Il romanzo è ambientato ad Orano, una
città algerina, in qualche anno del 1940 e dintorni, dove "nulla poteva
far presagire ai nostri concittadini gli incidenti che si verificarono nella
primavera di quell’anno e che furono quasi i primi segni della serie di gravi
avvenimenti".
Tutto comincia con una moria di topi e con un vecchio portiere che li raccatta
stecchiti dall’androne del palazzo. Sarà lui, dodici giorni dopo, il primo ad
ammalarsi. Il suo medico visitandolo pensa: "Bisogna isolarlo e tentare
una cura d’eccezione". Ma il paziente muore in fretta. Molti seguiranno
per quella che all’inizio è una "misteriosa febbre" che si propaga
veloce in una città dove tutti, cittadini e medici, sono impreparati. E questo
nonostante i flagelli siano "una cosa comune, ma si crede difficilmente ai
flagelli quando ti piombano sulla testa".
Governo e medici isolano i nuovi malati, ma sono attenti a cosa dire perché
"l’opinione pubblica è cosa sacra: niente terrore". E la parola peste
è dapprima solo nei discorsi a porte chiuse, dove qualcuno ricorda lo strano
caso di Canton (città costiera a Sud della Cina) dove "quarantamila topi
erano morti di peste prima che il flagello s’interessasse degli abitanti".
Dopo vari ragionamenti e tentennamenti la verità si impone: "Quello che
bisognava fare era riconoscere chiaramente quello che doveva essere
riconosciuto, cacciare infine le ombre inutili e prendere le misure necessarie.
Poi la peste si sarebbe fermata".
Ed allora ecco i reparti dedicati in ospedale e poi un ospedale ausiliario e,
con il lievitare incessante di contagi e decessi, l’estrema ratio della
chiusura della città. Solo allora: "Si accorsero tutti di essere presi nel
medesimo sacco e che bisognava cavarsela".
Ci fu chi si trovò separato dalla famiglia, perché uscito per lavoro non poté
rientrare. Chi, arrivato in città per lavoro, non ottenne il permesso di
lasciarla: come il nostro ragazzo di Grado, riportato in patria da Wuhan da un
aereo militare italiano; come a Rambert, che nel romanzo è un giornalista
inviato a seguire il caso, che vive l’epidemia tra il dovere di cronaca e il
desiderio di ritornare dalla sua amata. E’ lui uno dei personaggi principali
del volume insieme all’eroe della storia, il medico Rieux. Fanno da contorno
altre storie: c’è chi cerca di uccidersi ma finisce col dedicarsi al censimento
dei casi; chi - come i medici allora come oggi - lavora senza sosta per dare
sollievo a chi è catturato dal male; chi come i religiosi decise "di
lottare contro la peste coi propri mezzi e organizzando una settimana di
preghiere collettive".
Tra i personaggi c’è pure la città stessa che cambia, che perde la sua
normalità ("persino il commercio era morto di peste") e assume un
volto nuovo, non sempre perfetto, talvolta meschino (come le introvabili
pastiglie di menta dalle farmacie "molti le succhiavano per premunirsi da
un eventuale contagio"), eppure capace di un’impensabile capacità di
consentire la vita con i suoi ristoranti, le persone ancora a passeggio per le
strade o nei caffè (dove è pur vero era sparito lo zucchero sfuso e ciascuno
doveva portarselo da sé), e perfino con qualche proibito tuffo in mare.
Tanto resta da raccontare e lo lasciamo alle pagine del libro dove il morbo
continua a lungo, mordendo la città per dieci mesi. Comincia in aprile, attraversa
l’estate, supera uno strano e vuoto Natale, oltrepassa anche Capodanno…-
E per il pentimento, ciascuno si
sentiva forte. Venuto il momento, lo si proverebbe sicuramente. Di qui, la cosa
più facile era lasciarsi andare, la misericordia divina avrebbe fatto il resto.
Ebbene, questo non poteva durare! Dio, che per tanto tempo ha chinato sugli
uomini di questa città il suo volto di pietà, stanco di aspettare, deluso nella
sua eterna speranza, ora ne ha distolto lo sguardo. Privi della luce di Dio,
eccoci per molto tempo nelle tenebre della peste! [...]
I nostri concittadini non erano più
colpevoli d'altri, dimenticavano di essere modesti, ecco tutto, e pensavano che
tutto era ancora possibile per loro, il che supponeva impossibili i flagelli.
Continuavano a concludere affari e a preparare viaggi, avevano delle opinioni.
Come avrebbero pensato alla peste, che sopprime il futuro, i mutamenti di luogo
e le discussioni? Essi si credevano liberi, e nessuno sarà mai libero sino a
tanto che ci saranno i flagelli. [...]
Molti speravano sempre che l'epidemia
si sarebbe fermata e che loro, con la famiglia, sarebbero stati risparmiati. Di
conseguenza, non si sentivano ancora obbligati a nulla. Per essi la peste non
era che una spiacevole visitatrice, che doveva andarsene un giorno, com'era
venuta. Spaventati, ma non disperati, non era ancor giunto il momento in cui la
peste gli sarebbe apparsa come la forma stessa della loro vita e in cui avrebbero
dimenticato l'esistenza che avevano potuto condurre prima del morbo.
Negavano tranquillamente, contro ogni evidenza, che noi avessimo mai conosciuto un mondo insensato, in cui l’uccisione d’un uomo era quotidiana al pari di quella delle mosche, negavano quella barbarie ben definita, quel calcolato delirio, quell’imprigionamento che portava con sé una terribile libertà nei riguardi di tutto quanto non fosse il presente, quell’odore di morte che instupidiva tutti quelli che non uccideva, negavano insomma che noi eravamo stati un popolo stordito, di cui tutti i giorni una parte, stipata nella bocca d’un forno, carica delle catene dell’impotenza e della paura, aspettava il suo turno.
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