La preghiera non intristisce? Non toglie il gusto della vita?
Non rende incapaci di sorridere? Non lega ad una maschera di ascetica truce? Non impone il disinteresse per ciò che passa?
Non consegna ad una fatalità senza
scampo, a cui occorre soltanto piegarsi, come giunchi al passare della
corrente?...
Niente, e così sia: e ci teniamo la
nostra mestizia. Insomma, i credenti che pregano, sanno ancora cantare,
raccontare una barzelletta, godere delle cose di ogni giorno? Nel mondo d'oggi
fan da orchestra o da platea?...
Verrebbe voglia di prendere in
contropiede le domande.
Davvero viviamo in un mondo che scoppia dalla felicità?
O ridiamo a comando: quando il comico
giunge alla battuta e alla televisione, fuori campo, compare il cartello
luminoso: «applausi», e tutti battono le mani come collegiali? E il comico è
felice, dentro; o fa il mestiere di suscitare l'ilarità? E son canti di
allegria quelli che si ascoltano al juke-box - e magari non si capisce una
parola -, o sono un modo di coprire col rumore una tristezza che non si riesce
ad accettare? E gli stessi giovani, che dovrebbero essere il domani, la
speranza, la freschezza dell'esistenza, son davvero felici, spensierati e
serenamente impegnati come talvolta si assicura? O affogano spesso nella noia?
O si inaspriscono spesso nella rabbia, nell'odio?
Non vale imbastire polemiche. Ma
occorre pure accordarsi su che cosa voglia dire gioia, serenità, pace,
allegria. È il chiasso della bisboccia? È l'evasione dai problemi? È il darsi
pacche sulle spalle? È lo stordirsi fino all'esaurimento?...
Torniamo alla preghiera.
C'è un «test» infallibile per valutare se si tratta di preghiera autentica o di
contraffazione. Ed è questo: vedere se ci si alza dal colloquio con Dio
rasserenati ed impegnati al tempo stesso, o se ci si alza affranti o
irritati.
Nel secondo caso, quel che si è fatto
non è preghiera: è narcisismo; un guardarsi allo specchio per detestarsi - ne
abbiamo tutti i motivi - o per compiacerci - fa tenerezza questa candida e un
po' stupida esaltazione di noi stessi -; o è un caricarci di aggressività: il
prender coscienza delle esigenze dell'uomo e il buttarci con risentimento, con
disperazione nel nostro compito di aiutare i fratelli, camusianamente, senza
neppure la consolazione d'avere un Dio da bestemmiare, contro cui avventarci.
No, la preghiera vera è genesi d'umorismo.
D'umorismo, che è cosa diversa
dall'ironia e dal sarcasmo.
L'ironia è atteggiamento freddo,
arido, distaccato.
Il sarcasmo è perfino disprezzo e
volontà di distruzione: parte da uno scetticismo cattivo che mette in ridicolo
per umiliare, per annientare... L'umorismo... L'umorismo, dicevo, è frutto
della preghiera. Bisogna chiederlo al Signore perché è arte difficile, e non
sempre la natura lo consente pienamente.
È un osservare le persone e le cose con simpatia, sapendo cogliere gli aspetti
positivi anche là dove tutto sembrerebbe da condannare - il mezzo bicchiere
pieno, non il mezzo bicchiere vuoto -; è un riuscire a godere delle vicende più
usuali, quelle che càpitano nei giorni qualsiasi e che ci lasciamo scivolare
accanto senza neppure badarci... E tutto ciò non con l'aria indifferente del
disinteressato, dallo scettico blu, ma con la partecipazione cordiale di chi
vuole costruire la storia, mutare il mondo, o non so cosa; ma pure non si
lascia impaurire dall'ultimo fatto di cronaca: guarda lontano e si impegna come
può.
Come Dio, questo supremo
barzellettista e comico che «gioca - dice la Scrittura - nel mondo», ma pure vi
è presente fino a morirne...
La preghiera: consola e spinge ad assumere le proprie responsabilità.
Non c'è ideologia che riesca a
consolare una donna brutta.
Non c'è politica che riesca ad
esigere, col pane, i gerani alla finestra... Eppure si tratta di cose
importanti...
Lasciatemi ripetere una frase vietata, amici: un cristiano triste è un triste
cristiano. Per invitare a pregare.
- Alessandro Maggiolini Mons. -
- San Giovanni Bosco -
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