché tu hai raccolto l’ultimo loro grido, 
l’ultimo loro respiro.

Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace.
In trent’anni due guerre, come due bufere di fuoco, sono passate attraverso queste colline carsiche; hanno seminato la morte tra queste rocce e questi cespugli; hanno riempito cimiteri e ospedali; hanno anche scatenato qualche volta l’incontrollata violenza, seminatrice di delitti e di odio.

Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua Pace, una pace che sia riposo tranquillo per i Morti e sia serenità di lavoro e di fede per i vivi.
Fa che gli uomini, spaventati dalle conseguenze terribili del loro odio e attratti dalla soavità del Tuo Vangelo, ritornino, come il figlio prodigo, nella Tua casa per sentirsi e amarsi tutti come figli dello stesso Padre.


Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il Tuo Nome, 
venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà.
Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi nostri Morti, profonda come le voragini che li accolgono.

Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore dei Tuo Volto.

E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà.
Tu ci hai detto: Beati i misericordiosi perché otterranno misericordia, beati i pacificatori perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, 
perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità.

O signore, a questi nostri Morti senza nome ma da Te conosciuti e amati, dona la Tua pace. Risplenda a loro la Luce perpetua e brilli la Tua Luce anche sulla nostra terra e nei nostri cuori, E per il loro sacrificio fa che le speranze dei buoni fioriscano.

Domine, coram te est omne desiderium meum et gemitus meus te non latet. Così sia”.

composta nel 1959 da Mons. Antonio Santin, Arcivescovo di Trieste e Capodistria



Buona giornata a tutti. :-)